Il bosco è un mondo
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Il bosco è un mondo

Alberi e boschi da salvaguardare in Italia

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Il bosco è un mondo

Alberi e boschi da salvaguardare in Italia

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Soltanto Tiziano Fratus poteva scrivere questo libro. Nessuno conosce i boschi e gli alberi come lui ed è per tale ragione che, questa volta, servendosi delle sue peculiari e sterminate conoscenze al riguardo, costruisce un volume che ci aiuta a scoprire gli alberi e i boschi d'Italia e in particolare quelli che potrebbero rischiare, per incuria, cementificazione o cattiva amministrazione, di scomparire o deperire. Le faggete vetuste del Cansiglio e d'Abruzzo, gli alberi esotici di Ferrara e Trieste, i grandi castagni del Piemonte e dell'Appennino, i ficus di Reggio Calabria, i tassi di Sardegna sono alcuni dei protagonisti di questa storia corale che ci riguarda da vicino. Il loro essere a rischio per l'intervento diretto dell'uomo o per il cambiamento climatico è un grave danno per il nostro patrimonio storico e naturalistico. Nel nostro mondo la natura primigenia è stata grandemente modificata e dissacrata dalla mano e dal pensiero riduttivo e addomesticante dell' Homo sapiens.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858428252
Categoria
Travel
Quarto bosco

Costellazioni di grandi alberi

Il ligure e appartato Francesco Biamonti, probabilmente lo scrittore italiano del Novecento che amo maggiormente, aveva un rapporto intimo con gli alberi. Coltivatore di mimose e ammiratore degli ulivi, presenza costante dei suoi paesaggi costieri e di confine, cosí come possiamo oggi ritrovare nei suoi esili romanzi, Vento largo, Attesa sul mare, Le parole la notte, L’angelo di Avrigue, Il silenzio. Dal racconto postumo, Il silenzio, cito una delle frasi che preferisco: «A me piace quando piove. Mi sembra di bere insieme agli alberi». Un’immagine che ha il dono di farmi tornare bambino, incerto, titubante, agli inizi di ogni cosa.
Mi piace tracciare sentieri in un bosco, forse piú nelle selve di carta e inchiostro che nei boschi concreti, dove tendo a non intervenire affatto: raramente sposto un ramo, a meno che non intralci il passaggio. Mi si è disvelata un’attitudine a lasciare tutto cosí com’è. Intatto, e disordinato a suo modo. In un libro invece mi piace sottolineare, a matita o a penna, cerchiare nomi e termini di cui non conosco l’esatto significato, sentinelle che aprono nuovi potenziali sentieri.
Fra gli innumerevoli percorsi che si potrebbero battere attraversando la nostra ancor bella Italia, il dendrosofo e il cercatore d’alberi seriale potrebbero scegliere di navigare le città, le periferie, le campagne, le montagne, le isole. Ciascun territorio ospita grandi esemplari, talora giganteschi, ultrasecolari, scultorei. In questo quarto tempo del libro ho disegnato nove itinerari. Inizio con le mie amate conifere a quota duemila metri, in una vera e propria «foresta scolpita», uno di quei boschi abbarbicati ai piedi delle rocce, ultime istanze di una natura che sa camminare sotto le nuvole, resilienza all’azione severa di inverni nevosi e glaciali ed estati secche e torride, segnati dalla voracità instancabile degli elementi. Proseguo incamminandomi nelle città di Varese, Trieste, Ferrara, Vicenza e Reggio Calabria, alcune insospettabilmente «amiche» degli alberi. Illustro alcuni grandi faggi, i nostri «alberi elefante» per eccellenza, nonché la specie arborea piú presente in Italia: i sovrani dei nostri boschi. Incontro il tasso, autoctono, l’albero della morte che sa attraversare i secoli e talora i millenni, esemplari voluti dagli umani. Accarezzo larici, pini e abeti, i soldati del nostro paesaggio montano, le materne querce, gli esotici ficus, e cedri, araucarie, zelkove, qualche amatissima sequoia. Buona contemplazione.

Prima costellazione. Gli alberi nube del Lagorai.

Oceano Val di Fiemme.

Da tanti anni volevo dedicare alcuni giorni a visitare la Wilderness tratteggiata fra i rilievi montani del Lagorai. Ne avevo spesso sentito parlare come di un luogo di grandi alberi, in primis colossali esemplari di Pinus cembra, diversi secoli concresciuti sulle radici. Il Tibet delle Dolomiti: qualcuno ne ha sintetizzato lo spirito con queste parole. Dunque, a cavallo dell’ultima corsa dell’autunno e prima dell’arrivo delle nevi e del gelo raggiungo le vaste popolazioni arboree della Val di Fiemme. Fleimstal. Mi accompagna l’ultima parte dell’autunno, in un novembre particolarmente secco, e un piccolo trattato, mattoncino della mia personale biblioteca speculativa: Tacet di padre Giovanni Pozzi. Tacere per imparare ad ascoltare, tacere per apprendere i rudimenti del saper ammirare, tacere per smettere di abitare i folti e animati boschi della mente. Ricezione, percezione, compenetrazione: tacere quale metodo di immersione in natura, abbandonarci alla dispersione del caos che ci abita, affievolire quel «magistero del disordine» di cui ho spesso scritto. Presentarsi su uno sperone di roccia e offrirci alla foresta, spalancarci, farci inondare, la natura deve poterci impressionare come fa la luce su una pellicola.
Le genti transitavano e operavano in Val di Fiemme e in Lagorai ai tempi dei Romani, come testimonia un’iscrizione scolpita su roccia alla base del Monte Pergol: Finis inter / Trid(entinos) et Feltr(inos) / lim(es) lat(us) p(edes) IIII. Ossia: confine fra Tridentini e Feltrini. Limite largo quattro piedi. Al tempo i territori erano divisi fra Trento e Feltre, a cui apparteneva ad esempio la Valsugana. In epoca medioevale la gestione del territorio rientrava sotto la Comunitas Vallis Flemmarum, di cui erano parte le Regole, come avveniva nei territori bellunesi. L’entità giuridica era la Regola. La prima lista di Regole risale al 1234, un documento compilato a Egna: ne erano parte Castello, Carano, Daiano, Cavalese-Varena, Tesero, Costa di Predazzo, Moena. A seconda dell’importanza e della dimensione, ogni Regola nominava per un anno uno o piú regolani, che sedevano in un consiglio nel quale si decideva il destino delle risorse, acque, raccolti, strade, ponti e ordine, e quindi anche l’utilizzo del bosco, che veniva «ingazato», ovvero destinato. Nei secoli successivi si costituisce la Magnifica comunità di Fiemme. Oggi in valle si certifica la presenza di trentamila ettari di foreste, ventimila ettari di aree protette, duecento chilometri di percorsi forestali, fra i quali i parchi naturali del Monte Corno e di Paneveggio, celebre per il lago e le abetine in cui si muoveva Antonio Stradivari in cerca dei legni per i violini.
In Trentino ha operato un appassionato cercatore di grandi alberi: Marcello Mazzucchi. Al suo operato devo la scoperta dei grandi alberi del Lagorai, e anche di quella perla che si trova in Val del Saènt, all’interno del Parco nazionale dello Stelvio, dove mi sono rintanato diverse volte, in cima alla Val di Sole, dove si snodano le centinaia di scalini che vanno a tracciare la Scalinata dei larici monumentali (ne ho redatto un resoconto uscito sulla «Stampa» e a seguire nel volume Il sole che nessuno vede). In internet circolano ancora gli echi delle sue ricerche e delle sue misurazioni. Ora il Lagorai è per molti amanti della montagna un puzzle di luoghi fra i piú piacevoli e ben gestiti, costellato di malghe accoglienti e di lunghi sentieri adeguatamente segnalati, di cui la Val di Fiemme ne è il richiamo piú celebrato. In questo oceano dove sventolano sessanta milioni di alberi, la coltivazione di boschi subalpini – abetine, lariceti, peccete, cembrete – è condizione sufficiente e necessaria per andare a incontrare, dopo secoli e secoli, diversi grandi alberi che sono stati a rischio fino a pochi decenni fa. Basti ricordare la storia del Re Leone, il piú grande pino cembro dell’arco alpino italiano. Soltanto nel 1970 si era dato ordine di abbatterlo ma Leone, il forestale incaricato, si rifiutò e da quel gesto si iniziò a proteggerlo. Erano le stagioni della prima Operazione Grande Albero voluta dal Tassi nel Parco d’Abruzzo, di alberi monumentali ancora non si parlava e di patriarchi vegetali protetti non ve n’erano molti, in Italia. Le prime leggi regionali dedicate alla salvaguardia dell’albero monumento si sarebbero poi concretizzate fra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. La geografia oggi conosciuta dei grandi alberi del Lagorai è in buona misura quella descritta in due testi dal Mazzucchi, opere edite nel biennio 2003-2004 dall’Azienda di promozione turistica della Val di Fiemme di Cavalese: 14 alberi monumentali della Val di Fiemme e Alla scoperta degli alberi monumentali delle foreste di Fiemme.
Seguo un itinerario che nel corso degli anni mi è divenuto familiare. Torino, Milano, Peschiera del Garda, Trento. A Trento Nord abbandono l’autostrada e imbocco la statale 47 per la Valsugana, Pergine e Borgo Valsugana (dove sono già stato in precedenza ad ammirare le «opere in natura» (Art in nature) di Arte Sella e il faggio la Grande Madre del Bosco in Val dei Mocheni (vedi la terza costellazione). A Borgo devio ai tornanti della provinciale 31 per il Passo Mànghen. Le case lasciano spazio ai prati da pascolo e agli abeti, ai larici, ai pioppi e alle betulle. Nella parte piú alta, dai 1750 metri, i pascoli si seccano, le chiome dei larici ingialliscono e il vento inizia a soffiare, scuotendo fronde già rade e tremolanti, le poche bave di nuvola caracollano sui crinali rocciosi. A terra si avvistano timide spruzzate di neve. Il sole colpisce i tronchi chirurgicamente, tanto da lasciare alle ombre lo spazio fra corteccia e corteccia. Cespugli di pino mugo. A una delle ultime curve prima del passo incontro il primo grande cembro della giornata – siamo al chilometro 21 e 500. Lo si vede nello spicchio di terra che occupa il tornante. Sopra i due metri il tronco apre le prime tre branche primarie. Corridoi di luce lo risalgono, la resina è copiosa e il suo profumo si sparge nell’aria tiepida. 412 cm di circonferenza, a valle. Per un pino cembro si tratta già di una misura considerevole, prossima a quella dei maggiori che ho documentato in Alevè e a Lerosa, due delle nostre piú riconosciute cembrete. Sbucando sul passo mi accorgo che spira un vento terribile. Trovo il parcheggio davanti alla baita del Mànghen, scendendo vengo investito da una furia gelida che non credo di poter frenare con la mia giacca invernale, il berretto di lana e i guanti. L’oste, una signora gentile che rivedrò anche nei giorni a seguire, mi sconsiglia di affrontare il cammino, sia perché è lungo, sia perché col vento è difficile. Un’ora di cammino per giungere al lago delle Buse, e di lí forse altrettanto per il Re Leone. Mi mostra la sua copia del libro del Mazzucchi, finalmente lo posso sfogliare. Ogni albero è corredato da una cartina che è leggermente differente rispetto a quelle che avevo rintracciato sui siti in internet. In apertura ci sono questi versi: «Ti chiamano con il vento e poi | nel silenzio, | iniziano a raccontare». All’anno 2000, il territorio della Val di Fiemme era ricoperto per il 60 per cento da bosco, il 20 per cento da praterie alpine, un 12 per cento da rocce e torrenti, infine sei per cento da prati di fondovalle. Le aree urbane occupavano un minuscolo due per cento. Ogni minuto che passa il bosco si accresce di circa due metri quadri, ogni anno di cento ettari. Una creatura vorace.

Abeti straordinari.

Il primo albero segnalato che incontro si chiama Torre di Pisa. Si trova sulla strada che dal Passo Mànghen scende a Castello - Molina di Fiemme. A circa un chilometro di distanza dal rifugio, ci si passa sotto. Prima però, alla curva del chilometro 24, incontro un altro cirmolo, alto diciassette-diciotto metri, vista sul versante di boschi e rocce dove transita il sentiero 322 A Translagorai, che dovrò percorrere per raggiungere il Re Leone. Lo misuro: 380 cm. Tronco panoramico. Torre di Pisa è sbilenco, spinge il collo e la testa sopra la carreggiata. Alla base le radici si allungano e ne nasce un altro giovane albero. L’altezza si aggira fra i 12 e i 15 metri. La strada degrada e si attraversano immense muraglie di abeti, una foresta fra le piú fitte che abbia attraversato. Mi pare di poter finalmente fare un confronto con le distanze selvatiche di una certa California interna. Ci sono sedici chilometri di solitudine fino al boschetto nel quale sorge l’albergo Pineta, a poche centinaia di metri dall’abitato. Non incontro nessuno, come se fossi un superstite, il «superstite» del romanzo di Carlo Cassola, storia di un cane che sopravvive al disastro atomico, come se il mondo fosse tutto mio. Ruscelli che appaiono e subito dopo scompaiono. Parcelle integre, sontuose, regolari, ordinatissime, e appena abbattute, i tronchi accatastati, sramati.
Ponte sul torrente Avisio, alla rotonda a sinistra si va per Trento, a destra si imbocca la 232 per la Val di Fiemme. Prima di Cavalese, sulla destra, c’è una deviazione per la frazione Cascata, che prende il nome da un incantevole flusso d’acqua che salta e si rovescia sulle rocce. Tornerò qui le mattine seguenti a meditare. Non è alta, poche decine di metri, si allarga a ventaglio. Poco prima del parcheggio c’è una deviazione per la Val Moena e un cartello indica «Albero monumentale - Pezo del Gazolin (20 minuti a piedi)». Curve su strada bianca, meno di un chilometro, a sinistra si incontra una freccia che indica «Bosco Gazolin - Ponte Tabià». Parcheggio al primo slargo e mi incammino. Abeti, a sinistra il sentiero transita nel mezzo di due abeti dritti, hanno le radici che si abbracciano. O meglio: uno dei due le ha allungate fino all’altro. Si sale e si sbuca su un prato, che va attraversato risalendo a monte, a una sterrata, a sinistra una sbarra segnala la presenza di una strada dritta che sprofonda nel bosco. Sentiero 1. Rocce muschiate finché spunta, in lontananza, a fianco della strada, il grande piede, un «abesauro». Le radici si sono allargate sul terreno e sono adagiate su un sasso. Un cartello riporta i dati ufficiali: altezza 30 metri, circonferenza del tronco 450 cm, anno stimato di nascita dell’albero: 1798. Duecentoventi anni, dunque. Dopo averlo ammirato lo misuro: 460 cm a circa due metri di altezza a valle, 445 cm a monte. Splendida e radiale la «corona di spine», la decorazione di ramificazioni che fuoriescono a centinaia dal tronco. Non è alto quanto lo era l’Avez del Prinzipe, o il Re dell’Abetone, sull’Appennino tosco-emiliano, ma appare piú largo. Alla base si possono ammirare diversi «serpentoni lignei», alcuni anche sterrati, sollevati come se avesse intenzione di andarsene. Di tanto in tanto mi raggiunge una pioggia di aghi: una benedizione dell’albero? Al rientro gli ultimi bagliori del tramonto si manifestano, la luce dorata sfarfalla sui tronchi, avvicina a quel tempo senza tempo che prima o poi si finisce per sognare. Scampanaccio di mucche di rientro dai pascoli, fragorio meccanico in risalita dalla provinciale prima che dal fondo degli alberi si sparga la notte che ogni cosa, viva o non viva, decolora e avvolge. Questi sono i giorni delle foglie gialle dell’acero mentre i larici attendono ancora per defogliarsi completamente. Pochi attimi e una luna appena segnata, nuova, si erge sopra il confine tatuato delle montagne che chiudono la valle. All’albergo il cielo notturno mi offre lo spettacolo di una complessità di stelle, era dall’ultimo viaggio in Sardegna che non ne vedevo cosí tante.
Il giorno dopo rimbocco la 232 e arrivo al paese di Tésero, deviazione per frazione Lago. Si supera il torrente e si prosegue per le malghe, seguendo per Piasina, finché la strada asfaltata lascia il posto allo sterrato. Al parcheggio una tabella è dedicata ai grandi alberi. Il sentiero detto degli Avezi (abeti) è lungo 3650 metri, tempo previsto un’ora e venti minuti. L’albero che sto cercando è l’abete piú ampio della Val di Fiemme, chiamato il Maestro, o il Maestro degli Avezi o anche il Maestro dei Pertegari, nome del bosco dove sorge. A piedi si supera un ponte e si arriva alla deviazione, sulla sinistra, per l’albero: distanza 1000 metri. Il posto si chiama Val dal Bus. Si entra nel bosco e si risale a zigzag. Sentiero pietroso, si arranca affannosamente. Si costeggia un rio che ha scavato un piccolo canyon, pareti muschiate. Alle 9 di mattina è ancora tutto in ombra. Gli abeti si sollevano sulle punte e raggiungono altezze notevoli, fra i 35 e i 40 metri. Alcuni sono precipitati e si sono sfaldati. Lo sguardo viene continuamente disciplinato dai segni verticali, trascinano come scale a pioli verso terra o verso l’alto. Non avevo mai riflettuto sul potere pacificante di un bosco verticale, ne avevo – e quante volte, in quanti luoghi, Paesi, continenti – constatato la presenza, la possanza, il silenzio che li custodisce. Un venticello a tratti percorre il sottobosco e agita foglie ed erbe. L’ordine dello spazio regolato dagli abeti verticali opera e s’impone nella mia mente, come un pentagramma che ammaestra le note musicali. Nelle selve che amo si presenta questo ordine terrestre, luterano, che mi aiuta, che stampella i pensieri che in certe ore amano rincorrersi furiosi. Terapia.
Prossimo al ruscello, al secondo tornante, un abete si solleva dopo una lieve incertezza alla «caviglia». Si manifesta in tutta la sua maestosa tensione, almeno tre i metri di circonferenza del tronco. Il sentiero volge a destra e si arrampica su un costone, si penetra in un paesaggio di Quaternario, rocce e macchie di sole sulle fronde, in cima, la volta del bosco inizia a entrare nelle ore del giorno. Continuando a salire il sentiero si riduce e il bosco si avvicina.
Il sentiero ripiana e si approda finalmente ai piedi di un bell’abete bianco. Un cartello ne segnala il nome. A una trentina di passi un secondo cartello, simile a quello visto a inizio sentiero. E dopo, lí dietro, un altro gigante, con la chioma rada, ma forse anche piú largo del precedente. Eppure il Maestro è il primo. Viene presentato come il piú vasto abete della valle, 49 metri di altezza, volume del tronco pari a 25 metri cubi, 300 i quintali di peso stimati. General Sherman Tree, in California, è il maggiore albero per volume del pianeta, 1320 metri cubi (all’anno 1976, dato estrapolato da To Find the Biggest Tree di Wendell D. Flint). Ossia: un cinquantesimo. Il Maestro mi si concede con tranquillità, il terreno è poco scosceso, non arricciato come il Peza del Gazolin. 520 cm di circonferenza del tronco a valle, 480 cm a monte. Il sentiero che gli sfila accanto si inerpica fra altri undici fusti secolari. Il vegliardo stanco che vedevo accanto al secondo cartello è invece cresciuto in pendenza, la parte basale ha un aspetto spettrale e le misure smentiscono la sensazione che sia piú vasto: 430 cm a monte, 500 a valle (a circa due metri di altezza). La «pancia» si allarga, la luce filtra dalle cime che lo circondano, i suoi bracci spogli e saettanti, la sua solitudine materica, possono ricordare l’arcaicità delle sculture di Anselm Kiefer. È un anziano sovrano in pensione. Il Maestro suggerisce stabilità, vigore. Inquadrandolo nell’obiettivo mi chiarisco, una volta ancora, cosa possa significare autenticità, in fotografia. Ai nostri giorni va per la maggiore la spettacolarità, la natura deve mostrare i muscoli, essere iperbole di colore e forma, inseguire l’effetto speciale, come al cinema. Per quanto mi riguarda, al contrario, apprezzo una immagine severa, essenziale, precisa e pulita. Nitidi sguardi e nitidi dettagli di realtà. Non una fotografia che riscrive ciò che esiste, che tenti di migliorarlo, di amplificarlo, di sovrascriverlo; piuttosto una fotografia che dettagli la natura, il paesaggio, e i volti, e i corpi, e il mondo. La poesia d’altronde dimora nell’occhio – e nell’orecchio – di chi scatta quanto di chi osserva e ascolta.

Grove dei cirmoli giganti.
Cembrete del Passo Manghen - Sentiero del Re Leone, Pian delle Fave.

Ho visitato diversi boschi di pini cembri secolari e ultrasecolari, dispersi sull’arco alpino. Fra questi ricordo con emozione il bosco dell’Alevè in Val Varaita (Piemonte), la forcella o foresta di Lerosa sopra Cortina d’Ampezzo (Veneto), i pini primigenei dell’Alpe di Tramin in Val Sarentino (Alto Adige), la cembreta di località Forni a Santa Caterina Valfurva, nel Parco nazionale dello Stelvio (Lombardia). Ne scrivevo nella Trilogia delle bocche monumentali. Ora, a questi luoghi magici affianco la cembreta discontinua che si attraversa lungo i sentieri intorno al Monte Ziolera (2478 m), fra il Passo Mànghen, punto di passaggio fra Valsugana e Val di Fiemme, e Pian delle Fave: è qui dove ho avvistato la maggior concentrazione di esemplari monumento. Un sentiero parte dal bar-ristorante Manghenhütte (altitudine metri 2042) e conduce al Re Leone. Purtroppo seguire il tracciato non è facile, l’usura del tempo e forse anche qualche sgarbo umano lo rendono scostante, proprio come la presenza delle conifere secolari che si addensano e scompaiono per poi ricomparire a seguito di dossi e depressioni.
Cielo splendido, una distesa di colore vivido appena steso, ancora da asciugare. Inizio del sentiero è una grotta dedicata ai morti di tutte le guerre, con fiori scolpiti e un Cristo in legno, minuscolo, semplicemente bello. A pochi passi si incontrano le prime frecce che indicano le distanze all’Eter...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Elenco delle illustrazioni
  4. Il bosco è un mondo
  5. Introduzione. Il rammendo. Perché tutelare grandi alberi e foreste vale quanto un comandamento
  6. Primo bosco. Pochi semi sparsi rappresentano il primo passo di una foresta
  7. Secondo bosco. La natura in pericolo
  8. Terzo bosco. Castanodonti d’Italia. Il castagno era il migliore amico dell’uomo
  9. Quarto bosco. Costellazioni di grandi alberi
  10. Appendici
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Copyright