La svolta decisiva nella storia della lingua letteraria avviene, in prosa, nel segno di Alessandro Manzoni; in poesia la rivoluzione verrà piú tardi e con maggiori oscillazioni e, pur essendo in gran parte attribuibile a Giovanni Pascoli, vanterà piú padri.
In entrambi i casi si tratta di un cambiamento inteso a eliminare la specificità secolare della lingua letteraria, avvicinandola e, negli auspici di taluni, uniformandola a quella parlata, che, nel frattempo, aveva cominciato a circolare nell’Italia immediatamente pre e post-unitaria. Di fatto; questa radicale conversione, che segna davvero la fine di un’epoca (sia pure, significativamente, realizzata da prosa e poesia con ritmi diversi), fu possibile proprio per la nuova dimensione che il parlato stava per assumere nella vicenda dell’italiano e per la coscienza che i letterati ne ebbero. Dal momento in cui diventava concreto (in prospettiva, perlomeno) l’esercizio quotidiano della lingua, non c’era piú ragione per una diversità linguistica della letteratura che si era conservata proprio per la mancanza di quello1. La stessa funzione nazionale che la lingua letteraria aveva sino ad allora svolto diveniva superflua e secondaria rispetto ad altri e piú concreti veicoli di unificazione, e anche la coscienza di una lingua comune andava a situarsi in zone della comunicazione piú dirette e percepibili. Se alla pressione della realtà si aggiunge poi la nuova sensibilità della cultura, assai meno disponibile a compiacersi dell’accumulo diacronico che la tradizione stratificava sulle opere d’arte e pronta invece a una concezione della modernità come discontinuità e libertà dal passato, si avranno gli ingredienti principali della miscela che in alcune decine di anni farà esplodere definitivamente un edifizio cementato dal consenso di secoli.
Il cambiamento, come si diceva, è avvenuto con ritmi diversi in prosa e in poesia: piú difficile, in questa, lo strappo dalla tradizione, già pronta invece quella, almeno in parte, al grande salto. Il fatto è che la prosa poteva giovarsi, all’inizio dell’Ottocento, della spinta di una novità letteraria che aveva catalizzato sul terreno della scrittura di invenzione tutte le potenzialità innovative circolanti nei dintorni: si tratta, naturalmente, del romanzo, genere quant’altri mai bisognoso di realismo linguistico. I suoi precedenti da noi erano stati pochi, modesti, incapaci proprio di quella verosimiglianza di lingua che un tal genere esigeva. Neppure l’Ortis foscoliano, lo abbiamo notato, aveva avuto la forza e l’opportunità di scavare a fondo nella strada che pure aveva intravisto, anche perché condizionato dalla finzione epistolare e quindi legittimato a restare fedele a una piú tradizionale dimensione scritta della lingua. È, perciò, di fatto, Alessandro Manzoni a introdurre il romanzo moderno in Italia e, con esso, a rivoluzionare la lingua della prosa letteraria.
La rivoluzione della lingua letteraria inaugurata dal romanzo è stata fatta con svariati mezzi: snellimento della sintassi, a scapito di un’ipotassi complicata; adozione di opzioni sintattiche cosiddette marcate, cioè non standard, ma efficaci sul piano pragmatico; vari sistemi di introduzione della parola dei personaggi, dalla mimesi dell’orale nel discorso diretto alla sua simulazione mentale e antropologica nel discorso indiretto e nel discorso indiretto libero; apertura del lessico a registri piú popolari e addirittura ad aree linguistiche eteroglosse (i dialetti principalmente, poi anche le lingue straniere); trasferimento dei residui della lingua colta e dei fiorentinismi a tratto stilistico espressivo e non piú assunti come codice fonomorfologico di base ecc. Enrico Testa ha passato in rassegna, in un libro di grande importanza e a vasto raggio2, tutte queste modalità di avvicinamento dello scritto letterario al parlato, nelle sue diverse gradazioni (medie e popolari) e ha mostrato come, sia pur con deviazioni e scarti dovuti o a inerzia nella narrativa di consumo3 o a motivazioni estetiche molto esibite, queste diverse strategie espressive comincino con i Promessi Sposi e si diffondano, allarghino e diversifichino in tutto il romanzo italiano fin quasi alla fine del Novecento. Naturalmente, si tratta di un percorso che, per un certo tratto4, vede la convivenza, persino in uno stesso testo, di scelte linguistiche contraddittorie (nel lessico, fiorentinismo di Crusca e dialettismo; nella morfologia, aulicismi residuali e soluzioni moderne; nella sintassi, ordine delle parole marcato e inversioni dotte). Ma la direzione è quella dell’avvicinament0 dello scritto al parlato. Per altro si tratta di un percorso ripetutamente e deliberatamente contestato da opzioni stilistiche alternative, che ne intaccano la linearità e l’uniformità tendenziali a vantaggio di scritture miste di elementi diatopici, diastratici e diacronici differenti, specie nelle prose cosiddette espressioniste, periodicamente emergenti da fine Ottocento al tardo Novecento in polemica col monolinguismo tendenziale e infine dominante del romanzo di successo.
Postosi di fronte al romanzo, che concepisce nella forma del romanzo storico, misto di storia e di invenzione, Manzoni ha fin da subito chiaro che non c’è, in Italia, una lingua per questo genere di scrittura. Nel primo tentativo dell’opera, il Fermo e Lucia, come egli stesso dichiara in introduzione, cerca di inventarsela con quel «composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall’una o dall’altra di esse»1. Poiché l’intento è quello di dotarsi di una lingua «viva e vera», il riferimento al dialetto sarà un dato preliminare e costante, ancorché dissimulato il piú possibile con l’adattamento delle sue forme alla fonomorfologia dell’italiano. Quando si mette a scrivere, infatti, Manzoni ha già fortemente ridotto l’impatto dei consueti riporti della tradizione dotta e il dialetto nativo «gli si affaccia da tutte le parti, s’attacca alle sue idee, se ne impadronisce, anzi talvolta gli somministra le idee, in una formola: gli cola dalla penna». Nel Fermo e Lucia è spesso metalinguisticamente esplicitata questa immediatezza del milanese e la sua conversione nel «parlar finito» («voleva dire adoprar tutti i vocaboli italiani che si sapevano, o quelli che si credevano italiani, e al resto supplire come si poteva, e per lo piú, s’intende, con vocaboli milanesi […] e dare al tutto le desinenze della lingua italiana»)2, nell’adattamento alla lingua.
«La povera Lucia, come nella notte non aveva mai fatto un sonno pieno, e per dirla con un calzante modo milanese non aveva mai potuto dormire serrato»; «Cinque e cinque, dieci, rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formola comune […]»; «Era costei nata (come dice il volgo di Lombardia) sotto le tegole del Conte»; «v’era già a quei tempi un forno che sussiste tuttavia, con lo stesso nome, che in toscano viene a dire: forno delle grucce, e nel suo originale milanese è espresso con parole di suono tanto eteroclito e bisbetico che l’alfabeto della lingua italiana non ha il segno per indicarlo»; «Che pensare? Mi si è coperta la vista, rispose Fermo; un toscano avrebbe detto: non vedo piú lume …»3.
È in effetti proprio la quotidianità a disseminare di difficoltà il percorso del Manzoni. E la quotidianità linguistica è un insieme composito, di livelli stratificati, che l’autore cerca di realizzare ora caricando il versante lombardo del suo linguaggio (specie nei discorsi diretti degli umili), ora accentuando le convergenze col toscano (soprattutto nella parlata dei personaggi piú altolocati). Piú in generale, Manzoni si compiace di evidenziare i tratti che avvicinano il suo dialetto e la lingua toscana letteraria, di cui esplora però, attraverso la Crusca, non già il patrimonio illustre della poesia, quanto quello comico e popolareggiante del filone burlesco (dal Malmantile del Lippi ai comici del Cinquecento, alla Fiera e la Tancia del Buonarroti al Granchio del Salviati ecc.), con infiltrazioni nel repertorio piú arcaico dell’italiano quando questo coincide con l’espressione lombarda (ad esempio sguaratando, squadrare con gli occhi, musare, stare in ozio, sciarrato, diviso, sbattuto)4. Il parlato è cosí ricostruito con robuste incursioni nell’espressionismo linguistico di consuetudine accademica, dove la realtà della lingua è tanto prodotto di stile quanto di prelievi linguistici dal contado.
Ecco qualche esempio5: «è un uomo che sa mostrare il viso»; «lasciava la briglia sul collo a quei tangheri»; «comprarsi le brighe a contanti»; «le vostre pappolate» (favole); «la cervellaggine di quella» (capriccio strano); «un impiccatello di forse dodici anni» (malandrino); «in quel gagno» (intrigo).
Il fatto è che Manzoni cercava di conciliare la verità della lingua con l’italianità e, per il momento, poteva solo contare o sul dialetto (italianizzato) o su quei tratti toscani che col dialetto lombardo coincidevano o erano essi stessi dialettali, anche a rischio di indulgere ad arcaismi e a idiomatismi di puro vocabolario. Il doppio obbligo della veridicità linguistica e dell’intelligibilità nazionale lo porta a mettere a fuoco, non a caso e sia pure ancora in modo disorganico, le convergenze tra due dialetti (lombardo e toscano), cogliendo nel comune fondo del parlato i segni piú vistosi dell’identità nazionale. Per il momento l’operazione interessa soprattutto il lessico e si incentra sulla ricerca di frasi idiomatiche...