La condizione neomoderna
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La condizione neomoderna

  1. 144 pagine
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La condizione neomoderna

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Il postmoderno è morto. La tesi che proclamava la «fine» di ogni cosa (soggetto, verità, storia, morale) non è piú capace di intercettare i movimenti epocali del presente. Il postmoderno non ha compreso le sfide create dalla crisi di una parte della modernità: positivismo e idealismo hanno infatti radicalizzato alcune intuizioni moderne, finendo però per tradirle profondamente. I postmoderni hanno rigettato quei travisamenti insieme alla radice sana, rifiutando in blocco la modernità. Ora, dopo il fallimento di quella diagnosi, ci troviamo in una nuova modernità. I problemi dell'Europa fra Cinquecento e Seicento si ripresentano su scala globale e in forma accelerata: conflitti politici ed economici sostenuti da ideologie religiose, mutamenti radicali di scenari culturali e geopolitici, rivoluzioni scientifiche che cambiano la percezione dell'umano. Di fronte a queste sfide, tornano a essere necessarie e credibili proprio le idee moderne che il postmoderno credeva finite e che abbiamo bisogno di ripensare.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858427491
Capitolo secondo

Gli errori del postmodernismo

1. Il tramonto e la dialettica.

La filosofia del Novecento ha un debito rilevante nei confronti del postmodernismo. Come abbiamo visto, l’idea di postmoderno non nasce in filosofia e precede ampiamente le pur fortunate formulazioni che, da Lyotard in poi, si sono affermate in campo filosofico. È tuttavia in quest’ambito che, com’è naturale attendersi, si producono una radicalizzazione e una sistematizzazione degli spunti e delle intuizioni che la categoria di postmoderno ha raccolto soprattutto a partire dalla letteratura, dalle arti visive e dall’architettura.
In tal senso, come visto nel capitolo precedente, il postmodernismo filosofico presenta una serie di tesi in larga parte riconducibili all’immagine della fine. Questa cifra riassuntiva, ovvero la percezione dello svanire di un mondo – quello occidentale – che si è sempre avvertito come la totalità del reale, attraversa sotterraneamente tutta la prospettiva postmodernista. Le versioni filosofiche di questa diagnosi sul contemporaneo hanno specificato i diversi piani e i relativi oggetti di questa fine: fine della storia, fine della verità, fine del soggetto, fine dell’etica, fine dell’arte. Ogni dimensione fondamentale della cultura moderna è stata dichiarata morta, la sua parabola conclusa, la sua contraddizione disvelata. I programmi filosofici degli autori dediti alla riflessione sul postmoderno come epoca finale di una certa forma di società e di cultura hanno mirato a destrutturare la visione moderna del mondo in tutte le sue componenti. Le vediamo qui riassuntivamente, non rinunciando però a evidenziare la loro falsità filosofica, il loro errore teorico sia in termini generali sia in relazione a ciascun tema. La nostra argomentazione procederà proprio in questo confronto: alle diagnosi postmoderniste sulla storia, la filosofia, il soggetto, l’etica e l’arte, che riassumeremo criticamente qui, opporremo nel prossimo capitolo la nostra ricostruzione alternativa, nella quale sui medesimi ambiti, che sono naturalmente decisivi per comprendere un’epoca, offriremo una diversa interpretazione, aperta al futuro proprio dal raffronto con la prima modernità.
Preliminarmente, tuttavia, ci soffermiamo su quello che sembra essere il capo d’accusa principale contro la modernità e in generale l’Occidente: quello di aver generato una dialettica perversa che conduce al tramonto e alla dissoluzione, nati sotto il segno di una ragione troppo sicura di se stessa.
Molte delle filosofie d’inizio Novecento, pur non impiegando la nozione di postmoderno, sono impegnate in una critica radicale della modernità. Questa critica avviene per lo piú sotto il segno di Nietzsche, interpretato nella qualità di profeta del nichilismo che si annuncia come destino della cultura occidentale. In parte, si tratta di una reazione al trionfalismo della filosofia della storia hegeliana che, al contrario, proclamava il compimento del cammino dello Spirito assoluto nelle forme della coscienza borghese e dello Stato liberale. L’epopea narrata dallo storicismo, secondo cui la massima aspirazione dell’individuo moderno – la libertà – si realizza infine nello Stato nazionale, viene interpretata in modo quasi paradossale: se il cammino della ragione si è concluso, ma sotto il segno di un fallimento (come testimoniano i totalitarismi), essa va allora “superata” (secondo la figura hegeliana dell’Aufheben) nel recupero delle energie sotterranee, pre-razionali e inconsce, che quella stessa ragione credeva di aver definitivamente dominato. Sotto questa critica cade anche il versante opposto a quello idealistico, vale a dire quello positivista, che nelle scienze e nella tecnica ha sviluppato gli strumenti di un dominio della natura che si pretende “liberante” rispetto ai limiti della conoscenza e ai bisogni degli individui. L’accusa, qui, è di aver ridotto la realtà al suo lato misurabile e, quindi, manipolabile, finendo per perdere del tutto il contatto con il fondo simbolico, pre-linguistico, dell’esperienza e soprattutto creando una sovrastruttura tecnologica che ormai minaccia non solo il mondo naturale ma anche quello umano.
La separazione di uomo e natura, ovvero di soggetto e oggetto, è secondo quest’analisi la colpa originaria del moderno, che in realtà può essere proiettata indietro fino alle sorgenti dell’intera cultura occidentale. Molte voci filosofiche, anche autorevoli, hanno alimentato questa visione: si pensi alla critica di Heidegger contro la Zuhandenheit, ovvero la manipolabilità assoluta del reale, che la filosofia, da Platone in poi, avrebbe reso possibile tramite l’atto originario di separare l’ente dall’essere1. Al tempo stesso, benché con esiti assai lontani da quelli di Heidegger, fu Husserl nella Crisi delle scienze europee a denunciare la riduzione dell’esperienza alla sola dimensione della “misurabilità” e all’interpretazione matematica del reale a partire da Galileo2. Vi sono stati però alcuni testi che hanno declinato questa critica proprio in termini di filosofia della storia e che hanno influito notevolmente sull’insediarsi della tesi del declino fra i luoghi comuni di una parte della filosofia contemporanea.
Fra questi vi è indubbiamente Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, pubblicato in due parti fra il 1918 e il 1922, frutto di un lavoro estremamente ambizioso e per vari aspetti dilettantistico (come Benedetto Croce denunciò prontamente)3. Il volume ebbe vasta risonanza, soprattutto grazie a un titolo che, con una certa dose di provocazione, intercettava un sentire ampiamente diffuso al di sotto della predominante retorica storicistico-positivistica. Proprio contro quest’ultima Spengler enunciava la sua tesi di fondo:
Il futuro dell’Occidente non sarà un illimitato ascendere e andar avanti nella direzione dei nostri ideali del momento, per spazi fantastici di tempo, bensí un episodio della storia rigorosamente circoscritto e incontrovertibilmente determinato quanto a forma e a durata, episodio che abbraccerà pochi secoli e i cui tratti essenziali possono essere predetti e calcolati in base ai precedenti esempi4.
Questo “Destino” non è opzionale e sovrasta la presunta libertà di scelta degli individui, i quali sono trascinati da forze molto piú potenti, storiche, alle quali ci si può solo adeguare:
D’ora innanzi ognuno sarà tenuto a sapere quel che nel futuro può accadere e quindi accadrà con l’inevitabilità di un fato, indipendentemente da ideali, speranze e desideri personali. Volendo usare il termine problematico di libertà, dovrà dirsi che non siamo piú liberi di realizzare questo o quello, bensí o nulla, oppure quel che è necessario5.
Come si vede, Spengler adotta senz’altro la tesi, che deriva da Hegel, dell’assoluta necessità del cammino storico, ma la rovescia di segno: la storia mondiale non è piú «il progresso nella coscienza della libertà – un progresso che dobbiamo conoscere nella sua necessità»6. Essa è il susseguirsi dei cicli storici delle civiltà, il cui sviluppo va da un’alba a un tramonto, a cui la civiltà occidentale, al pari di ogni altra, non può sottrarsi. Ogni civiltà (Kultur) sorge come cultura vitale e originariamente “artistica”, per poi irrigidirsi nelle sue forme sclerotizzate e decadenti, ovvero nella civilizzazione (Zivilisation). «Le civiltà sono degli organismi»7 e sono soggette a un ciclo vitale naturale. L’Occidente è sorto dall’opposizione di natura e storia e il suo ciclo si conclude con l’«inversione di tutti i valori»: al compimento di questa parabola «non si crea piú, ci si limita a cambiare il senso di quel che esiste»8.
L’idea di periodizzare le civiltà sulla base del modello del giorno (dall’alba al tramonto) o su quello della vita umana (infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia) non è ovviamente originale: la si ritrova già nel De Civitate Dei di Agostino, insieme all’idea dei cicli ritornanti, che in età moderna è stata resa canonica, fra gli altri, dalla Scienza Nuova di Gian Battista Vico. La declinazione vitalistica della prospettiva di Spengler, che opponeva alla ragione “meccanica” – illuministica e tecnologica – l’idea di un sapere “organico”, conforme alle forze originarie della vita, dell’inconscio e del magico, ebbe grande fortuna soprattutto in ambienti nazionalisti (da cui il suo ambiguo rapporto con il nazismo), prestandosi bene all’idea di un declino a cui opporre le forze vive di popoli “incontaminati”, capaci di restare in contatto con l’elemento tellurico, di contro all’astrazione razionalistica.
Tuttavia, la critica della modernità come “civiltà della ragione” e come fonte, se non di decadenza, di contraddizioni insanabili, si trova egualmente, nella prima metà del Novecento, in autori ispirati dalle istanze del socialismo e del marxismo. Uno dei piú influenti manifesti in tal senso è stato, infatti, Dialettica dell’illuminismo di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno9. La tesi di fondo dei due francofortesi è che l’illuminismo, ma in realtà tutta la cultura occidentale a partire già dai poemi omerici, istituisce tramite l’ideale della ragione una separazione radicale fra uomo e mondo, fra soggetto e oggetto. Questa separazione realizza progressivamente un dominio della natura e della società: la ragione strumentale, basata sul calcolo mezzi-fini (che già si trova nell’“astuto” Odisseo), elabora il sapere sul modello della matematica e, successivamente, della scienza sperimentale, che riconduce tutta la realtà, quella naturale come quella sociale, al misurabile e al manipolabile. La borghesia commerciale è la classe sociale omogenea a questa forma della ragione e, benché nell’illuminismo si sia fatta portatrice di istanze di emancipazione dall’ancien régime, essa diviene ben presto fautrice di un controllo dei processi produttivi, sociali e politici che configura un’oppressione costante delle masse lavoratrici. Come scrivono i due autori:
È questo il corso della civiltà europea. L’astrazione, lo strumento dell’illuminismo, opera coi suoi oggetti come il destino di cui elimina il concetto: come liquidazione. Sotto il dominio livellatore dell’astratto, che rende tutto ripetibile nella natura, e dell’industria, per cui esso lo prepara, i liberati stessi finirono per diventare quella ‘truppa’ in cui Hegel ha mostrato il risultato dell’illuminismo10.
La dialettica dell’illuminismo consiste quindi nel presentarsi come movimento di liberazione dal dominio antico solo per instaurare il piú subdolo e potente dominio della logica del capitalismo. Quest’ultimo è in realtà tutt’altro che “liberale” nella sua concreta esistenza sociale: l’istanza di controllo dei processi produttivi, che si estende dalle fabbriche a quella che Horkheimer e Adorno chiamano “industria culturale”, realizza di fatto un dominio totalitario, in cui la massa viene indotta a un asservimento volontario. «L’illuminismo è totalitario piú di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo»11.
In questa interpretazione, viene istituito un nesso sistematico fra le nozioni di ragione, calcolo, scienza, industria, borghesia, capitalismo, dominio e oppressione. Odisseo diviene il primo eroe borghese, mentre i totalitarismi novecenteschi sono l’esito ultimo dell’ingegneria sociale avviata sotto il segno della ragione, che ha trovato nell’illuminismo il movimento culturale e ideologico della sua giustificazione. Sfuggire a questo sistema di dominio è, nonostante le legittime aspirazioni degli oppressi, impossibile. Questi ultimi sono stati irretiti nella complicità al sistema con la promessa di benessere e con la manipolazione del desiderio, su cui ha insistito un altro francofortese, Herbert Marcuse12. L’aspetto rilevante di questa diagnosi – che ha certo dei meriti quanto alla rilevazione di alcune dinamiche evidenti della società e della cultura capitalistiche – è duplice. In primo luogo, come piú tardi i postmodernisti, Horkheimer e Adorno individuano nella modernità, per poi proiettarlo sull’intero della cultura occidentale, un dispositivo culturale interamente esaurito dall’idea di dominio tramite la ragione. Quest’ultima è interpretata come esclusivamente strumentale, calcolante e perciò economica, tecnologica e totalitaria. Non vi sono ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. La fine è un nuovo inizio
  4. La condizione neomoderna
  5. I. La diagnosi postmodernista
  6. II. Gli errori del postmodernismo
  7. III. Genesi del neomoderno
  8. IV. Neomoderno e illuminismo
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Copyright