Il tramonto del liberalismo occidentale
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Il tramonto del liberalismo occidentale

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Il tramonto del liberalismo occidentale

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Il patto civile che per sessant'anni ha consentito all'Occidente di governare le sue crisi sta andando in frantumi sotto la spinta disgregatrice dei populismi, da Trump alla Brexit. La democrazia non è piú «ovvia» come lo era stata per anni. In questo libro, Edward Luce affronta con chiarezza il progressivo indebolirsi dell'egemonia occidentale e la crisi del liberalismo, problemi di cui i populismi che proliferano in Europa e in America sono un sintomo, non la causa. Abbiamo imboccato, a detta di Luce, una traiettoria discendente. I motivi? L'arroganza delle élite nei confronti degli ultimi, dei dimenticati dal mercato, e l'errata convinzione che il sistema dovesse durare per sempre.
Non si può guarire senza una diagnosi, per quanto severa possa apparire. E secondo Luce, a meno che l'Occidente non riesca a costruire un'economia capace e di cui possano beneficiare quante piú persone possibile, la sua libertà corre seri pericoli. Unendo giornalismo ed esperienze di prima mano a una sintesi di alto livello della letteratura economica e sociologica piú recente, Luce offre un ritratto del mondo contemporaneo e una ricetta per coloro che credono nei valori nati dall'Illuminismo e vogliono difenderli dagli attacchi cui sono sottoposti ogni giorno.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858427262
Argomento
Economics
Parte seconda

Reazione

La democrazia non è la moltiplicazione di opinioni ignoranti1.
BEATRICE WEBB
1. Citata in B. Crick, Democracy. A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2002.
Il successo genera imitazione. Quando avevo sei anni, si contavano a malapena trenta democrazie in un mondo di quasi duecento nazioni. La prima ondata della democratizzazione moderna avvenne nel 1974, quando la Rivoluzione dei garofani in Portogallo pose fine al regime fascista di Salazar1. Poco dopo, cadde la giunta militare in Grecia e piú o meno lo stesso capitò l’anno successivo in Spagna, dopo la morte del generale Franco. Fatti che chiusero una volta per tutte i conti con la sconfitta del fascismo avvenuta una generazione prima. Fu solo con la caduta del Muro di Berlino che la diga si aprí davvero. Alla fine del millennio al mondo c’erano piú di cento democrazie. Proprio come il Washington Consensus forniva il kit per il successo economico, cosí l’Occidente forniva il manuale per la democratizzazione. Erano volumi complementari: non si poteva sviluppare la propria economia senza essere una democrazia. Cosí, almeno, abbiamo sostenuto. Quei volumi condividevano anche una profonda ignoranza della storia, il che li rendeva fortemente ingannevoli. In realtà, spesso le economie si sono sviluppate dietro muri protezionistici: questo è ciò che quasi tutti i Paesi occidentali hanno fatto nel corso del XIX secolo. Avevamo dimenticato che le misure protettive della «industria nascente» formulate da Alexander Hamilton sono arrivate ben dentro il XX secolo? Hamilton aveva mutuato questo approccio mercantilistico direttamente dalla dinastia Tudor, che in Inghilterra aveva adottato misure protezionistiche per difendere i produttori di lana inglesi dai loro concorrenti fiamminghi. Analogamente, molti Paesi si sono industrializzati in condizioni autoritarie: alla fine del XIX secolo, Otto von Bismarck condusse la Germania sulla strada di ferro e sangue che portava alla prosperità. In Giappone, la rivoluzione Meiji rappresentò un esempio di sviluppo top down. E che dire della Cina nel corso dell’ultima generazione, e oggi? Comunque, l’Occidente era in missione allo scopo di fare proselitismo. Le grandi questioni erano state risolte. Per il resto, c’erano solo inciampi minori nel nostro viaggio teleologico.
Le cose hanno cominciato ad andare male dopo il 2000. Il primo fatto grave accadde in Russia, dove Vladimir Putin sostituí Boris El´cin alla presidenza e si mise all’opera per bloccare il sistema di elezioni libere e regolari, pur mantenendone le caratteristiche esteriori. L’Occidente è bravo a ignorare alcuni dettagli quando sono scomodi, in particolare se si tratta della Russia. Negli anni Ottanta, la caduta dell’Unione Sovietica umiliò un’intera generazione di sovietologi occidentali: nessuno l’aveva prevista. Negli anni Novanta, ci convincemmo che la Russia stesse passando dall’autocrazia socialista al capitalismo liberale, anche mentre i nostri consulenti sollecitavano Mosca a adottare una terapia shock che avrebbe provocato la nascita di una nuova oligarchia nazionale. Su consiglio dell’Occidente, El´cin privatizzò i beni statali piú preziosi di Russia, svendendoli a una ristretta banda di affaristi a patto che finanziassero la sua rielezione nel 1996. Ancora, la nostra fede rimase salda. Nel 2008, credemmo che l’interregno autoritario di Putin fosse finito e che la Russia avesse ripreso il proprio viaggio verso luminosi orizzonti con Dmitrij Medvedev. L’amministrazione Obama basò il ripristino delle relazioni Stati Uniti - Russia sulla convinzione che Putin fosse un ricordo del passato. La scommessa si rivelò ben piú costosa di quanto Obama e l’allora segretaria di Stato Hillary Clinton avrebbero potuto immaginare. Quando nel 2016, due settimane dopo l’elezione di Donald Trump, visitai Mosca, i miei ospiti strillavano che gli Stati Uniti avevano appena vissuto la propria rivoluzione colorata. Dalla Rivoluzione delle rose in Georgia nel 2003 alla Rivoluzione arancione in Ucraina l’anno successivo, fino alla versione cosiddetta «dell’uva» in Moldavia nel 2009, abbiamo applaudito alla caduta dei regimi pro Mosca lungo i confini russi. La vittoria di Trump ha mostrato che si tratta di un gioco a cui si può giocare in due. All’improvviso, tutte le certezze evaporavano. Al posto della marcia verso la verità, avevamo la politica del reality show. «Mosca può sentirsi un’oligarchia al mattino, una democrazia nel pomeriggio, una monarchia per cena e uno Stato totalitario quando è ora di andare a dormire», ha scritto Peter Pomerantsev, nel suo libro Nothing Is True and Everything Is Possible2. Manipolazioni che stanno cominciando a diventare pericolosamente familiari nell’America di Trump.
Il brand della democrazia è stato danneggiato anche dalla reazione degli Stati Uniti agli attacchi di al-Qaida nel 2001. La risposta di George W. Bush all’11 settembre inferse un doppio colpo alle attrattive della democrazia occidentale. Il primo ebbe la forma del Patriot Act, che permise di spiare i cittadini americani e diede il via libera a numerosi annacquamenti delle libertà costituzionali statunitensi. L’imperativo della sicurezza prima di tutto venne poi esteso alle relazioni americane con qualunque Paese, democratico o meno, che promettesse di cooperare alla «guerra al terrore». Da un giorno all’altro, autocrati come Putin o Pervez Musharraf in Pakistan non furono piú paria ma fratelli di sangue. Quando l’amministrazione Bush dichiarò «o con noi o contro di noi», si riferiva all’apertura di basi segrete in cui la Cia poteva torturare i sospettati di terrorismo, e agli scambi, senza fare domande, di liste di terroristi contro cui un ricorso era molto improbabile – una pratica nota nel diritto internazionale come refoulement, «respingimento». Questo diede ai regimi non democratici l’opportunità di accatastare nelle liste internazionali gli oppositori interni, con effetti devastanti sui diritti politici in tutto il mondo. Nei dieci anni successivi all’11 settembre, il numero di notifiche rosse dell’Interpol sarebbe aumentato di otto volte3. Pratiche di questo tipo contraddicevano l’agenda democratica di Bush. Hanno, per esempio, privato gli Stati Uniti della posizione morale per criticare l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, un organismo di autocrazie dell’Asia centrale sostenuto dalla Cina che oggi, in nome dell’antiterrorismo, gestisce il proprio refoulement nello scambio dei dissidenti politici. L’approccio dell’amministrazione Bush è stato miope anche da un punto di vista geopolitico. Come negli anni Ottanta il sostegno dell’Occidente alla jihad afghana contro l’Unione Sovietica pose le basi per la nascita del terrorismo islamista, cosí dopo l’11 settembre i faustiani patti statunitensi con regimi autocratici hanno aiutato a gettare i semi della recessione democratica mondiale. È certo che, con Trump, la situazione peggiorerà.
Tuttavia la «guerra al terrore» era, tra le conseguenze indesiderate della politica di Bush, la meno grave. La piú severa arrivò nel marzo del 2003, con l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione guidata dagli Stati Uniti. È difficile sopravvalutare il danno che la guerra in Iraq ha fatto al soft power americano e alla credibilità della missione democratica dell’Occidente. All’operazione Enduring Freedom, «libertà duratura», iniziata dopo l’11 settembre, seguí l’operazione Iraqi Freedom, «libertà per l’Iraq». In entrambi i casi, una denominazione quantomeno arrischiata. Una cosa è andare in guerra in nome della libertà, un’altra è non avere proprio idea di cosa essa sia. Anche al netto dell’ambiguità della «guerra al terrore», rimane assai discutibile che la democrazia possa essere instaurata con le armi. Gran parte dell’esemplare lavoro svolto dagli Stati Uniti per promuovere gli scambi civili e sostenere il dissenso al di là della cortina di ferro durante la Guerra fredda venne annullata dall’arroganza con cui l’Autorità provvisoria di coalizione di Bush si mise a democratizzare l’Iraq. Per impostare la politica nella informe democrazia irachena, Washington scaricò su Baghdad un gruppo di politicanti con poteri pseudocoloniali. Agli effetti sulla comunicazione pubblica causati dall’ignoranza degli incaricati di Bush circa le condizioni locali, si aggiunsero le orribili immagini delle umiliazioni che i soldati statunitensi infliggevano ai prigionieri ad Abu Ghraib. L’operazione Libertà per l’Iraq si era trasformata nell’operazione Danno alla democrazia.
Quando nel 2011 scoppiò la Primavera araba, a causare l’indecisione di Barack Obama fu il desiderio di non ripetere gli errori di Bush. All’inizio, Obama sostenne le proteste a favore della democrazia di piazza Tahrir al Cairo, e non solo. Quando vide i risultati delle rivoluzioni – in particolare, il ruolo profondamente illiberale dei Fratelli Musulmani in Egitto – cambiò idea. Uno a uno, i germogli di democrazia araba appassirono. Solo in Tunisia la democrazia è ancora viva. Forse, l’ambivalenza di Obama appare piú evidente dalle poco note richieste di finanziamento della sua amministrazione per il National Endowment for Democracy (Ned), un organismo statunitense che ha svolto un paziente lavoro di sostegno alle giovani democrazie. In ognuno dei cinque anni successivi alla Primavera araba, la Casa Bianca ha chiesto una riduzione del bilancio del Ned4. Contrariamente al solito, il Congresso repubblicano ha fermato i tagli di Obama e ha aumentato gli stanziamenti. A quel punto, Obama si trovava in una posizione a dir poco conflittuale. Nel 2015, durante un viaggio in Etiopia, si è congratulato con il governo locale per aver vinto elezioni democratiche in cui il partito di maggioranza aveva conquistato ogni singolo seggio. Poco dopo, Addis Abeba ha avviato una repressione sui propri avversari, causando centinaia di morti. Se lo stesso presidente degli Stati Uniti è incerto sulla democrazia, come dovrebbe sentirsi il resto del mondo? È stato sotto lo sguardo di Obama che il numero delle democrazie presenti a livello globale è sceso drasticamente. Oggi, il mondo ha venticinque democrazie in meno di quante ne avesse al volgere del secolo. Oltre alla Russia e al Venezuela, si ritiene che anche la Turchia, la Thailandia, il Botswana e, ora, l’Ungheria abbiano varcato il confine. Secondo la Freedom House, dal 2008 sono piú numerosi i Paesi che hanno limitato la libertà rispetto a quelli che l’hanno estesa5. «Non c’è un singolo Paese nel continente africano in cui la democrazia sia consolidata e sicura», afferma Larry Diamond, uno dei principali studiosi dei processi democratici6. Quello che ancora non sappiamo è se la recessione della democrazia nel mondo si trasformerà in una depressione globale. La domanda di Fukuyama troverà risposta perlopiú in Occidente.
Gli effetti collaterali della politica estera statunitense dal 2000 in poi sono stati di second’ordine rispetto all’impatto che la Grande Recessione ha avuto sulla reputazione democratica dell’Occidente. Che il disastro venga attribuito all’avidità delle banche d’investimento o all’incompetenza delle autorità di regolamentazione dipende in gran parte dalla visione politica che si adotta, ma in entrambi i casi, da una prospettiva occidentale, la crisi del 2008 è stata innanzitutto un evento economico. Il resto del mondo, però, ha valutato il 2008 e le sue conseguenze da una prospettiva molto piú ampia. Anche se le turbolenze a breve termine sui mercati finanziari si sono fatte sentire ovunque, la cosiddetta recessione globale è stata una recessione atlantica. Gli altri Paesi, in generale, hanno continuato a crescere. In Cina, la maggiore autocrazia del mondo, la crescita è proseguita per diversi anni dopo il 2008. Questo contrasto ha fatto meraviglie per l’immagine internazionale della Cina, ed è stato una manna dal cielo per la sua reputazione politica. Nonostante l’Occidente ami concepire l’ondata democratica del tardo Novecento come una conversione sulla via di Damasco, in gran parte essa è stata puramente strumentale: i non occidentali potevano osservare i risultati della crescita occidentale sugli schermi dei loro televisori. Sapevano chi era la gallina dalle uova d’oro. Quando, nel 2008, l’economia cinese si è slegata da quella occidentale, le cose hanno cominciato ad andare in modo diverso. «Dimostrando che la modernizzazione avanzata può essere associata a un regime autoritario, il regime cinese ha dato speranza agli autocrati di ogni Paese», afferma Andrew Nathan, un punto di riferimento per gli studi sinologici7.
La Cina ha utilizzato il proprio nuovo prestigio su vari fronti. Quello piú ampiamente sentito è stato il fronte economico. Le banche di sviluppo cinesi hanno pompato miliardi di dollari in Africa, Asia centrale e America Latina, spesso sostituendo istituzioni occidentali globali, come la Banca Mondiale e la Asian Development Bank. A differenza dei loro concorrenti di Bretton Woods, gli istituti di credito cinesi hanno concesso prestiti senza imporre condizioni a favore della democrazia. Nel 2015, a Pechino è stata fondata la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib). La Casa Bianca di Obama ha pubblicamente esortato i propri alleati a boicottare questo nuovo organismo. È stata ignorata8. Gran Bretagna, Francia, Germania, Australia, Italia e altri sono entrati a far parte dell’Aiib in qualità di Paesi fondatori. Intanto, la Cina ha intensificato le spese per il proprio soft power. Oggi Pechino gestisce piú di cinquecento Istituti Confucio in tutto il mondo9. In un periodo in cui i media occidentali battono in ritirata a livello planetario – in alcuni casi, eliminando del tutto le presenze all’estero – la China Central Television (Cctv) ha istituito trenta nuovi uffici oltreoceano, e altri stanno per essere inaugurati. RT, la televisione di stato russa, in questo momento viene trasmessa in tre milioni di camere d’albergo in ogni angolo del mondo.
La Cina non vive l’impulso missionario dell’Occidente: non cerca piú di esportare la rivoluzione come faceva con il presidente Mao. Oggi, il suo obiettivo è soprattutto controrivoluzionario: come Mosca, lo scopo principale di Pechino è sconfessare le rivendicazioni universalistiche dell’Occidente. Considerati i dubbi risultati di quest’ultimo in Iraq e altrove, non si tratta affatto di un’impresa impossibile. In confronto al passato, è piú facile sostenere che il discorso liberal-democratico degli Stati Uniti sia, in realtà, una copertura per i suoi interessi geopolitici. Il mantra che la Cina ripete sul rispetto per le differenze tra civiltà – un termine in codice per indicare l’autocrazia – ultimamente sta trovando un pubblico piú ricettivo. Il dirigismo si è guadagnato una seconda opportunità. Una delle tendenze piú rischiose, ma meno evidenziate, è l’aumento delle restrizioni per le organizzazioni non governative straniere. Sotto la guida della Cina e della Russia, dal 2003 a oggi quasi quaranta Paesi hanno imbavagliato o espulso Ong straniere, la maggior parte delle quali occidentali10. In alcuni casi, si tratta di repressione allo stato puro: in Asia centrale, diversi alleati della Cina hanno usato il pretesto della «propaganda omosessuale» per negare l’ingresso ad associazioni umanitarie estere. Altrove, la reazione è piú sottile. Come RT e Cctv sostengono la tesi della propria indipendenza ed...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Gianni Riotta
  4. Il tramonto del liberalismo occidentale
  5. Prefazione
  6. Parte prima. Fusione
  7. Parte seconda. Reazione
  8. Parte terza. Conseguenze
  9. Parte quarta. Emivita
  10. Ringraziamenti
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Copyright