Il posto di ognuno
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Il posto di ognuno

L'estate del commissario Ricciardi

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Il posto di ognuno

L'estate del commissario Ricciardi

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Il romanzo della gelosia.
Caldo. Torrido, impietoso, atroce. Caldo. Per le strade, nei vicoli, nelle stanze buie dei palazzi. Caldo. Da non respirare, da soffocare, da non riuscire a parlare. Caldo. Da odiare chi si ama, perché osa guardare altrove, perché vuole libertà. Caldo. Da non mangiare, da non dormire, da non sognare. Caldo.
Da uccidere, per poter ancora vivere. *** In nuova edizione l'intero ciclo delle «stagioni»: le prime quattro storie del commissario Ricciardi. In ogni volume, in postfazione, l'autore dialoga con i suoi personaggi principali: lo stesso Ricciardi, che ha il dono, o la condanna, di sentire il dolore, vedere i morti di morte violenta e ascoltare le loro ultime parole; il brigadiere Maione, suo compagno di avventure; Bambinella, il femminiello che sa tutte le voci della città; e il razionale, umanissimo dottor Modo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858438251

Il posto di ognuno

A Titto e Vale,
compagni di tutta la strada

I.

L’angelo della morte attraversò la festa, e nessuno se ne accorse.
Passò rasente il muro della chiesa, ancora addobbata per la celebrazione della mattina; ma ormai era notte, e il sacro aveva ceduto al profano. Era stato acceso un falò al centro della piazza, come da tradizione, anche se il gran caldo d’agosto lasciava senza fiato e nessuno sentiva il bisogno delle fiamme del legno vecchio che ogni famiglia aveva contribuito ad ammassare.
Ma le fiamme aiutavano l’angelo della morte, proiettando le ombre delle coppie che danzavano al suono delle chitarre, delle tammorre e dei battimano, tra le urla dei bambini e i fischi degli ambulanti. Non lo aveva previsto, ma sapeva che la giustizia divina sarebbe in qualche modo intervenuta. Scoppiò un petardo, poi un altro. La mezzanotte si avvicinava. Una signora grassa e sudata finse uno svenimento, l’uomo accanto a lei rise. L’angelo della morte lo sfiorò ma quello non ebbe nemmeno un sussulto: il destino non era lí per lui, quella notte.
Costeggiando la piazza, nel suo anonimo vestito scuro, avrebbe potuto attirare l’attenzione soltanto per la tristezza degli occhi bassi e delle spalle, appena curve. Ma nessuno l’avrebbe notata, quella tristezza, nella frenesia della notte. Anche su questo aveva fatto conto.
Arrivò al portone del palazzo e per un attimo temette che fosse chiuso per la festa; ma uno spiraglio era stato lasciato aperto, come sempre. E l’angelo della morte scivolò all’interno come un’ombra, mentre la tarantella infuriava e la folla l’accompagnava con canti e applausi e i petardi punteggiavano la musica. Sapeva dove nascondersi. Raggiunse l’anfratto dietro una colonna e si dispose all’attesa.
La mano scivolò nella tasca per sentire il freddo del metallo, ma non trovò conforto. Nemmeno l’ombra solitaria del cortile dava conforto.
Solo il pensiero della giustizia che avrebbe portato.

II.

Al commissario Luigi Alfredo Ricciardi non dispiaceva lavorare di domenica, e quella era un’altra delle sue stranezze. I colleghi si defilavano con mille pretesti quando venivano stabiliti i turni; madri ammalate da accudire, anzianità maturate, millantate necessità famigliari: ogni scusa era buona, pur di risparmiarsi il lavoro nel giorno in cui tutta la città faceva festa.
Ricciardi invece se ne stava zitto, come al solito, e come al solito gli toccava prendersi il peggio. Non che questo gli fruttasse la benevolenza degli altri, che non perdevano occasione di mormorare alle sue spalle.
Le mani in tasca, senza cappello anche d’inverno; non partecipava alle feste, ai brindisi, non era mai presente alle occasioni d’incontro. Lasciava cadere gli inviti, non stringeva amicizie e non si apriva alle confidenze. Gli occhi verdi spiccavano nel volto bruno, una ciocca di capelli sempre sulla fronte che ravviava con un gesto secco. Parlava pochissimo, con fredde ironie che non tutti coglievano. Ciononostante, la sua presenza calamitava l’attenzione.
Lavorava senza sosta, soprattutto quando seguiva un caso di omicidio, fra la malevolenza di quei colleghi che non erano in grado di avvicinarsi ai ritmi che imponeva alle indagini: i militari che gli erano assegnati lo maledicevano per le ore passate sotto la pioggia o il sole, in appostamenti lunghissimi e talvolta inutili. Commentavano velenosi che ogni volta pareva che fosse morto un suo parente, si trattasse di un nobile o un poveraccio.
D’altra parte le sue capacità erano indiscutibili. Senza seguire le procedure né attenersi alle disposizioni dei superiori, percorreva le sue strade incomprensibili e arrivava sempre al colpevole. Si era sparsa la voce che il commissario parlasse direttamente col diavolo, che gli suggeriva i pensieri degli assassini; questo gli incrementava il vuoto attorno, perché la superstizione era radicata nell’anima della città. Della vita di Ricciardi non si sapeva nulla, o forse non c’era nulla da sapere. Viveva da solo con la sua vecchia tata, non se ne conoscevano parenti o amici. Niente donne e nemmeno uomini, nessuno che lo avesse incontrato in un bordello o a teatro, mai una serata fuori. Ispirava quella diffidenza che ispira chi sembra non avere vizi e quindi non può avere virtú.
Gli stessi superiori, e in primis Angelo Garzo, il vicequestore, non nascondevano il disagio alla presenza di un uomo che, nonostante le enormi abilità e competenze, non aveva ambizioni. Si diceva che fosse ricchissimo, un latifondista di una terra sperduta, e che quindi non aspirasse a un migliore stipendio. L’unica cosa che pareva interessargli erano le indagini.
Non che manifestasse una qualche soddisfazione, quando metteva finalmente le mani sul colpevole. Si limitava a uno sguardo fisso con quegli inquietanti occhi trasparenti, poi girava le spalle e passava oltre. A un altro delitto. Verso altro sangue.
Ricciardi arrivava presto in ufficio, anche quando era di turno la domenica. Nella lunga passeggiata da via Santa Teresa alla fine di via Toledo incontrava meno gente, e questo non gli dispiaceva; la città che si svegliava lentamente, qualche carretto di frutta o latte che percorreva sgangherato la strada, i primi canti delle lavandaie dalle fontane nascoste nei quartieri popolari che attraversava. In quel terribile agosto, oltre due mesi senza una goccia di pioggia, procurarsi un po’ di fresco residuo della notte era piacevole nel cammino.
Nella semioscurità delle imposte socchiuse, seduto dietro la scrivania, il commissario raccoglieva le idee per la giornata. Gesti meccanici, burocrazia, verbali da compilare, il foglio delle presenze: pochissime, quel giorno. La piazza sotto la finestra era ancora deserta. Un ubriaco cantava rauco: un altro che è di turno di domenica, constatò Ricciardi.
La porta era semiaperta, per creare un minimo di corrente d’aria. Lame di luce sul muro, sotto i ritratti ufficiali del piccolo re e del grosso capo del governo. Un gabbiano fece da contrappunto al canto dell’ubriaco, e a Ricciardi parve senz’altro piú intonato. Oziosamente guardava dallo spiraglio della porta, verso la porzione di corridoio che riusciva a vedere.
Anche nella penombra i due cadaveri gli si presentavano nitidi. In piedi, uno di fianco all’altro, uniti per l’eternità dopo essersi appena incontrati in vita. Un monumento alla guardia e al ladro, si disse il commissario. Un monumento invisibile, però: quasi per tutti.
Dalla sua sedia, a diversi metri di distanza, Ricciardi vedeva il largo cratere bruciato sulla tempia del ladro, e il foro di entrata del proiettile su quella della guardia, il rivolo di sangue e di materia cerebrale che scorreva fino al collo; e sentiva il sommesso mormorio dell’ultimo pensiero dei due. Voi non avete turni, commentò fra sé con astio. Siete qua ogni maledetto giorno, ad ammorbare l’aria con l’inutile dolore delle vostre giovani vite buttate via.
Si alzò dalla sedia; il caldo andava irrobustendosi minuto dopo minuto, per strada cominciava a borbottare qualche motore in cammino verso il mare. Andò al calendario e strappò il foglio della giornata precedente. Lesse la nuova data: domenica, 23 agosto 1931-IX. Anno nono. Della nuova èra. L’èra dei fiocchetti sui cappelli e degli stivaloni, delle fotografie a tutta pagina in maniche di camicia e con l’aratro. Dell’entusiasmo e dell’ottimismo. Dell’ordine e delle città pulite, per decreto.
Magari bastasse un decreto, rimuginò Ricciardi. Il mondo gira uguale a prima dell’anno primo, purtroppo: gli stessi delitti, le stesse passioni corrotte. Lo stesso sangue.
Sbirciò il corridoio, ascoltò il mormorio dei pensieri dei morti. Andò a chiudere la porta, come se questo bastasse a escludere l’emozione dall’anima, come se udisse le parole con le orecchie e non col cuore. Fece per gettare nel cestino il foglio strappato dal calendario, ma si fermò e lesse ancora la data: anno nono. E invece ne sono passati venticinque, dal mio primo agosto bollente. Venticinque oggi, per essere precisi.
La baronessa Marta Ricciardi di Malomonte era una donna minuta, elegante, silenziosa. Nel paese del Cilento dominato dall’antico castello tutti le volevano bene, ma da lontano; c’era qualcosa di strano, di distante nei suoi bellissimi occhi verdi e tristi. Qualcosa che metteva a disagio.
Il destino non era stato particolarmente benevolo con la sposa bambina del barone, tanto piú anziano, morto quando il piccolo Luigi Alfredo aveva solo tre anni; lei non aveva voluto tornare in città e partecipava attivamente alla vita del villaggio, aiutando le famiglie piú povere e insegnando a scrivere e leggere ai piú piccoli perché facessero compagnia a quel figlio cosí simile a lei. Ma la distanza sociale non era una buona premessa per l’amicizia; perciò Luigi Alfredo preferiva passare il suo tempo con Rosa, la tata che stava con loro da quando era ragazzina, e col fattore Mario, un giovanotto appassionato di Salgari che gli raccontava di tigri e di guerrieri. Il bambino si perdeva in quelle storie e le ricostruiva giocando nel giardino del castello; circondato da compagni e nemici immaginari, combatteva la solitudine con la fantasia, brandendo la spada di legno che Mario gli aveva fabbricato con due frammenti di asse in croce.
Il mondo di Luigi Alfredo era fatto di realtà e immaginazione in parti uguali; alimentava la seconda con la prima, scegliendo gli elementi di maggior fascino per inventarsi nuove avventure da vivere nei lunghi pomeriggi solitari. La madre e la servitú si erano abituati a sentirlo mormorare in giardino, incitando truppe invisibili alla battaglia e decapitando mostri marini con un solo fendente; toccava a una brontolante Rosa, la sera, medicare ginocchia sbucciate e rammendare strappi nelle camiciole prima di un ruvido abbraccio consolatorio.
Un giorno però era rientrato urlando e, in lacrime, aveva raccontato alla madre e a Rosa di aver visto un uomo morto che gli parlava. La tata lo aveva calmato e la sera, alle cameriere, aveva chiesto a muso duro chi era stata cosí sciocca da raccontare al bambino dell’omicidio del bracciante accoltellato per gelosia nel corso dell’inverno; le donne protestarono, giurando di non aver mai parlato in presenza del signorino «del Fatto». Luigi Alfredo, che ascoltava nascosto sotto il davanzale della finestra, avrebbe poi definito «il Fatto» quell’altra vista che aveva, la capacità di percepire il dolore sospeso nell’aria dopo una morte violenta. E di vederne la fonte.
Aveva quasi dimenticato quell’incontro, la mattina d’agosto che la madre gli disse di vestirsi perché avrebbero fatto una passeggiata; aveva sei anni, e stare con lei era il piú grande dei piaceri della sua vita, anche se la madre non gli raccontava le belle storie di Mario né lo stringeva nei ruvidi abbracci di Rosa. Lo guardava con quei suoi grandi occhi verdi colmi di dolce malinconia, e lo accarezzava sulla fronte ravviandogli la ciocca ribelle. A lui bastava. Quel giorno, però, l’espressione della madre era diversa, tesa, distante. Luigi Alfredo pensò che non stesse bene, forse uno dei suoi soliti mal di testa.
Si erano avviati lungo la strada che portava fuori dal paese. A distanza di tanti anni, Ricciardi ricordava ancora il caldo soffocante e l’odore del letame e della campagna, man mano che procedevano lasciandosi le ultime case alle spalle. Aveva chiesto alla madre dove stessero andando: lei gli aveva stretto la mano nella sua e non aveva risposto. Lui sudava pochissimo, ma il caldo gli sottraeva tutte le energie, aveva sete e non vedeva l’ora di fare una sosta. La donna continuava a camminare. Dopo quasi un’ora arrivarono a una casa che sembrava abbandonata. C’era un cancello di legno divelto, erbacce e stoppie ricoprivano quello che un tempo era stato un vialetto. Dal ramo di un grande albero, al centro dell’aia, pendeva una corda con un’asse, una vecchia altalena rotta. La madre si fermò a qualche metro dall’albero, accigliata, incerta. Luigi Alfredo ne avvertiva il disagio. Dietro il tronco, in piedi, vide una bambina piú o meno della sua statura; ipotizzò che gli fosse sfuggita perché nascosta dall’ombra.
Luigi Alfredo si avvicinò e le disse: – Vuoi giocare?
La madre trasalí e si portò la mano alla bocca. La bambina era pallida, i capelli sporchi di terra sciolti su una veste di tela grezza. Nel ricordo Ricciardi la rivide reale come adesso il ritratto di Mussolini sulla parete. La parte anteriore della veste era di un altro colore, sembrava nera. Luigi Alfredo si avvicinò ancora: il ventre della bambina era squarciato da pallettoni. Dalla carne bruciata e devastata spuntava il bianco delle costole. Fissandolo con gli occhi spenti, disse: Mammà, currite, hanno scassato ’o canciello, currite!
Luigi Alfredo fece un passo indietro, interdetto. Si voltò verso la madre, indicandole la bambina.
– Mamma, aiutatela! Non sentite?
Marta pareva una statua. Guardò verso l’albero, e Ricciardi si rese conto che non vedeva la bambina, pur sentendo qualcosa. Allora si girò verso la casa: sarebbe andato lui stesso a chiamare l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il posto di ognuno
  4. Incontro con Bambinella. di Maurizio de Giovanni
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright