Brucia, memoria
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Brucia, memoria

  1. 70 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Brucia, memoria

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Informazioni sul libro

Per abitare questa «nuova era oscura», Gianluca Didino si è inventato una scrittura ibrida in cui racconto e divagazione, Roberto Bolaño e Mark Fisher, saggio e personal essay danno vita a un giallo metafisico intorno alle domande: cos'è la memoria al tempo del digitale? I ricordi mi appartengono o sono materiale da cui estrarre valore? E soprattutto: chi è che ricorda?

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858438213

1.

Partimmo per Bilbao poco dopo le 9:14 di martedí 19 luglio 2005. Conosco l’ora e il giorno esatti perché si trovano nei metadati dell’unica fotografia che conservo di quella vacanza, scattata con una macchina fotografica digitale da cinque megapixel che avevo preso in prestito dai miei genitori. Mentre scrivo ho la foto aperta sul computer: seduto sul muretto di casa sua, Pietro guarda verso l’obiettivo, la mano sinistra sulla fronte per ripararsi dal sole già alto alle mie spalle. Nell’altra mano ha una sigaretta; il pacchetto di Golden Virginia giallo è posato accanto alla mano. Doveva fare caldo perché – alto e magro, i capelli ricci tagliati corti – indossa pantaloncini e una polo a righe orizzontali bianche e beige.
La sua giovinezza mi turba, l’arroganza nello sguardo di chi ha tutto davanti a sé. Era anche il mio sguardo, quello? Non posso saperlo con certezza, perché quella foto è anche l’unica traccia che ho lasciato della mia presenza, l’unico testimone esterno alla mia memoria che un giorno d’estate dei miei vent’anni sono partito per Bilbao insieme al mio migliore amico dell’epoca.
Dopo aver scattato quella foto, che immaginavo la prima di molte, posai la macchina fotografica sul muretto, poi andai in cantina a prendere la tenda che avevamo deciso di portare con noi come soluzione d’emergenza. Subito dopo partimmo. Eravamo quasi arrivati in Francia quando la madre di Pietro lo chiamò per dirgli che avevamo dimenticato la macchina fotografica. Mi sentii un idiota, perché avevo dovuto insistere per prenderla in prestito da mio padre invece di usare la piccola Canon analogica che fino ad allora aveva documentato le mie vacanze. Tornare indietro però era impensabile, quindi decidemmo che avremmo comprato una macchina usa e getta appena ci fossimo fermati per la notte. Non la comprammo mai.
Pietro e io ci eravamo conosciuti al liceo, tra i pochi studenti con ambizioni artistiche di quella scuola provinciale che avrebbe sfornato solo ingegneri edili e commercialisti. Io scrivevo racconti, lui dipingeva grosse tele nelle quali comparivano elementi ricorrenti – spirali, guglie, sfere – ed esponeva in una piccola galleria di B., il nostro paese. Avevamo trascorso l’ultimo anno delle superiori nella taverna della casa dei suoi genitori, che Pietro aveva trasformato nel suo studio da aspirante pittore, fumando e parlando d’arte. Mi piaceva guardarlo dipingere mentre uno stereo scassato suonava i pattern ossessivi di un mixtape drum’n’bass o di una composizione di classica minimale: il modo in cui lavorava su un’idea fino a esaurirla, producendo decine di quadri tutti uguali, aveva qualcosa di meccanico ma anche liberatorio. Per lui il senso era una questione di forme e strutture, non esisteva profondità, un piano nascosto, tutto era visibile sulla superficie bidimensionale della tela.
Dopo il diploma era andato a Milano a studiare Architettura, io mi ero iscritto a Lettere a Torino. Capitava che venisse a passare un weekend da me, ma piú spesso ero io a trascorrere una settimana nel suo bilocale in Bovisa. Nelle rispettive città, però, tendevamo a stare per i fatti nostri: io non conoscevo i suoi amici milanesi, con cui diceva di andare a rave a cui non ho mai creduto fino in fondo, e lui non frequentava il mio giro di amicizie a Torino, all’epoca per lo piú legate ai centri sociali. Eravamo decisamente piú a nostro agio a B., dove passavamo i sabati sera giocando a bowling con gli amici d’infanzia che ci stavamo lasciando pian piano alle spalle. Cosí era trascorso un anno, il primo di università, ed era arrivata un’estate torrida nella quale ci eravamo trovati con un mese di tempo da impegnare e nessuna idea di come farlo. Era stato in quell’indecisione umida tormentata dalle zanzare che avevamo pensato di fare una vacanza.
L’idea di Bilbao era venuta nella penombra pomeridiana della taverna. Pietro voleva andare al Guggenheim, per l’architettura ma anche per vedere Anselm Kiefer e Rothko, io avevo la fantasia formulata solo in parte di incontrare Elixane, una ragazza basca che avevo conosciuto quell’inverno durante un’occupazione dell’università, ospite dei miei amici dell’Askatasuna. Avevo il suo numero, ottenuto non so come, ma dubitavo si ricordasse di me. Non sapevo nemmeno se fosse a Bilbao o in un altro dei punti caldi del movimento studentesco di quell’epoca, in Val di Susa o nelle banlieues parigine. Mi ero detto che le avrei scritto una volta in città, lasciando decidere al caso se ci saremmo incontrati o meno.
Ci vedo ancora poco dopo la partenza: siamo in un parcheggio prima del traforo del Frejus, dove ci siamo fermati per pranzare in autogrill, e il freddo ci ha presi alla sprovvista; Pietro saltella per riscaldarsi, il suo abbigliamento estivo inadeguato all’altitudine, mentre cerca una felpa nel bagagliaio della mia Smart blu grosso appena per contenere due borse e la tenda. C’è vento ed è nuvoloso, la temperatura sarà di dieci gradi o forse meno. In lontananza le cime delle montagne sono innevate. Fumo seduto in auto cercando un cd da mettere nel lettore e alla fine opto per The Man-Machine dei Kraftwerk. L’immagine nella mia memoria è nitida, come una fotografia perfettamente a fuoco. Forse, mi viene da pensare, troppo nitida: nella mia memoria è come se fosse successo ieri, non oltre quindici anni fa.
Quella notte dormimmo a Montpellier. La struttura monumentale del locale Arco di Trionfo continuava ad apparire in luoghi diversi mentre in auto giravamo cercando un posto dove passare la notte, le luci della città che si accendevano mentre il cielo si dipingeva dell’indaco del crepuscolo. La mattina dopo partimmo presto, perché per Bilbao c’erano ancora quasi sette ore di viaggio e volevamo arrivare sull’oceano in tempo per fare un bagno nella baia di Biscay.
Doveva dunque essere ancora mattina quando arrivammo allo svincolo di Narbonne. In quel momento guidava Pietro e io avevo il compito di seguire il percorso sull’ingombrante mappa della Francia che avevo preso dal cassetto dei miei genitori dedicato alle mappe del Touring Club. Guidavamo con i finestrini abbassati perché non c’era l’aria condizionata, con il motore della Smart che soffriva l’amore futurista di Pietro per la velocità e i quasi nove minuti di Neon Lights dei Kraftwerk mandati in ripetizione. Fu quello, oppure fu solo che avevamo vent’anni e a quell’età ci si innamora di una ragazza con cui si è parlato mezz’ora a un’occupazione e si salta l’unico svincolo in una strada tutta dritta per cinquecento chilometri, fatto sta che continuammo in direzione Figueres – Girona – Barcellona e ce ne accorgemmo soltanto quando il confine con la Spagna arrivò quattro ore prima del previsto.
Come nel caso della macchina fotografica l’errore era irrimediabile: l’unica soluzione sarebbe stata tornare fino a Narbonne, e a quel punto era già quasi l’ora di pranzo. D’altra parte Barcellona distava meno di due ore, e siccome nessuno dei due c’era mai stato stabilimmo che non faceva poi molta differenza. Mentre prendevamo questa decisione dedicai un pensiero a Elixane, rassegnato al fatto che non l’avrei piú rivista. Oggi mi accorgo di averla scordata quasi del tutto se non per un particolare: un unico dreadlock tinto di viola. Mentre scrivo la cerco su Facebook tra gli amici degli amici di quell’epoca, invano.
Quel secondo incidente di percorso segnò uno spartiacque: lo svincolo sbagliato a Narbonne diede inizio a una nuova vacanza, o alla vera vacanza, oppure a una vacanza dentro la vacanza. Quando arrivammo a Barcellona era già notte. Avevamo passato la giornata a camminare sotto le palme altissime di Figueres che frusciavano nel vento, poi al Museo Dalí e infine in una piccola baia selvaggia nel golfo de Rosas. La prima cosa che vedemmo della città fu la Torre Glòries con la sua aria da missile di film di fantascienza. Eravamo ancora in autostrada, affamati e con la pelle che bruciava per la salsedine, mentre le periferie di Barcellona si agglomeravano intorno a noi. Guidando pensai con un brivido alla sensazione di libertà: poco prima mia madre mi aveva scritto un messaggio chiedendomi «Siete arrivati? Bella Bilbao?» Avevo scritto una lunga spiegazione prima di cancellarla e rispondere soltanto «Arrivati, tutto bene».
Guardai Pietro che fumava con il finestrino abbassato, seduto alla mia destra, poi tornai a concentrarmi sulla strada. «Nessuno sa dove siamo», dissi. Non so se sentí, ma non rispose.
Da quel momento in poi tutto ciò che ricordo sono immagini sparse. La prima notte non troviamo nessun posto in cui dormire e quindi non andiamo a dormire, la passiamo a camminare su e giú sulla Rambla entrando e uscendo da locali fino a quando non vediamo l’alba spuntare su una panchina di Plaça Catalunya. Ci sono volti che compaiono dal buio e vengono risucchiati dal buio, nessuno ha un nome. Una discoteca di Plaça Reial dove conosciamo due ragazze olandesi che alla fine ci invitano nel loro ostello, ma quando arriviamo la stanza è chiusa a chiave e qualcuno dice di andarcene in una lingua incomprensibile. Una sigaretta consumata dal vento sulla spiaggia, a Barcellona o da qualche altra parte in Catalogna, un bagno fatto con la pioggia in quella stessa spiaggia o in un’altra. Ogni giorno che passa siamo sempre piú lontani dal punto di partenza, la sensazione è quella di sprofondare nelle sabbie mobili. Facciamo qualche gita nei paesi circostanti. Tornati in città, al Raval una ragazza con il piercing al naso piange perché è appena stata derubata, siccome è ubriaca la aiutiamo a parlare con la polizia. La luce blu delle sirene le lampeggia ritmicamente negli occhi lucidi dandole l’aspetto di un cyborg triste.
All’ostello di Carrer de Sant Pau, il nostro vicin...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Quanti Einaudi
  4. Brucia, memoria
  5. 1.
  6. 2.
  7. 3.
  8. 4.
  9. 5.
  10. 6.
  11. Gli altri Quanti. Reti
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Copyright