Niente paura
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Niente paura

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«La morte è dolce; ci libera dalla paura della morte», scriveva Jules Renard quand'era giovane e in salute. «Una consolazione? No, è un sofisma. O piuttosto una prova supplementare che per sconfiggere la morte e i suoi terrori ci vuole ben piú della logica e del ragionamento». Lo sa bene Julian Barnes, che dell'una e dell'altro ha sempre fatto ampio uso nel tentativo di esorcizzare la piú atavica e insuperabile delle paure, quella della morte, senza mai riuscire ad addomesticarla. Quali armi restano, dunque, all'agnostico scrittore che, per trovare sollievo dall'idea dell'estinzione, non può neppure contare sul balsamo della fede? Be', innanzitutto ricordare che, oltre a essere la piú viscerale e antica, la paura della morte è anche la piú comune e condivisa. E se è vero che «ogni tanatofobo ha bisogno del conforto temporaneo di un caso piú grave del proprio», guardarsi intorno può aiutare. Julian comincia dal suo entourage piú immediato, la famiglia di sangue - suo padre, un professore «amabile e tollerante», sua madre, anche lei insegnante, ma «lucida, categorica, apertamente intollerante delle opinioni contrarie», e suo fratello maggiore Jonathan, filosofo aristotelico, ateo, asciuttamente pragmatico - trovandoli tutti piú bravi di lui in «questa cosa del morire». Allarga quindi lo sguardo ai compagni quotidiani della sua vita, la sua «vera famiglia»: artisti, filosofi, compositori e soprattutto scrittori, in primo luogo Jules Renard, di cui ripercorre la breve esistenza segnata da lutti prematuri, ma anche Émile Zola, Stendhal, Somerset Maugham, l'amato Flaubert. Le loro risposte all'ineluttabilità della fine si affiancano, in questo semi-dolente excursus, a riflessioni sull'estasi estetica e la religione dell'arte, le réveil mortel e l'inaffidabilità della memoria, Richard Dawkins e i geni egoisti, le ultime parole e i vari tipi di paura, la criopreservazione e la distruzione del pianeta. Ne nasce una sorta di vasta «tanatoenciclopedia» con cui il Julian Barnes scrittore, complice una buona dose di umorismo, dimostra di aver saputo trovare, dopotutto, nella penna la via per la propria sopravvivenza.Una paura atavica e insuperabile attanaglia da sempre Julian Barnes, quella della propria estinzione. Nessun conforto può venire dalla fede, all'agnostico scrittore, che fin dalla prima riga confessa: «Non credo in Dio, però mi manca». Non resta dunque che unirsi alla fitta schiera di illustri tanatofobici che l'hanno preceduto - da Montaigne a Renard, da Rachmaninov a Larkin - provando a convincersi che nel grande «buco nero dell'abisso» non c'è niente, ma proprio niente, di cui avere paura. «Geniale e divertente... concepito con grande abilità... proustiano nell'impianto».
Frank Kermode, «The New York Review of Books» «Un libro tagliente, nel senso che oltre a essere arguto fa male».
«New Statesman»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858438657

Niente paura

per P.
Non credo in Dio, però mi manca. Ecco cosa rispondo quando me lo domandano. A mio fratello, che ha insegnato filosofia a Oxford, a Ginevra e alla Sorbonne, ho chiesto cosa pensava di quest’affermazione, senza rivelargli che era mia. Mi ha risposto con una parola: «Patetica».
È da mia nonna materna che occorre incominciare: Nellie Louisa Scoltock, nata Machin. Era stata insegnante nello Shropshire, poi si era sposata col nonno, Bert Scoltock. Non Bertram, non Albert, Bert e basta: cosí battezzato, cosí chiamato, cosí cremato. Faceva il preside e aveva un debole per la meccanica: un tipo da motocicletta e sidecar, poi proprietario di una Lanchester e, una volta in pensione, di una Triumph Roadster, un’auto sportiva alquanto pretenziosa con sedile a tre posti davanti e due strapuntini dietro se si abbassava la capotta. Quando li ho conosciuti io, i nonni si erano già trasferiti a sud per stare piú vicini alla loro unica figlia. La nonna frequentava il Women’s Institute, preparava conserve e sottaceti, spennava e arrostiva i polli e le oche che il nonno allevava. Era minuta, apparentemente priva di pregiudizi e aveva le nocche ispessite dei vecchi: per togliersi la fede doveva usare il sapone. Il loro armadio era pieno di maglie fatte a mano; quelle del nonno avevano treccioni piú virili. Andavano dal podologo regolarmente ed erano della generazione alla quale i dentisti consigliavano di togliersi tutti i denti in un colpo solo. Il che, all’epoca, rappresentava un normale rito di passaggio: in un batter d’occhio si passava da una dentatura traballante a una di porcellana, a una bocca tutta scorrimenti e scatti, agli imbarazzi in pubblico e al bicchiere d’acqua schiumosa sul comodino.
Il trapasso dai denti alla dentiera era parso – a mio fratello e a me – un evento solenne e sconcio allo stesso tempo. Nella vita della nonna, però, c’era stato un altro enorme cambiamento al quale non si sarebbe mai fatto cenno in sua presenza. Nellie Louisa Machin, figlia di un operaio in una fabbrica di prodotti chimici, era stata educata nella fede metodista, mentre gli Scoltock erano anglicani. A un certo punto, da giovinetta, aveva improvvisamente perso la fede e, come tramanda l’univoca narrazione di famiglia, l’aveva sostituita con qualcos’altro: il socialismo. Ignoro se avesse una fede religiosa forte o quali convinzioni politiche avesse la famiglia; tutto quello che so è che una volta si era candidata con i socialisti per un’elezione comunale ed era stata sconfitta. Quando l’ho conosciuta, negli anni Cinquanta, era passata al comunismo. Doveva essere fra i rari pensionati della zona suburbana del Buckinghamshire abbonati al «Daily Worker» – cosí amiamo ripeterci, mio fratello e io – e abituati a fare la cresta sulla spesa per mandare donazioni al giornale per la Lotta.
Verso la fine del decennio ci fu lo scisma cino-sovietico e i comunisti del mondo intero dovettero scegliere tra Mosca e Pechino. Per gran parte degli adepti europei non si trattò di una decisione difficile; né lo fu per il «Daily Worker», che riceveva sussidi e istruzioni da Mosca. La nonna, che non era mai stata all’estero in tutta la vita e viveva in un’elegante zona residenziale, per qualche ragione mai espressa decise di schierarsi dalla parte dei cinesi. Quanto a me approvai quella decisione misteriosa per puro interesse personale poiché al «Daily Worker» si aggiungeva adesso il «China Reconstructs», una rivista eretica che arrivava direttamente per posta dal lontano continente. La nonna mi conservava i francobolli che staccava dalle buste color biscotto. Di solito, celebravano qualche successo industriale – ponti, dighe idroelettriche, automezzi in uscita dalle catene di produzione – o, in alternativa, mostravano diverse specie di pacifiche colombe in volo.
Poiché qualche anno prima si era verificato un vero e proprio scisma filatelico in casa, non c’era rivalità con mio fratello, che aveva deciso di specializzarsi nell’Impero britannico. Al che, per distinguermi, avevo annunciato che pure io mi sarei specializzato in una categoria che avevo denominato, con una certa logica mi pareva, «Il resto del mondo». La definizione era valida unicamente in rapporto a ciò che mio fratello non collezionava, e non ricordo se quella mossa fosse aggressiva, difensiva o semplicemente pragmatica. Ricordo invece che aveva inaugurato qualche scambio di battute piuttosto astruse fra i membri del club filatelico della scuola, in brache corte fino al giorno prima. «Allora, Barnesy, cosa collezioni?» «Il resto del mondo».
Il nonno era un tipo da brillantina, e il poggiacapo della sua poltrona Parker Knoll – schienale alto e alette laterali contro cui sonnecchiare – non era soltanto decorativo. Si era incanutito prima della nonna, aveva baffi militareschi tenuti corti, una pipa dal cannello metallico e un borsellino per il tabacco che gli gonfiava la tasca del cardigan. Portava anche un voluminoso apparecchio acustico, altro aspetto del mondo adulto – o, piuttosto, di una fase lontana del mondo adulto – che mio fratello e io amavamo sfottere. «Prego?», ci urlavamo a vicenda mettendo le mani a conchetta intorno alle orecchie. Aspettavamo con impazienza il preziosissimo momento in cui la pancia della nonna avrebbe brontolato forte abbastanza da far sí che anche il nonno, malgrado la sua sordità, se ne accorgesse e domandasse: «Il telefono, ma’?» E dopo un grugnito di imbarazzo di quest’ultima, ritornavano ai rispettivi giornali. Il nonno – nella poltrona maschile e con gli apparecchi acustici che fischiavano di tanto in tanto mentre la pipa faceva strani gorgoglii ogni volta che tirava – scuoteva la testa sulle pagine del «Daily Express» che gli descrivevano un mondo in cui la verità e la giustizia erano costantemente in pericolo per via della Minaccia Comunista. Dalla sua poltrona femminile, piú morbida – nell’angolo rosso –, la nonna, fra un tsk tsk e l’altro, sfogliava il «Daily Worker» che descriveva un mondo in cui la verità e la giustizia, nella loro versione aggiornata, erano costantemente in pericolo per via del Capitalismo e dell’Imperialismo.
L’osservanza religiosa del nonno, a questo punto, si riduceva alla visione di Songs of Praise alla tv. Intagliava il legno e si occupava del giardino, coltivava il tabacco e lo metteva a seccare nella soffitta del garage dove conservava anche tuberi di dalia e le vecchie copie del «Daily Express» che legava insieme con dei cordini sfilacciati. Aveva una predilezione per mio fratello, al quale insegnò ad affilare un cesello e lasciò gli attrezzi di falegnameria. Non ricordo che a me abbia mai insegnato (o lasciato) qualcosa, anche se una volta mi concesse di assistere all’uccisione di un pollo nel capanno del giardino. Sistemò l’uccello sotto il braccio, poi lo accarezzò per calmarlo mentre gli incastrava il collo in una pressa di metallo verde, avvitata al montante della porta. E quando fece forza sulla leva, strinse piú forte il corpo dell’animale per tenere a bada le ultime convulsioni.
Mio fratello era autorizzato non solo a guardare, ma anche a partecipare. Piú volte era stato lui a tirare la leva mentre il nonno teneva fermo il pollo. Eppure i nostri ricordi del macello nel capanno divergevano fino a diventare incompatibili. Per me la macchina si limitava a torcere il collo dell’animale; per lui era una ghigliottina in miniatura. «Conservo un’immagine nitida del cestello sotto la lama. E l’immagine (meno nitida) di una testa mozzata, un po’ di sangue (ma non troppo), il nonno che mette giú il pollo decapitato e questo che continua a correre per qualche istante…» Era la mia memoria a essere sterilizzata o la sua a essere infettata dai film sulla Rivoluzione francese? Ad ogni modo, il nonno aveva iniziato mio fratello alla realtà della morte – con tutto il lerciume che comporta – meglio di quanto non avesse fatto con me. «Ti ricordi come il nonno uccideva le oche prima di Natale?» (No). «Rincorreva nel recinto l’oca designata cercando di colpirla con un piede di porco. Quando finalmente l’aveva acciuffata, per sicurezza la placcava al suolo immobilizzandole il collo con il piede di porco e poi le sferrava un colpo secco sulla testa».
Mio fratello si ricorda un rituale – di cui non sono mai stato testimone – che chiamava la Lettura dei Diari. Il nonno e la nonna tenevano entrambi un diario e ogni tanto, di sera, si distraevano leggendo a voce alta ciò che avevano scritto quella stessa settimana di molti anni prima. Gli appunti erano in gran parte banali, ma non di rado provocavano disaccordi. Nonno: «Venerdí. Lavorato in giardino. Piantato patate». Nonna: «Sciocchezze. “Piovuto tutto il giorno. Troppo bagnato per lavorare in giardino”».
Mio fratello ricorda anche che una volta, quand’era molto piccolo, era andato nell’orto del nonno e aveva strappato tutte le cipolle. Il nonno gliele aveva suonate fino a farlo urlare, poi, cosa insolita, era impallidito, aveva confessato tutto a nostra madre e giurato che non avrebbe mai piú alzato un dito su un bambino. A dire il vero, mio fratello non ricorda nulla di tutto questo: né le cipolle, né le botte. È stata la mamma a raccontargli la storia non so quante volte. E comunque, se mai se ne ricordasse, dovrebbe diffidare. Da filosofo qual è, sa bene che i ricordi sono spesso fallaci, «tanto è vero che in virtú del principio cartesiano della mela marcia nessun ricordo è affidabile se non è garantito da un supporto esterno». Io sono piú fiducioso, o forse solo piú incline a illudermi, pertanto continuiamo pure come se tutti i miei ricordi fossero veri.
Il nome di battesimo di nostra madre era Kathleen Mabel. Lei lo detestava e se ne lamentava col nonno, la cui unica spiegazione consisteva nel fatto che una volta conosceva «una ragazza molto carina che si chiamava Mabel». Non ho la piú pallida idea se le sue convinzioni religiose fossero progredite o regredite, fatto sta che ora mi trovo in possesso del suo libro di preghiere rilegato insieme agli Inni antichi e moderni in morbida pelle scamosciata bruna, e ogni volume porta la sua firma, in un sorprendente inchiostro verde, e la data: Dic: 25. 1932. Ne ammiro la punteggiatura: un due punti e due punti fermi, il primo dopo il 25. Non la si vede piú, di questi tempi, una punteggiatura del genere.
Durante la mia infanzia, i tre argomenti tabú erano quelli tradizionalmente innominabili: religione, politica e sesso. Quando mia madre e io arrivammo ad affrontarli – i primi due, cioè, essendo il terzo escluso nel modo piú categorico da qualsiasi ordine del giorno – lei si dimostrò tanto fedele al Partito conservatore da definirsi una «vera blu», come immagino fosse sempre stata. Quanto alla religione, mi disse chiaro che non avrebbe voluto «nessuna carnevalata» al suo funerale. Perciò, quando il tizio delle pompe funebri mi chiese se volevo rimuovere i «simboli religiosi» dalle pareti del crematorio, io gli risposi che molto probabilmente mia madre avrebbe voluto cosí.
A proposito, il condizionale passato è una forma verbale di cui mio fratello diffida parecchio. Nell’attesa che la cerimonia avesse inizio, abbiamo avuto… non esattamente un diverbio – quello avrebbe contrastato ogni tradizione di famiglia – ma uno scambio di vedute, a dimostrazione che, se per i miei standard mi posso definire un razionalista, divento un razionalista assai debole in base ai suoi. Quando nostra madre fu colpita da un primo ictus, accettò con gioia che la nipote C. usasse la sua macchina: l’ultima di una lunga serie di Renault, la marca a cui aveva mostrato una lealtà francofila per oltre quarant’anni. Perciò, mentre ero con mio fratello nel parcheggio del crematorio, mi aspettavo di vedere da un momento all’altro la familiare silhouette dell’auto francese, e invece mia nipote comparve al volante di quella del suo ragazzo R. Feci un commento – pacato, ne sono certo: «Credo che alla mamma avrebbe fatto piacere se C. fosse arrivata con la sua macchina». Mio fratello, altrettanto pacatamente, sollevò un’obiezione logica, facendo notare che esistono le ultime volontà dei morti, ovvero ciò che gli attuali defunti un tempo avevano desiderato, e le volontà ipotetiche, ovvero ciò che le persone potrebbero o avrebbero potuto desiderare. «Quello che avrebbe fatto piacere alla mamma» mescolava le due cose classificandosi come volontà ipotetica di una defunta ed era, pertanto, doppiamente opinabile. «Possiamo fare soltanto ciò che noi desideriamo», mi spiegò; assecondare i desideri ipotetici della mamma era tanto irrazionale quanto prestare ascolto ai propri desideri passati. In risposta, proposi di sforzarci quantomeno di fare ciò che avrebbe voluto che facessimo: a) perché occorre fare qualcosa, e quel qualcosa (a meno di lasciare che il suo corpo marcisse in giardino per i fatti suoi) comportava delle scelte; b) perché speriamo, quando sarà il nostro turno, che gli altri assecondino i nostri desideri.
Frequento poco mio fratello e perciò sono spesso sorpreso dai suoi ragionamenti, sebbene ciò che dice rifletta una totale sincerità d’animo. Dopo il funerale, mentre lo riaccompagnavo a Londra, avemmo un’altra conversazione che vedeva coinvolti mia nipote e il suo ragazzo e – a me perlomeno – parve persino piú singolare della prima. Stavano insieme da molto tempo, ma durante un periodo di separazione C. aveva preso a frequentare un’altra persona. Mio fratello e sua moglie avevano dimostrato un’immediata antipatia nei confronti di questo intruso e, a quanto pare, a mia cognata erano bastati poco piú di dieci minuti per «inquadrarlo». Non domandai chiarimenti in proposito, ma chiesi al contrario: «Di R. invece hai una buona opinione?»
«È del tutto irrilevante – rispose mio fratello – che io abbia o non abbia una buona opinione di R.».
«Veramente no. È possibile che C. desideri la tua approvazione».
«È possibile che C. desideri l’esatto contrario: che io non approvi».
«Ma in un caso o nell’altro, per lei non è irrilevante che tu approvi o disapprovi».
Ci pensò su per un istante. «Hai ragione», disse.
Da questi scambi sarete forse in grado di dedurre che il fratello maggiore è lui.
Mia madre non aveva espresso alcuna preferenza rispetto alla musica del funerale. Ho scelto il primo movimento della sonata in Mi bemolle maggiore K 282 di Mozart, uno di quei lunghi motivi che si srotolano e si riavvolgono maestosamente, gravi persino quando si ravvivano. È parso durare quindici minuti invece dei sette segnalati sul libretto, e di tanto in tanto mi sono sorpreso a domandarmi se fosse un’altra reprise mozartiana o se piuttosto il lettore cd del crematorio non stesse tornando indietro. L’anno prima, per la trasmissione Desert Island Discs a cui avevo partecipato, avevo scelto il Requiem. Piú tardi mia madre mi chiamò per dirmi che mi ero descritto come un agnostico. Aggiunse che quello era il modo in cui si descriveva mio padre, mentre lei era atea. Da come l’aveva messa, pareva che essere agnostici significasse avere una posizione liberale all’acqua di rose, in contrapposizione con la realtà oggettiva dell’ateismo – la «verità del mercato», tanto per intenderci. «A proposito! Cos’è tutto questo parlare di morte?», proseguí. Le spiegai che l’idea non mi piaceva. «Sei tutto tuo padre, – rispose lei. – Chissà, magari dipende dall’età. Quando arriverai alla mia, non te ne importerà piú di tanto. Ad ogni modo, la parte migliore della vita l’ho già vissuta. E pensa al Medioevo: allora le aspettative erano davvero ridotte. Oggi viviamo settanta, ottanta, novant’anni… La gente crede alla religione solo perché ha paura di morire». Questa era una delle frasi tipiche di mia madre: lucida, categorica, apertamente intollerante delle opinioni contrarie. Il suo ruolo dominante in famiglia e le certezze nei confronti del mondo erano stati utili a rendere le cose ben chiare durante l’infanzia, restrittive in adolescenza e dolorosamente ripetitive nell’età adulta.
Dopo la cremazione andai a recuperare il mio Mozart dal cosiddetto «organista», un uomo, mi pensai a riflettere, pagato per inserire un cd nel lettore e per toglierlo qualche minuto piú tardi. Cinque anni prima avevamo salutato mio padre, in un altro crematorio, con un organista che si era guadagnato onestamente il compenso suonando Bach. Era questo «ciò che avrebbe voluto»? Non credo che avrebbe sollevato obiezioni: era un uomo amabile e tollerante, senza alcun interesse per la musica. Per questa, come per molte altre cose, si era completamente affidato – sebbene non senza commenti velatamente ironici – alla moglie. I vestiti, la casa in cui vivevano, l’auto che guidavano: era stata lei a decidere tutto. Da adolescente, implacabile qual ero, lo giudicavo debole. Piú tardi, accomodante. E piú tardi ancora, autonomo nelle opinioni ma poco incline a difenderle.
La prima volta che andai in chiesa con i miei – per il matrimonio di un cugino – rimasi spiazzato nel vedere mio padre inginocchiarsi nel banco e portarsi una mano sulla fronte e davanti agli occhi. E questo da dove salta fuori, mi domandai prima di imitare, senza troppa convinzione, il suo gesto devoto sbirciando furtivamente tra le dita. Era uno di quei momenti in cui i nostri genitori ci sorprendono, e non tanto perché abbiamo appreso qualcosa di nuovo sul loro conto, ma piuttosto per aver scoperto un’ulteriore area della nostra ignoranza. Il gesto di mio padre era una pura cortesia? Pensava che se si fosse messo subito a sedere l’avrebbero scambiato per un ateo à la Shelley? Non ne ho la piú pallida idea.
È morto di una morte moderna, in ospedale, senza la famiglia intorno, accompagnato in quegli ultimi istanti da un’infermiera, mesi – addirittura anni – dopo che la scienza medica gli aveva prolungato la vita fino al punto in cui le condizioni alle quali gli veniva proposta non avevano piú nulla di attraente. Mia madre l’aveva visto qualche giorno prima, ma poi era stata colpita dal fuoco di Sant’Antonio. In occasione di quell’ultima visita l’aveva trovato molto confuso; com’era prevedibile, gli aveva domandato: «Sai chi sono? Perché l’ultima volta non sapevi nemmeno che cosa fossi». E mio padre, in maniera altrettanto prevedibile, aveva risposto: «Credo che tu sia mia moglie».
Accompagnai mia madre in ospedale, dove ci consegnarono un sacco di plastica nera e un portatutto color crema. La cernita fu molto veloce, dal momento che la mamma sapeva esattamente cosa voleva portare via e cosa avrebbe lasciato per – o almeno dentro – l’ospedale. Che peccato, commentò, che non avesse avuto modo di usare le pantofole marroni col velcro che gli aveva comprato poche settimane prima; inspiegabilmente – almeno per me – se le portò a casa. Espresse orrore quando le chiesero se voleva vedere il corpo di papà. Poi mi raccontò che quando era morto il nonno, la nonna era stata «inutile» e le aveva lasciato tutto da fare. Sennonché, in ospedale, un bisogno coniugale o atavico si era impossessato di lei e la nonna aveva insistito per vedere il corpo del marito. Mia madre aveva provato a dissuaderla ma lei era stata irremovibile. Le avevano accompagnate nella sala mortuaria e lí avevano mostrato loro il corpo del nonno. La nonna si era voltata verso mia madre e le aveva detto: «Non ha un aspetto orrendo?»
Quando morí mia madre, l’incaricato delle pompe funebri di un villaggio vicino chiese se la famiglia voleva vedere il corpo. Io risposi di sí, mio fratello di no. Anzi, quando glielo chiesi al telefono, mi disse: «Dio santo, no. In questo sono d’accordo con Platone». Non avendo immediatamente presente il testo a cui si riferiva, gli domandai: «Che diceva Platone al riguardo?» «Che non credeva nella necessità di vedere i corpi dei defunti». Quando raggiunsi da solo i locali delle pompe funebri – semplicemente il retro di una ditta di trasporti – il direttore si rivolse a me con un tono di scusa: «Temo che sia ancora sul retro al momento». Lo guardai con aria interrogativa e lui precisò: «È su una barella». Mi sorpresi a rispondere: «Oh, lei non era il tipo che fa tante cerimonie», senza pretendere di indovinare ciò che avrebbe voluto in quelle circostanze.
Riposava in una stanzetta pulita con una croce alla parete e si trovava, in effetti, su una barella, e mi dava la nuca, cosí da evitare un immediato faccia a faccia. Sembrava, be’, molto morta: gli occhi chiusi, la bocca semiaperta, piú sul lato sinistro che sul destro, il che era una cosa abbastanza sua – teneva la sigaretta nell’angolo destro della bocca e parlava dal lato opposto finché la cenere minacciava di cadere. Mi sforzai di immaginare quanto potesse essere consapevole, se mai lo fosse stata, nel momento della dipartita. Era successo un paio di settimane dopo il trasferimento dall’ospedale alla casa di riposo. All’epoca era già sprofondata nella demenza, una forma che alternava fasi in cui credeva di avere ancora il controllo di ogni cosa e rimproverava le infermiere per presunte manchevolezze a momenti in cui si rendeva conto di averlo perso del tutto il controllo e allora tornava bambina, con i parenti defunti che credeva ancora vivi, e in quel caso le parole che la mamma o la nonna avevano appena pronunciat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Niente paura
  4. Nota al testo.
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright