Gli scomparsi
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Gli scomparsi

  1. 608 pagine
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Informazioni sul libro

Daniel Mendelsohn da bambino restava seduto per ore ad ascoltare i racconti del nonno. Erano storie di un tempo lontano e quasi magico, di un piccolo villaggio della Polonia, Bolechow, in cui la vita scorreva felice. C'era però un punto in cui la voce del nonno si rompeva, oltre il quale non riusciva ad andare, come volesse nascondere un segreto troppo doloroso. Che ne era stato durante l'Olocausto del fratello Shmiel, della moglie e delle loro quattro bellissime figlie? Molti anni dopo Daniel scopre una serie di lettere disperate che il prozio Shmiel aveva indirizzato al nonno. Quelle lettere custodiscono frammenti del passato di una generazione perseguitata e cancellata per sempre, che in queste pagine ritorna a vivere davanti ai nostri occhi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858428009
Parte quarta

Lech Lecha

ovvero
Parti dal tuo paese
(giugno 2003 - febbraio 2004)
Il male delle fonti, però, anche se veraci nell’intenzione, sta nell’imprecisione dei dati, nella propagazione allucinata delle notizie... La proliferazione persino delle fonti seconde e terze, quelle che hanno copiato, quelle che lo hanno fatto male, quelle che hanno ripetuto per sentito dire, quelle che hanno alterato in buona o in mala fede, quelle per le quali era lo stesso, e anche quelle che si sono proclamate unica, eterna e insostituibile verità, sospette queste ultime piú di tutte le altre.
JOSÉ SARAMAGO, Storia dell’assedio di Lisbona.
1.

La terra promessa

(Estate)
Era colpa di mio nonno se avevo sempre evitato di andare in Israele.
Non che non amasse Israele. Tutt’altro, mi aveva raccontato un sacco di storie che ne parlavano. Tanto per cominciare, quella ormai leggendaria del viaggio in Palestina di suo fratello, negli anni Trenta. «Appena in tempo!» esclamavamo all’unisono, ogniqualvolta mio nonno mi ricordava la favolosa e profetica decisione del fratello maggiore (il cui nome ebraico, Yitzhak, o Itzhak, in yiddish pronunciavamo ITZ-ik) di emigrare, appena cinque anni prima che il mondo precipitasse nel baratro, inconsapevoli che in questo modo stavamo tacitamente alludendo al destino dell’altro suo fratello, del quale non parlava mai. Mio nonno mi spiegava come, sollecitato da zia Miriam, fervente sionista, anche Itzhak si era alla fine allontanato dal campo gravitazionale di Bolechow, dal richiamo del passato, dall’attrazione esercitata da secoli di legami e vicende familiari, dando inizio a una nuova vita per sé e i suoi bambini, cugini di mia madre, che assunsero nomi israeliani; in questo modo l’unico Jäger della generazione di mio nonno che ebbe figli maschi, e poi nipoti e bisnipoti sempre maschi, aveva rinunciato al nome Jäger. E non solo: quando infine andai in Israele mi resi conto che parecchi dei numerosi discendenti di zio Itzhak ignoravano che in origine il loro cognome fosse Jäger.
Cosí zio Itzhak e zia Miriam si erano stabiliti in Israele, giusto in tempo per sfuggire all’abisso che inghiottí tutti gli altri. Lí ebbero figli e innumerevoli nipoti dai nomi strani, che a noi cugini americani suonavano gutturali, smozzicati e stranamente suadenti, un po’ come i personaggi dei film di fantascienza: Rami, Nomi, Gil, Gal, Tzakhi, Re’ut. In Israele si dedicarono ad attività che a quel tempo consideravo esotiche e ben poco interessanti, vivendo io in un mondo molto diverso: abitavano in dimore modeste all’interno di comuni agricole, lavoravano i campi, raccoglievano arance, combattevano guerre interminabili, si sposavano molto giovani, erano laboriosi e mettevano al mondo figli. Quand’ero bambino, un paio di volte l’anno ricevevamo da zia Miriam un aerogramma in carta velina, praticamente trasparente, con accluse (contravvenendo alle regole postali, ma all’epoca era una fiera socialista) patinate fotografie a colori del matrimonio di qualche parente; rimanevo immancabilmente colpito dal fatto che gli israeliani non indossavano mai cravatte, nemmeno le giacche, in occasione di quegli importanti eventi familiari. Un’inezia, direte, eppure ciò rafforzava in me l’idea che in fondo non fossero autentici Jäger, convinto com’ero che far parte di quella famiglia, cosí come essere ebreo, significasse possedere necessariamente le stesse caratteristiche che associavo a mio nonno: eleganza, attenzione all’etichetta (che in termini religiosi si traduceva in una stretta ortodossia, e in senso laico poteva tradursi nel fatto che in viaggio ci si vestiva esclusivamente in giacca e cravatta), sobrietà, tutte peculiarità chiaramente riconducibili all’Europa, non certo a un posto sperduto nel deserto.
Comunque sia, mio nonno aveva sempre nutrito un amore profondo per Israele. Amava raccontare la storia – e, dopo la sua morte, fu mia madre a tramandarla – di come, durante la votazione dell’Onu sulla fondazione dello stato di Israele, nel 1947, seduto sul davanzale del suo appartamento nel Bronx ascoltava ansiosamente la radio che trasmetteva le operazioni di scrutinio, annotando con precisione su un foglio i voti di ogni membro, tenendo in maniera meticolosa il conto, e di come poi alla fine urlò di gioia e pianse.
Dopo neanche dieci anni dalla fondazione di quel giovane Stato, ebbe luogo il leggendario viaggio, a bordo del grande transatlantico, che portò tra mille lussi i miei nonni nella loro patria d’origine, prima ancora dell’Europa, patria da poco rinata; un viaggio agli antipodi di quello fatto da Abraham sul piroscafo, una traversata inimmaginabile, difficile, tremenda. Nel febbraio del 1956 mio nonno, ritiratosi dal lavoro piuttosto presto dopo aver venduto l’azienda rilevata dai Mittelmark, a cui aveva dato il suo nome, JAEGER, si imbarcò con mia nonna sulla nave Stati Uniti, rinomata per la velocità, che li condusse da Itzhak e Miriam: del resto, non vedendo il fratello da piú di trentacinque anni, mio nonno poteva aspettare anche solo un minuto di piú prima di poterlo riabbracciare?
Si raccontavano numerose storie sulla piacevole traversata: i menú e la lista dei passeggeri – che mio nonno, e poi mia madre, conservarono scrupolosamente in buste di plastica (quando, vent’anni dopo la crociera, li vidi, sembravano nuovi di zecca) –, l’eleganza e la raffinatezza di quel modernissimo transatlantico, l’abbondanza e la varietà del cibo strettamente kosher, gli interminabili intrattenimenti a bordo. E si raccontavano storie sul primo momento di quella riunione famigliare attesa cosí tanto, quando all’approdo, avendo intravisto il fratello nella folla dall’altra parte della dogana e spazientito dalle operazioni di sbarco che andavano per le lunghe, mio nonno afferrò la mano della moglie e si precipitò urlando verso gli agenti e gli ufficiali israeliani dell’immigrazione: Non vedo mio fratello da trent’anni e non sarete certo voi a fermarmi! Arrestatemi pure!
Fu cosí che mio nonno giunse in Israele. In quella nazione appena fondata, che era allo stesso tempo una terra antichissima, lui e mia nonna trascorsero un anno intero. Mia madre racconta ancora che in quel periodo, quando ben difficilmente si facevano telefonate intercontinentali, suo padre la chiamò due volte: appena arrivati, e il giorno del suo compleanno. Comunque, nonostante si trovasse in un paese straniero, mio nonno continuò a essere se stesso, un istrione di natura; continuò a essere uno Jäger. Dal momento che aveva un istinto perfetto nell’adeguarsi alle varie circostanze, drammatiche o comiche che fossero (Adesso, Marlene, per prima cosa smetti di piangere. Lo sai che diventi brutta quando piangi...), tendeva a risvegliare, in chi lo apprezzava, lo stesso desiderio di compiere gesti eloquenti. Un esempio: mio nonno amava gli uccelli. Quando ero bambino, d’estate trascorreva un periodo da noi, lo andavamo a prendere all’aeroporto Kennedy; di tutti i bagagli, le numerose valigie e la borsa con le pillole, l’unica che insisteva a portare da sé, dopo che mio padre, probabilmente esasperato ma senza darlo a vedere, aveva caricato tutto in macchina, era la grossa gabbia tonda di Shloimeleh, il canarino. Salomone. Una mattina di luglio gli chiesi: «Perché l’uccello si chiama Shloimeleh?» Avevo quindici anni e mi stava dettando le sue ultime volontà (perché sapevo dattiloscrivere, perché ero cosí interessato alla storia di famiglia, per non turbare mia madre e perché ero sempre felice di passare del tempo da solo con lui). Pensava di frequente alla morte, ma in modo del tutto naturale, un po’ come si pensa a una visita, ancora lontana ma certa, di un amico d’infanzia a cui si sa già di non aver molto da dire.
Se dovessi morire di sabato o di venerdí notte
(mi dettò)
desidero che il corpo non sia mosso fino a sabato sera dopo il tramonto. Il rito funebre dovrà essere officiato dal Chewra Kadishu, non dall’impresa di pompe funebri. Date loro cento dollari a questo fine. Assicuratevi che la notte il mio corpo sia vegliato da un ebreo, e che venga recitato il Thilim. E spedite immediatamente centocinquanta dollari al Centro Joseph Zvi, a Gerusalemme, all’attenzione del signor Davidowitz, affinché reciti per me il Kaddish per un anno. Il mio nome è Abraham ben Elkana. Avvolgete il corpo con il mio tallis.
Perché l’uccello si chiama Shloimeleh? ripeté, dopo aver apposto la firma al documento con la sua amata penna stilografica blu. Come altro dovrebbe chiamarsi? È l’uccello piú intelligente con cui abbia mai parlato.
Fu per l’amore di mio nonno per gli uccelli che Itzhak, l’adorato fratello che a sua volta lo adorava, quell’anno che trascorse in Israele gli costruí una stia per piccioni sul tetto di casa, in modo che potesse sedersi lí al tramonto e osservarli.
Circolavano altre storie su quel viaggio in Israele, dove mio nonno faceva sempre la parte dell’eroe, grandioso e brillante. Tanto per citarne una, quando mia nonna finí l’insulina lui non si rivolse banalmente a farmacie o ospedali, ma chiamò il consolato americano e fece in modo che lo accompagnassero con una motolancia su una nave da guerra statunitense ancorata al largo, dove avevano una scorta di quel medicinale («Sai com’era fatto, – ha chiosato di recente mia madre, rispolverando l’episodio. – Non aveva paura di nessuno»). O quella di quando portò i piccoli ospiti di un orfanotrofio – solo adesso, troppo tardi, mi chiedo, di chi erano quei bambini – a fare una passeggiata nel parco, offrendo loro delle caramelle. «Questo dell’orfanotrofio era l’episodio preferito di tuo nonno, – ha ricordato mia madre l’altro giorno, quando le ho chiesto, tra le altre cose, del viaggio di suo padre in Israele. – Per questo ancora oggi mando dei soldi al Centro David Zvi». E dopo aver ridacchiato tra sé, ha proseguito: «Ricordo che mi disse: Quando tiro le cuoia, ogni anno, ogni vacanza, ogni yontiv, dovrete inviargli dei soldi. Ma sai, sono ebrei, ti succhierebbero tutto se potessero, quindi manda solo piccole somme!» È rimasta un attimo in silenzio, poi ha aggiunto senza che ce ne fosse il bisogno: «E cosí ho fatto».
Quindi mio nonno non si smentí neanche durante quell’anno trascorso in Israele. È strano, visto che rievocava spesso quel viaggio e il lungo soggiorno, che da piccolo sapessi cosí poco di Itzhak. Molto tempo dopo che mio nonno saltò nelle fredde acque della piscina al 1100 di West Avenue di Miami Beach, mi resi conto che non sapevo niente di Itzhak, dei drammi che avevano costellato la sua esistenza, eccetto la circostanza che avesse con lungimiranza lasciato Bolechow, spinto a questa scelta dal fervente spirito ideologico della moglie. Era come se mio nonno non ritenesse dovessimo sapere altro oltre al fatto che il fratello era stato: Uno Sveglio Abbastanza da Andarsene Appena in Tempo. Di Itzhak ero al corrente solo di due cose. Una la appresi da Elkana, quando infine andai in Israele: ogni volta che i figli piccoli (e poi i nipoti) gli chiedevano dei soldi per comprare un gelato o le caramelle suo padre, proprio come mio nonno, usava una spassosa e strampalata espressione, accompagnata da un sorriso: Chi credi che sia, grafpototski? Io stesso non avevo idea di cosa potesse significare quella parola, sciocca quanto buffa, che udivo in risposta alle mie suppliche per avere un nichelino o un quarto di dollaro. Del resto, quando anni dopo cominciai a studiare il tedesco e appresi che Graf vuol dire «conte», avevo ormai dimenticato quell’assurda espressione.
Questa era una delle due cose che sapevo di zio Itzhak. Fu mia madre a fornirmi un altro dettaglio che tratteggiava vividamente la sua personalità. Mi ripeteva sempre che, al pari di mio nonno, zio Itzhak possedeva uno spiccato senso dell’umorismo. L’unica fotografia che conservo di lui (a parte la foto tessera risalente al 1920, con sopra impressi due timbri, probabilmente scattata per un passaporto, dove appare snello, lo sguardo trasognato, un sorriso appena accennato e l’espressione lievemente preoccupata): un uomo di mezza età dall’aspetto rubicondo, robusto, con un sorriso caldo che dà l’idea di una persona sempre di buon umore (be’, ne aveva ben donde). Mia madre ricorda che da ragazza scriveva educate lettere allo zio mai conosciuto, copiando l’indirizzo datole dal padre: ITZHAK YAGER, via tal dei tali, Kiryiat Hayim, ISRAELE.
Di recente, rievocando questi particolari, mi ha detto ridendo: «E zio Itzhak mi rispondeva: “È questo il rispetto che mi porti? Hai scritto ITZHAK YAGER sulla busta. Hai dimenticato di scrivere SIGNOR ITZHAK YAGER!!».
Entrambi la trovavamo una cosa divertente, ma in realtà pensavo che quel senso dell’umorismo probabilmente avesse origine da una certa alta consapevolezza di sé, del posto che oc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gli scomparsi
  4. Parte prima. Bereishit. ovvero In principio (1967-2000)
  5. Parte seconda. Caino e Abele. ovvero Fratelli (1939-2001)
  6. Parte terza. Noach. ovvero La distruzione completa (marzo 2003)
  7. Parte terza. Lech Lecha. ovvero Parti dal tuo paese (giugno 2003 - febbraio 2004)
  8. Parte quinta. Vayeira. ovvero L’albero nel giardino (8 luglio 2005)
  9. In memoriam
  10. Post scriptum (Febbraio 2007)
  11. Nota dell’autore
  12. Ringraziamenti
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright