Soggetti smarriti
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Soggetti smarriti

Storie di incontri e spaesamenti

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Soggetti smarriti

Storie di incontri e spaesamenti

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Quante volte, lontani da casa, ci siamo sentiti smarriti. Fuori dall'ordinario e confortevole svolgimento della vita, in un contesto diverso da quello abituale, inciampiamo, simuliamo, improvvisiamo; ma scopriamo anche risorse che non pensavamo di avere. Solo quando andiamo altrove ci mettiamo alla prova, ci lasciamo sconvolgere da incontri inattesi e capiamo quanto sia importante perdersi per ritrovarsi. La scintilla che dà avvio al cambiamento è sempre un viaggio, uno spostamento, una freccia che unisce un luogo di partenza e uno di arrivo. A volte queste frecce sono cortissime, ma sufficienti a cambiare le regole del gioco; altre volte invece sono molto lunghe, e raccontano di fughe dolorose, dalla Siria, dal Cile, dall'Italia in cui la Resistenza è appena finita e non si capisce bene cosa stia cominciando; oppure raccontano di persone che cercano lavoro, e dalla Turchia si spostano in Germania o dal Nepal negli Emirati Arabi. Seguendo le storie di uomini e donne che hanno attraversato i confini, Guido Barbujani ci ricorda che alla fine della freccia ci sarà sempre qualcosa di diverso da quello che ci si aspettava. E che nella vita si paga un prezzo per tutto, ma nonostante questo il mondo bisogna esplorarlo il piú possibile.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858438909

Terrasanta → Saint Bertrand de Comminges

In alto nella navata della cattedrale, inchiodato a un pilastro, a Saint Bertrand de Comminges, sui Pirenei francesi, sta appeso a testa in giú un coccodrillo imbalsamato. Gli manca una zampa e le altre tre sono malridotte, ma nel complesso il suo stato di conservazione può definirsi discreto. Tutto suggerisce che sia pronto a scattare da un momento all’altro, come certi supereroi del cinema: a proiettarsi in giú dalla sua stupefacente rampa di lancio alla rovescia, non si sa bene per far cosa, comunque danni. La bocca semiaperta mostra una chiostra di denti ancora possente, e fa ancora impressione capitarci davanti, cioè in realtà sotto, specie se si è soprappensiero. Eppure non ci vuol molto perché alla sorpresa subentri una sensazione di disagio, lieve ma penetrante. Non è chiaro come quel coccodrillo sia arrivato fin lassú. Dicono che vivesse lí vicino, nella Garonna, e si cibasse di vergini. Piú plausibile, e c’è anche scritto nell’opuscolo acquistabile per due euro all’interno della cattedrale, che ce l’abbia portato un crociato di ritorno dalla Terrasanta: Saint Bertrand de Comminges si trova su uno dei tanti cammini di Santiago. Un ex voto, dunque, ma al tempo stesso un trofeo, viene da pensare. E cosí può succedere, se non si è distratti, se non si sta già pensando a dove andare a mangiare, che alla fine prevalga un senso di pena, la pena che si proverebbe davanti a un prigioniero alla gogna: come in certe fotografie dove militari ben equipaggiati esibiscono un ostaggio di un’etnia diversa, scalzo, pesto e rassegnato. Per qualche motivo la pace della cattedrale nel profumo di fieno, la moderata curiosità dei pochi altri turisti, aggiungono un tocco di desolazione alla scena.

Auronzo → Misurina

Una sera, in un rifugio sopra Cortina, ho fatto due chiacchiere con un ingegnere di Vicenza. La prima volta che mi sono sentito spaesato, mi ha detto, è stato quando mi hanno spaesato: in senso letterale, deportandomi in un paese diverso. Avrà avuto otto anni, era in vacanza come al solito ad Auronzo, dalla signora Monti, e d’improvviso sua madre e suo padre erano dovuti tornare a casa perché le condizioni della nonna si erano aggravate. La signora Monti, che vantava vaghe ma prestigiose parentele con un famoso campione olimpico di bob, era fidata ma anziana, e non avrebbe potuto prendersi cura di quattro bambini, neanche per i pochi giorni in cui i genitori contavano di star via. Per fortuna la signora Monti aveva una nipote che gestiva una pensione: non ad Auronzo, però, a Misurina; nella fretta di partire e in mancanza di meglio, lí avevano deciso di lasciarli. Da Auronzo a Misurina saranno venti chilometri, ma cambia tutto, mi diceva l’ingegnere. Auronzo è un vero paese: le strade hanno i nomi, ci sono negozi e c’è, o c’era, un cinema, il Kursaal, di cui, mi ha detto, lo impressionava soprattutto la doppia A. Misurina no: sono, o erano, poche case lungo un’unica strada intorno al lago, tutti piccoli alberghi o pensioni, piú la baracca in legno della scuola di sci, chiusa d’estate; e, lontano, in fondo, sullo sfondo del Sorapis, la mole inquietante di un grande edificio di cura a cinque o sei piani, isolato, sempre in ombra anche nei giorni di sole, triste, austroungarico, a cui da sempre ai bambini era proibito avvicinarsi. Ancora confusi per il repentino cambiamento, innervositi dalla sparizione della mamma e del papà, avevano passato il primo pomeriggio chiusi in casa a farsi dispetti. L’indomani mattina, la nipote della signora Monti li aveva mandati tutti fuori, alé, a giocare nel prato. Allora il fratello piú grande ha deciso che avrebbero fatto il giro del lago. Il progetto, ha precisato l’ingegnere di Vicenza, aveva i suoi pro e i suoi contro. Fra i primi, l’esplorazione di un territorio sconosciuto e l’andamento circolare, preferibile secondo loro a itinerari di andata e ritorno per la stessa via; fra i secondi, il fatto che quel territorio sconosciuto comprendeva l’area intorno al sanatorio, popolata nella loro immaginazione da pericolosi agenti patogeni, presumibilmente bacilli a sentire il fratello piú grande, che però non dubitava che valesse la pena di correre il rischio.
E cosí sono partiti, ma piú si avvicinavano all’area proibita, piú vividamente l’ingegnere si immaginava il rischio di essere contagiati, la lunga degenza in ospedale; forse, la morte. Si immaginava, mi ha detto, che di colpo si sarebbe spalancata la porta e ne sarebbero emersi, in camicioni bianchi lunghi fino ai piedi, i bambini malati, pallidissimi, le mani tese verso di loro per un abbraccio mortale. Non dovevano essere solo pensieri suoi se, arrivati al dunque, il fratello piú grande ha fatto un lungo discorso, spiegando come fosse meglio deviare e non passare davanti alla costruzione, che peraltro pareva chiusa. Ha invece proposto di abbandonare il sentiero e fare un giro molto largo, su e giú per i prati. La proposta è stata accettata, solo che intorno ai laghi di montagna scorre l’acqua, in rivoli poco visibili, ma in cui capita, specie in età scolare, di ficcare il piede e tirarlo fuori tutto bagnato. È capitato all’ingegnere per primo, nel giro di pochi minuti poi a tutti gli altri. Non erano ancora a metà del cammino, e già avevano i piedi fradici e le scarpe gli facevano male; una sorella non voleva piú camminare, l’altra si è messa d’improvviso a dire che voleva subito la mamma, e intanto scuoteva la testa come un cavallino imbizzarrito. Il fratello piú grande, di solito testardo, ha dovuto constatare che avevano fallito; fra l’altro, come capita in montagna, il cielo si era coperto, e sembrava di sentire i tuoni di un temporale in arrivo. Sono tornati indietro, trascinando i piedi, e le piccole piagnucolavano. Ma non è finita lí, perché non avevano ricevuto istruzioni su come comportarsi con la biancheria sporca, e l’ingegnere temeva di essere sgridato se i genitori avessero scoperto che anche per quello avevano gravato sulla nipote della signora Monti, già cosí gentile a ospitarli e a far loro da mangiare. Asciugati quindi di nascosto i piedi e sostituiti i calzini, in un impeto di civismo si è fatto carico della responsabilità. Con il coltellino svizzero di cui era fiero possessore aveva raschiato una saponetta fino a ottenerne una quantità sufficiente di sapone in polvere; aveva tappato il lavandino, ci aveva messo i calzini sporchi di tutti e quattro e la polvere di sapone, aveva aperto l’acqua. E proprio in quel momento squilla il telefono e li chiamano di sotto, perché è la madre e vuol sapere se stanno bene. Corrono giú dalle scale tutti contenti, e intanto l’acqua scorre, scorre e deborda, e quando la telefonata finisce la stanza è allagata, e la nipote della signora Monti si mette le mani nei capelli e alza la mano per dargli uno scappellotto, cosa che all’epoca si faceva abbastanza spesso, ha precisato l’ingegnere, non era come adesso che ai bambini non si può torcere un capello… e comunque all’ultimo non lo ha fatto, è solo rimasta con la mano per aria, imprecando in dialetto cadorino.
È stato cosí che l’ingegnere ha scoperto cosa volesse dire trovarsi spaesato, lontano da casa, e ci ha riflettuto a lungo quella sera prima di addormentarsi, e poi nei giorni successivi, in cui, mi ha detto, hanno tenuto una condotta irreprensibile finché i genitori sono venuti a riprenderli. A quel punto quasi gli dispiaceva tornare ad Auronzo, perché intanto si erano impratichiti: avevano scoperto dove andare a cercare lamponi e dove c’era una fontana di acqua fresca in cui riempire le borracce; con il pongo avevano appeso sotto una roccia sporgente uno spago e sotto, legata, una pigna, dai cui movimenti desumevano la direzione del vento; una sorella sosteneva addirittura di aver visto un capriolo. Non disponeva ancora delle parole per pensarlo veramente, con chiarezza, mi ha detto l’ingegnere; ma è sicuro che proprio allora, in quello spaesamento che un po’ alla volta andava attenuandosi, ha capito che il mondo è pieno di cose interessanti; che però nella vita si pagano dei prezzi per tutto; e che, nonostante questi prezzi, il mondo bisogna esplorarlo il piú possibile.

Kuala Dungun → Londra

A metà degli anni Novanta, un matematico padovano di mia conoscenza ha passato un semestre a Londra, al QMW, il Queen Mary and Westfield college, dove ha subito imparato una parola nuova: expat, espatriato; voleva dire lui e quelli come lui. Era una parola interessante e se ne è servito spesso, in seguito. Era stato invitato al QMW da uno dei massimi esperti mondiali di etologia degli imenotteri. Si chiamava Alan Harris e, con un lavoro di anni, aveva messo a punto una telecamera speciale che registrava fedelmente sul computer i movimenti delle formiche, una per una; adesso, con tutti questi tracciati, voleva sviluppare un modello che ne spiegasse la logica, e per questo contava sull’aiuto del matematico padovano. Il primo giorno, seguendo le istruzioni ricevute, il matematico era sceso alla fermata della metropolitana di Stepney Green, e lí aveva fatto finalmente conoscenza con Harris, cortese, ciarliero, e riconoscibile da un cartello con lo stemma del QMW. Invece di mettersi subito a parlare di lavoro, per strada avevano chiacchierato, trovandosi entrambi simpatici. Harris gli aveva descritto il quartiere; si chiamava Mile End perché nel Seicento gli ebrei non potevano risiedere a meno di un miglio da Aldgate, la porta d’ingresso nella City: e il miglio, gli aveva detto, finiva appunto lí. L’aveva poi accompagnato nel posto dove avrebbero lavorato in due stanze vicine, il Building C, che aveva una strana struttura, di difficile decifrazione anche per una mente matematica. Si sviluppava infatti, il Building C, intorno a corridoi circolari, uno per piano; all’esterno degli anelli c’erano i laboratori e gli studi dei docenti, all’interno magazzini e servizi. Il primo giorno in un posto nuovo è sempre complicato, e il matematico si era trovato diverse volte a bussare alla porta di Harris per farsi spiegare come attivare la casella di posta elettronica, come compilare i moduli per ottenere il tesserino di accesso e cosí via. Quando aveva sentito bisogno di andare in gabinetto aveva pensato di potercela fare da solo, almeno quello, e si era avviato in una direzione a caso nel corridoio. Avendo subito trovato una toilette riservata alle donne, aveva pensato che piú avanti ci sarebbe stata quella degli uomini. Ma un po’ piú in là aveva constatato l’esistenza di una seconda toilette delle donne; poi di una terza; e infine si era ritrovato al punto di partenza, davanti al suo studio, perché è questo che succede quando i corridoi sono circolari. Perplesso, aveva percorso lo stesso itinerario al contrario, convinto che qualcosa gli fosse sfuggito; ma non era andata meglio: tre bagni, gli stessi di prima, naturalmente in ordine inverso, e tutti e tre per signore. Mortificato, era tornato a chiedere aiuto a Harris, che con un sorriso gli aveva spiegato il busillis. Per un residuo di mentalità vittoriana, al QMW vigeva un regime di segregazione di genere, cosí gli aveva detto: a seconda del piano, si alternavano servizi igienici solo per donne e solo per uomini; e quindi il matematico avrebbe dovuto fare le scale, in su o in giú non faceva differenza, ogni volta che gli fosse scappata. Harris consigliava di andare in su, dove la macchinetta per il caffè era migliore.
Curioso del nuovo ambiente, il matematico padovano aveva voluto accompagnare Harris a lezione già il giorno successivo. Sono entrati in un bellissimo laboratorio; intorno a lunghi banconi immacolati, decine di studenti, a due a due, erano chini a trasferire liquidi azzurrini da una provetta all’altra. Il matematico è stato colpito dal buon odore della stanza (Cosa ti sei perso a non fare biologia, eh?, aveva commentato Harris), e in seguito da due ragazze avvolte da capo a piedi in un velo nero; dall’unica apertura sbucavano due visi tondi dai tratti orientali. All’epoca a Padova non era comune vedere gente vestita cosí, e pochi conoscevano la parola hijab; il matematico aveva detto qualcosa che a Harris non doveva essere piaciuto. Sempre cortese, un’ombra di sorriso sulle labbra, aveva commentato: «In effetti, è molto probabile che sotto il velo nascondano esplosivi con i quali progettano di fare una strage». Nonostante l’osservazione fatta in tono leggero, non polemico, il matematico si era sentito in dovere di rispondere: si considerava persona aperta e cosmopolita, non gli piaceva fare la figura del bigotto. Aveva quindi dichiarato che non pensava certo a quello. Tuttavia, l’abbigliamento delle due ragazze (malesi, aveva precisato Harris appena usciti dal laboratorio) equivaleva a una perentoria affermazione di identità, identità religiosa, che in definitiva creava imbarazzo e le isolava dal resto dei compagni di corso. Secondo lui, avevano ragione in Francia, dove proibivano abbigliamenti del genere nelle scuole e nei luoghi pubblici. Harris aveva ammesso che le due ragazze vivevano effettivamente «in una bolla», cosí aveva detto, con scarsi contatti, o nessuno, con quelli che, a mezzo metro da loro, imparavano con loro le stesse tecniche di laboratorio. Ma avrebbe dovuto vedere gli sguardi che lanciavano, le due studentesse malesi, quando vicino passava qualche ragazza vestita all’occidentale, disinvolta e disinibita. Invidia, semplice invidia: ecco quello che, secondo Harris, provavano. Dell’invidia tutti parlano molto male, aveva aggiunto, però può mettere in moto fenomeni, alla fine, positivi. Se non gli si fosse messa addosso troppa pressione, in genere come sappiamo controproducente, le due ragazze, sosteneva Harris, avrebbero trovato il modo di liberarsi da sole dai vincoli che le opprimevano; e se non l’avessero fatto, avrebbe solo voluto dire che quei vincoli, in realtà, non le opprimevano, o che non era ancora venuto il momento di liberarsene.
Al termine del semestre il matematico è tornato a Padova. Il loro studio sulle formiche è stato pubblicato su una rivista prestigiosa, anche se poi non ha avuto l’eco sperata. In compenso, il legame con Alan Harris è diventato una vera amicizia, e hanno continuato a sentirsi, a scriversi e, quando possibile, incontrarsi, anche dopo che ciascuno ha ripreso la sua strada. Nel frattempo, il matematico ha continuato a girare il mondo e ha avuto modo di riflettere. Ha pensato che in fondo lui e le ragazze malesi condividevano la condizione di expats; ha ammesso, una sera davanti a uno specchio, che neanche il suo abbigliamento era granché, eppure non sarebbe stato contento di ricevere consigli non richiesti su come migliorarlo, e specialmente da un malese. Qualche tempo dopo, in occasione di un congresso a Barcellona, hanno cenato insieme, lui e Harris, in un ristorante thai. A fine pasto il matematico è uscito per fumarsi una sigaretta, e l’altro, gentile come sempre, l’ha accompagnato. Sai, a proposito di quelle ragazze malesi col velo, – ha detto il matematico, – mi sa che alla fine avevi ragione tu. Sono cose molto delicate, non serve a niente cercare di forzare la mano, come fanno i francesi. Devono essere loro, quando se la sentono, a liberarsi da sole di quello che non gli va piú bene, nella famiglia e nella religione. Mi sa che invece avevi ragione tu, – gli ha risposto Harris. – Un giorno, poco dopo che sei partito, sono venute a lezione tutte e due senza velo. Avevano pantaloni neri e maglioni neri con le maniche lunghe, spuntavano solo viso e mani: la differenza si notava appena. Poi non si sono piú viste per due settimane, e quando sono tornate portavano ancora l’hijab; hanno finito il semestre ma l’anno dopo non si sono piú iscritte. Mi hanno detto che i fratelli, a casa, le avevano riempite di botte. Forse se avessimo imposto noi delle regole, un codice di abbigliamento come nelle scuole superiori dove tutte portano lo stesso pullover e la stessa gonna, sarebbe stato piú semplice. Il primo passo le due ragazze l’avevano fatto. Noi non abbiamo trovato, non abbiamo neanche cercato in realtà, il modo di dar loro una mano.

Tunisi → Saint-Denis

Il 13 novembre del 2015, a Parigi, centotrenta persone sono rimaste uccise nel corso di una serie di azioni terroristiche. Il 15 novembre Amel, francese, nata a Nantes vent’anni prima tondi tondi, ha deciso che da quel giorno in poi avrebbe portato il velo, l’hijab. Suo padre, emigrato dalla Tunisia, era elettricista, un elettricista molto bravo, mi ha detto. Dopo un primo anno a Mazamet era tornato a casa per sposarsi; in seguito si era stabilito con la famiglia, che intanto cresceva, a Tolosa, a Nantes, e infine a Parigi, ma siccome gli affitti erano cari vivevano nella periferia: a Saint-Denis, dove ci sono le tombe dei re. Amel era una ragazza riflessiva. Parlava poco, sondava il mondo con grandi occhi neri. A scuola prendeva sempre bei voti, e ogni volta che c’era ricevimento l’insegnante di francese diceva alla madre che sarebbe stato un peccato se non continuava a studiare, al che la madre rispondeva invariabilmente Se Dio vuole. Probabilmente Dio voleva, e soprattutto lo voleva il padre, che l’adorava, perché Amel si è diplomata e poi si è iscritta all’Università. Le piacevano gli animali e ha scelto veterinaria, all’EnvA di Alfort. Per arrivarci, doveva attraversare da nord a sud tutta Parigi; ci voleva un’ora, e due o tre linee diverse della metro, ma lo faceva volentieri. All’EnvA trovava sempre il tempo di fare un salto al museo Fragonard, che non aveva niente a che vedere con il pittore, ma molto, in compenso, con gli animali. L’avevano rimesso a nuovo, dopo vent’anni in cui era rimasto in stato d’abbandono, e ad Amel un po’ dispiaceva. Girando per le sale, ora verniciate di fresco, si immaginava, e le pareva di ricordarsi anche se non li aveva mai visti, i parquet scricchiolanti, la penombra, i muri ammuffiti, gli scheletri di giraffa che si coprivano di polvere tendendo il collo sotto i soffitti altissimi, le teche in cui le ossa stavano accatastate. Adesso era tutto cambiato, tutto luminoso e didattico e razionale, ma ad Amel piaceva viaggiare nel tempo, in quel luogo ci riusciva facilmente, e perciò ne amava l’atmosfera, il profumo che secondo lei ci era rimasto intrappolato dall’Ottocento: in piccole quantità, certo; ma quelli con un po’ di naso, e lei il naso ce l’aveva buono, riuscivano ancora a sentirlo. Secondo lei era la presenza di Henri Bouley, l’apostolo delle teorie di Pasteur in campo veterinario, che adesso, in redingote e mustacchi di marmo, controllava che tutto fosse in ordine dal suo piedistallo in giardino.
Amel aveva qualcosa che avvicinava gli sconosciuti, la gente si fidava di lei. Il venerdí e il sabato sera lavorava in un bar, all’angolo davanti alla basilica di Saint-Denis, e lí aveva raccolto un vasto campionario di confidenze da parte degli avventori. Comprendeva, questo campionario, storie di mogli infedeli, di figli drogati o somari, di debiti; lei ascoltava, non giudicava, diceva poche parole, ma al momento buono, amichevole ma ferma, sapeva come consigliare al cliente di non prendere un’altra birra. Per strada, poi, era sempre lei quella a cui chiedevano informazioni, e a nessuno veniva in mente che non fosse francese per come parlava, si muoveva e si vestiva; al massimo qualcuno la scambiava per spagnola. Invece la sua amica marocchina Eya aveva la pelle scura. Una sera un ubriaco le aveva seguite, mentre tornavano a casa dal cinema; non aveva fatto loro del male, le aveva solo infastidite, per un po’, finché si era stufato; continuava a ripetere che Amel, in quanto francese, avrebbe dovuto insegnare alla sua amica la buona educazione. Loro ne avevano riso, era stato un episodio isolato: qualcosa, dice Amel, di cui si sarebbe presto dimenticata, non fosse che l’avrebbero presto obbligata a ricordarsene.
La sera del 13 novembre del 2015 il primo attentato avviene proprio a Saint-Denis, allo Stade de France, dove migliaia di tifosi stanno assistendo a un incontro internazionale di calcio. Era un venerdí, e in quel momento Amel, che vuol dire speranza, stava pulendo il bancone del bar; non c’era tanta gente, forse erano rimasti in casa a vedere la partita in televisione. Dice che l’esplosione è stata forte, ma sul momento nessuno nel locale ci ha fatto molto caso; poi però hanno sentito gli elicotteri e le sirene. Il padrone del bar ha acceso la radio; non si capiva cosa fosse successo, ma era senz’altro qualcosa di grosso, e lí vicino a loro. Ha spedito tutti a casa e ha tirato giú la saracinesca. Per il resto della serata, fino a notte, Amel ha seguito gli eventi in televisione, con la sua famiglia; all’una l’ISIS ha rivendicato gli attentati, ma a quel punto loro erano già andati a letto. Erano costernati e preoccupati, continuavano a scambiarsi commenti andando su e giú in pigiama, qualcuno con lo spazzolino in bocca; ma, dice Amel, nessuno pensava che gli eventi avessero qualcosa a che vedere con loro: la Francia è piena di nordafricani, Saint-Denis piú del resto, e poi loro sono francesi; l’idea di poter essere in qualche modo collegati all’attacco, o addirittura accusati di avere una qualsiasi responsabilità, non li ha nemmeno sfiorati. Forse, si corregge, a suo padre il sospetto è venuto. Se è stato cosí, è stato anche bravo a non farlo trapelare. Il padre aveva sempre a disposizione qualche argomento rassicurante e si preoccupava che stessero tranquilli, anche perché invece la madre era molto nervosa, e piú volte avevano dovuto darle delle pillole.
Quando Amel si è risvegliata il sabato mattina, piú tardi del solito perché era andata a letto piú tardi del solito, ha trovato la sua pagina Facebook piena di insulti. Era gente che non la conosceva, che evidentemente aveva preso di mira tutti i nomi arabi che trovava. La insultavano in modi diversi, a volte credendo che fosse un maschio, e quindi secondo loro un potenziale stupratore. Ma tutti questi messaggi, brutali e a volte feroci, avevano una cosa in comune: pretendevano che lei e tutti i suoi, tutti gli arabi, o forse tutti i musulmani, in quel momento sembrava non facesse alc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Soggetti smarriti
  4. Terrasanta → Saint Bertrand de Comminges
  5. Auronzo → Misurina
  6. Kuala Dungun → Londra
  7. Tunisi → Saint-Denis
  8. Jaipur → Vienna
  9. Salerno → Barcellona → A Coruña
  10. Katmandu → Abu Dhabi
  11. Martina Franca → Pero
  12. Baltimora → Indianapolis
  13. Pola → Székesfehérvár
  14. Nizza → Kara-Khoto
  15. Nevşehir → Bochum
  16. Montegalda → Maracay → Vicenza
  17. Aleppo → Digione
  18. Prato → Paterson → Monza
  19. Perugia → Colmar
  20. Tallinn → Riga
  21. Madurai → Crans Montana
  22. Napoli → Washington
  23. Mestre → Venezia
  24. Kragujevac → Tavira
  25. Santiago del Cile → Copenaghen
  26. Potsdam → Rosenheim
  27. Livingstone → Victoria Falls
  28. Libreville → Apalachicola
  29. Chicoutimi → Shanghai → Doha
  30. Hallstatt → Civitavecchia
  31. Gerusalemme → Axum
  32. Roccaraso → Nampula
  33. La Plata → Isla Olvidada
  34. Ferrara → Aguscello
  35. Tokyo → New York → Eugene
  36. Il libro
  37. L’autore
  38. Dello stesso autore
  39. Copyright