Beatles e Rolling Stones
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Beatles e Rolling Stones

Apollinei e dionisiaci

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Beatles e Rolling Stones

Apollinei e dionisiaci

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Beatles o Rolling Stones? Nessuna opposizione piú di questa ha diviso milioni di appassionati negli ultimi cinquant'anni. E noi, da che parte stiamo? «Per quale ragione al mondo io, ragazzo baciato dalla fortuna di crescere insieme ai Beatles e ai Rolling Stones, in tempo reale, in perfetta sincronia generazionale, avrei dovuto scegliere per forza l'uno o l'altro? Perché mi si chiedeva di rinunciare a una parte di quell'Eldorado, di limitare quell'offerta cosí generosa e irripetibile che i tempi mi concedevano? Detto altrimenti: perché schierarsi? Insensata, illogica, eppure quella sciocca domandina non c'era verso di abbatterla».

Da un lato i Beatles, i ribelli educati con la faccia da bravi ragazzi, uniti da una forte amicizia, che in poco meno di un decennio hanno stravolto la fisionomia della musica pop. Dall'altro i Rolling Stones, i diabolici rappresentanti di un rock sboccato e trasandato, inaffidabili, individualisti, la band piú longeva di sempre, che ancora oggi riempie gli stadi in ogni angolo del mondo. È arrivato il momento di trovare la risposta definitiva alla piú popolare fra le dicotomie. Per scoprirla Gino Castaldo ripercorre la storia delle due band, svela retroscena, ci racconta un duello che, prendendo vita da una semplice domanda, costringe a fare i conti con il significato stesso dell'esistenza: « Let it be o Let it bleed? Essere o sanguinare? Questo è il problema».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858438459
Capitolo quinto

I duellanti (elogio della rivalità)

Anche il duello musicale, a suo modo, può essere un’arte. Fatevelo dire dai musicisti che l’hanno praticato. Gli esiti possono essere imprevedibili e molto creativi, proprio come accadrebbe in una sfida immaginaria tra Apollo e Dioniso. In alcuni casi vincerebbe Apollo per sopraffazione estetica, in altri Dioniso, sfruttando gustosi trucchetti imparati nei bassifondi. I contendenti potrebbero finire dispersi nel cielo o affogati, euforici, nelle botti di vino. Sta di fatto che la musica è sempre stata un invitante territorio di battaglia, a colpi di versi, ideologie, fatti personali, scelte, provocazioni, a volte anche per semplice antipatia o volgari tradimenti. Gli esempi sono infiniti, e i pretesti davvero fantasiosi. Neil Young e i Lynyrd Skynyrd si sono battuti per la dignità di uno Stato, l’Alabama; Buddy Bolden sfidava gli altri trombettisti per le strade di New Orleans solo per stabilire chi era il piú bravo; i compositori classici non disdegnavano duelli al pianoforte; ci si è scontrati senza soluzione di continuità fino alla morte, uccisi a colpi di pistola, come è successo a Notorius B.I.G. e 2Pac, o per motivi molto piú frivoli come fanno oggi Drake e Kanye West. Il dissing, nel rap, è quasi un sotto genere – nei freestyle ci si affronta a viso aperto e senza risparmiarsi –, è un elemento antico, ancestrale, che viene da molto lontano, e l’èra della riproducibilità e della comunicazione di massa non ha fatto altro che spostarlo in una dimensione piú astratta e collettiva, in cui ci si può sfidare a distanza, anche senza essersi mai visti in presenza.
Inutile dire che in epoca classica la madre di tutti i duelli fu la rivalità che ha opposto Beatles e Rolling Stones. Ma chi ha lanciato il guanto? E, soprattutto, chi ha vinto?
Fosse o meno vera alle origini, di fatto una autentica rivalità tra le due band, come abbiamo visto, finí per crearsi. Quando i Beatles apparvero sulla scena, gli Stones li percepirono come una minaccia, un pericolo che veniva dal Nord; poi però impararono presto che la strada che si stava spalancando grazie ai rivali avrebbe agevolato tutto il nuovo movimento musicale, come in effetti accadde. Gli stessi Beatles intuirono la forza contagiosa degli Stones fin da quella prima, famosa volta in cui, in cerca di novità nella nuova vita londinese, andarono a vederli in un locale di Richmond. Fecero amicizia e gavazzarono fino a tarda notte. Quattro giorni dopo, il 18 aprile, gli Stones ricambiarono la visita a Kensington, a un concerto dei Beatles, come ospiti speciali. In quell’occasione toccarono con mano cosa voleva dire essere adorati, ma scoprirono anche l’esplosiva e minacciosa potenza racchiusa nella band. Se i Beatles erano la stella luminosa al centro del nuovo sistema solare, gli Stones dovevano accontentarsi di essere il piú grande e imponente pianeta che le orbitava attorno.
Dunque una certa rivalità era inevitabile, ma è chiaro che lo scontro fu fomentato in gran parte dai media inglesi, ai quali non sembrava vero, per ogni gruppo che si affacciava in classifica, di poter dire che stava «spodestando» i Beatles, fossero anche i Dave Clark Five, gli Who o i Kinks. È ovvio che, nel caso degli Stones, la questione fosse piú seria, ma di certo si trattava di un meccanismo tutto inglese che in Italia, pur essendo patria di inguaribili tifosi, non abbiamo mai avuto in campo musicale, se non in minima parte. Rimane da capire quanto le due band abbiano consapevolmente alimentato la sfida. Una quota di malizia c’è stata, e piú di una volta sulla reciproca rivalità ci hanno giocato, anche con molta ironia.
Una tipica battuta è quella che pronunciò Keith Richards al quarantesimo anniversario dello show Saturday Night Live. Entrò in scena con la sua andatura dinoccolata e lo sguardo strafottente e divertito di chi nella vita ne ha viste talmente tante da non stupirsi piú di nulla e disse: «All’inizio degli anni Sessanta, dall’Inghilterra è arrivata una band che ha cambiato il mondo… – pausa d’effetto. Poi, con un sorriso beffardo: – Ma ora basta parlare dei Rolling Stones. Signore e signori: Paul McCartney!»
Sorprende casomai il modo in cui i due gruppi siano rimasti sostanzialmente amici, ma anche qui ci sarebbe tanto da scavare, e gli indizi andrebbero analizzati a fondo. Si dice che in un certo momento siano stati perfino disposti a mettersi d’accordo sull’uscita dei singoli per non pestarsi i piedi a vicenda. La leggenda narra anche di un marchio che Jagger avrebbe voluto depositare per un eventuale progetto di collaborazione, per esempio uno studio di registrazione da gestire insieme, e ciò poteva addirittura far presagire possibili collaborazioni musicali. Com’è noto non se ne fece nulla. Sarebbe stato troppo, anche per i teorici dell’amore universale.
Nel 1967, però, parve quasi che potesse stabilirsi una sorta di fratellanza. O almeno, stando alle apparenze. Il 1º giugno uscí Sgt. Pepper e fu una svolta epocale. Per la prima volta la parte piú giovane e creativa del mondo occidentale si trovò unita, come se il disco fosse stato un diapason su cui accordare il sentimento collettivo. Anche l’avvicinamento tra i due gruppi poteva sembrare una diretta conseguenza dell’amoroso abbraccio che stava «contagiando» il pianeta. Ogni singolo dettaglio di quel disco raccontava l’estetica della trasformazione. E la copertina, di fatto un’opera di pop art, rappresentò l’apice della nuova sperimentazione grafica e iconografica che si stava sviluppando intorno al rock. Nella celeberrima composizione, sul lato destro in basso, c’è una bambola stravaccata su una sediolina con su scritto: «Welcome the Rolling Stones». Si tratta di un chiaro omaggio, perché sono i soli, oltre ovviamente ai Beatles, a essere nominati nel capolavoro firmato da Peter Blake – e sono messi in una posizione unica, non concessa neanche al maestro Dylan, che è in fila dietro la band, insieme a tutte le altre faccine del pantheon. Allo stesso tempo, però, c’è una sottile ironia per il fatto che si trovino in basso, nel giardinetto dei Beatles, quasi fossero dei fiori da loro coltivati. In questa capacità di usare le immagini per aggiungere significati alla propria musica, i quattro di Liverpool sono stati magistrali; eppure resta una certezza: nell’album piú influente della storia pop, nella copertina piú celebre di sempre, i Beatles trovarono il modo di includere gli Stones, un gesto che, se pure rimarcava la loro superiorità, era pieno di affetto e considerazione, forse anche un rispettoso riconoscimento dell’avversario, della sua lealtà e del suo rango.
Se il disco era stato la piú folgorante rappresentazione artistica di quella che fu definita la Summer of Love, il completamento dell’opera avvenne il 25 giugno, quando quattordici nazioni misero insieme il primo programma in mondovisione, intitolato Our World. L’Italia scelse due collegamenti, uno con Piazza di Siena a Roma per un’esibizione ippica dei fratelli D’Inzeo, e un altro col set di Zeffirelli di Giulietta e Romeo. L’Inghilterra sfoderò la sua carta migliore, chiese ai Beatles una canzone inedita che fosse comprensibile ai quattro angoli del mondo, e Lennon rispose con un altro dei suoi colpi di genio, un pezzo intitolato All you need is love, un semplice, disarmante inno pacifista che fu visto da trecentocinquanta milioni di spettatori. Nel video, Paul ha un fiore tra i capelli, tutto è colorato, sgargiante, il clima è spumeggiante, e lo studio è pieno di amici seduti per terra, tra cui spicca, inquadrato in primo piano mentre canta in coro All you need is love, Mick Jagger. Per essere due gruppi cosí diversi e lontani, per non dire antitetici e ferocemente rivali, sembrava quantomeno una dichiarazione di pace, un calumet fumato davanti agli occhi del mondo. La verità è che si sono incrociati un’infinità di volte, ma quello, a parte il periodo iniziale, fu il momento di maggiore vicinanza, in cui perfino gli Stones sembravano impegnati a rendere omaggio ai colori della cultura hippie. L’ebbrezza dilagante era capace di produrre miracoli, e quando Allen Ginsberg arrivò a Londra per una manifestazione di protesta, si ritrovò a casa di Paul McCartney, dove c’era Mick Jagger, che lo invitò agli Olympic Studios per una sessione di lavoro a cui avrebbero partecipato anche John e Paul. All’epoca gli Stones occupavano a oltranza gli studi, lavoravano e facevano festa, con tempi molti dilatati, si dice anche allo scopo di irritare Oldham, cosa che in effetti avveniva. Quando sopraggiunsero Paul e John, erano alle prese con un pezzo di cui non riuscivano a venire a capo. Si intitolava We love you, ed era per l’appunto un omaggio all’«amore», la parola d’ordine di quegli anni. Si racconta che, di fronte al caos in cui versava la situazione, Paul e John abbiano preso in mano la seduta, inserendo coretti, organizzando e facendo in modo che il brano diventasse concreto agli occhi degli Stones e del cinico Oldham, che raccontò estasiato l’episodio in chiave di miracolo. Si narra persino che qualcosa di quei coretti dimostrativi sia rimasto nella versione definitiva, ma se è cosí è davvero impercettibile. Se pure ci fossero, le voci di Paul e John non si distinguono. La canzone comunque andò molto bene, fu un successo e, sebbene sminuita dallo stesso Jagger come una «cosetta divertente», rimane uno dei pezzi Stones piú beatlesiani, e fu letta come un ringraziamento ai fan che avevano sostenuto la band nelle recenti vicende giudiziarie. Il video che venne realizzato confermò questa impressione: inizia con delle catene trascinate e la porta di una cella che sbatte. Oltre a momenti di lavoro in studio, mostra una ricostruzione del processo intentato contro Oscar Wilde nel 1895, con Jagger nella parte di Wilde, Keith Richards in quella del marchese di Queensberry e Marianne Faithfull, di conseguenza, in quella di Bosie, il compagno di Oscar Wilde a cui lo scrittore indirizzò la lunga e celebre lettera pubblicata col titolo De Profundis.
Accaddero tante cose, quell’anno, che farebbero pensare a una relazione piuttosto amichevole tra i due gruppi, come se la rivalità fosse stata montata dall’esterno. Sembra che, come ringraziamento per We love you, Jagger abbia mandato agli amici dei colossali mazzi di fiori e, per suggellare ancora di piú l’amicizia – tutti, del resto in quell’estate si amavano, quindi perché avrebbero dovuto sottrarsi proprio loro all’imperativo generale? –, Mick e Marianne Faithfull seguirono i Beatles in Galles per incontrare il guru Maharishi di cui John e George, in particolare, si erano infatuati. Avrebbe dovuto essere un seminario di dieci giorni, ma com’è noto il soggiorno fu interrotto dalla tragica scomparsa di Brian Epstein.
Con tutta evidenza, rispetto ai compagni, era Mick quello che cercava un rapporto di amicizia, o addirittura di frequentazione. Keith era piú distaccato, al punto che in seguito si vantò di non essere mai andato a baciare i piedi del santone. Di sicuro, però, quello fu il momento in cui gli Stones subirono maggiormente la fascinazione degli amici-rivali. A fine anno uscí Their satanic majesties request che, a parte il diabolico ammiccamento, fu etichettato sic et simpliciter come un’imitazione beatlesiana. La copertina, guarda caso, era stata affidata a Peter Blake, con una foto di Michael Cooper (proprio lo stesso team di Sgt. Pepper) con un effetto tridimensionale che, almeno quello, era una novità assoluta. Era l’epoca in cui i musicisti rock cominciavano a essere percepiti alla stregua di principeschi eroi del nuovo mondo: belli, libertini, irriverenti, vincenti, e perciò liberi dalle catene che affliggevano i comuni mortali. In cima c’erano loro, ovvio, Beatles e Rolling Stones erano i primi inter pares, erano le «loro» maestà, piú o meno sataniche, i piú carismatici. Per qualche mese sembrò quasi che volessero condividere «in pace» questo fardello, ma fu un’impressione passeggera. Their satanic majesties request fu il piú criticato, diciamo pure massacrato, album degli Stones, e questo serví da severo monito, un altro chiaro messaggio che indicava quanto fosse sbagliato e controproducente lasciarsi intrappolare nella luminosa scia beatlesiana. Serví a ricordare agli Stones che la loro strada era un’altra, e che la vera ispirazione procedeva non dall’amicizia, ma dalla rivalità. Insomma, il duello doveva riprendere vita, e cosí accadde.
Con il 1968 le strade ripresero a divergere e l’eterna legge del dualismo si rivitalizzò. Ma una certa dose di fair play è sempre rimasta, tradita solo da alcune feroci ma fugaci stilettate, come quando Jagger espresse scetticismo sul White album. O nel furioso frammento della celebre intervista che fu pubblicata da «Playboy» il 6 dicembre del 1980, in cui Lennon, due giorni prima del suo barbaro assassinio, perde la pazienza per le velenose punzecchiature subite negli anni e per una volta, senza pudore, sputa veleno sugli Stones, li definisce ingrati e immaturi, li ridicolizza chiedendosi che senso abbia stare insieme in una band «per centododici anni» (e la cosa buffa è che lo dice nel 1980 quando la carriera degli Stones, vista col senno di poi, era appena agli albori), rivendicando la normalità per i Beatles di essersi sciolti cosí presto, perché è quello che fanno le persone quando crescono. Non vuole esser scocciato e dice: prendetevela con i Rolling Wings, mescolando la vecchia rivalità con gli Stones con quella piú recente nei confronti del «nuovo» gruppo di Paul McCartney. Ma perfino Lennon si arrende al gioco delle parti e parla delle due band come fossero un duopolio naturale, una sorta di archetipo della duplicità. Il che aumenta di molto la sensazione che, nel profondo, Beatles e Stones fossero consapevoli della dinamica che li legava, e in certi casi la sfruttassero abilmente, anche solo per chiarire e rafforzare il proprio percorso. Lennon se non altro la dà per scontata, come un dato ineliminabile. Ma a parte questo sfogo e altre piccole scaramucce, di veri e propri scontri diretti non si ha notizia.
Si favoleggia sui retroscena di un concerto organizzato in occasione di una premiazione del giornale «NME» nella primavera del 1966, con bizze di Lennon e trattative tra Oldham e Brian Epstein su chi dovesse suonare prima, ma l’episodio è stato di sicuro enfatizzato a dismisura, considerato che chiunque abbia la seppur minima dimestichezza con le cose di spettacolo sa bene che certe discussioni fanno parte della routine, e non possono essere considerate veri e propri casus belli. Dunque la giuria è invitata a non tenerne conto.
Per assurdo che possa sembrare, Beatles e Rolling Stones hanno addirittura condiviso un manager, ovvero una delle figure piú controverse della storia del rock, il famigerato Allen Klein, gigante e filibustiere del music business, non privo di un certo banditesco genio, che riuscí a entrare di prepotenza nella storia dei due gruppi. Inizialmente fece da manager agli Stones, strappando per loro le migliori condizioni, per poi raggirarli sulla proprietà dei brani. Fu Jagger, prima di capire con chi aveva a che fare (o forse per dispetto, dopo averlo capito fin troppo bene…), a consigliarlo ai Beatles, che con la scomparsa di Epstein si erano ritrovati senza manager e per qualche mese avevano tentato di andare avanti cercando di non sostituire la figura del loro caro e fidato protettore.
Difficile capire se l’indicazione di Jagger sia stata una sorta di polpetta avvelenata servita sul piatto del fair play, ma di certo l’arrivo di Klein – e ammettiamo pure che sia stata una assoluta casualità – coincise col veloce tracollo dell’unità dei Beatles e col conseguente, brutale scioglimento. Messa cosí ci starebbe una teoria del complotto di prim’ordine, e meriterebbe un processo incentrato sulle reali cause dello scioglimento, ma anche senza arrivare a tanto diciamo che le traiettorie del destino, quelle sí, ci sono e non sono trascurabili.
Tutto cominciò perché nel 1969 la situazione economica dei Beatles era piuttosto disastrosa, complicata, sebbene sulla carta fossero la piú copiosa miniera di denaro dell’intero universo dello spettacolo, e pensarono che l’uomo giusto per salvare la situazione fosse proprio Allen Klein. Ne furono attratti da subito, a eccezione di Paul McCartney, che invece voleva Lee Eastman; come sappiamo fu proprio questa divergenza a risultare devastante, catastrofica, in pratica fu l’inizio della fine. Gli altri tre non gradirono che Paul avesse proposto il suocero, il padre della sua sposina Linda, sospettavano favoritismi e parzialità, e finí malissimo. Col tempo, poi, anche John, Ringo e George dovettero ricredersi sul suo conto, ma all’inizio Klein, come suo solito, lavorò molto bene, soprattutto nel negoziato con la Emi e nella sistemazione di quella follia che era diventata la Apple, gestita direttamente dai quattro Beatles, con numerose sotto-società, personaggi bizzarri e inconcludenti come Magic Alex, il piú assurdo di tutti, per non dire delle boutique Apple nate dal presupposto che dovessero essere dei negozi nei quali il fine non fosse per forza quello del guadagno.
Klein era una sorta di serpente incantatore, abilissimo, davvero appassionato di musica, conoscitore profondo delle cose della vita, e perfettamente in grado di stuzzicare la fantasia degli artisti; con John arrivò perfino a lodare l’operato artistico di Yōko Ono, sapendo bene che ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Beatles e Rolling Stones
  4. Antefatto
  5. Capitolo primo. The Royal Battle. Affinità e divergenze tra il compagno Apollo e l’irriverente Dioniso
  6. Capitolo secondo. I fatti
  7. Capitolo terzo. Blues
  8. Capitolo quarto. Meglio in studio o dal vivo?
  9. Capitolo quinto. I duellanti (elogio della rivalità)
  10. Capitolo sesto. «Everybody must get stoned»
  11. Capitolo settimo. Le donne
  12. Capitolo ottavo. L’amicizia
  13. Capitolo nono. Ribelli o rivoluzionari?
  14. Epilogo
  15. Appendice. Incontri ravvicinati
  16. Ringraziamenti
  17. Nota al testo
  18. Il libro
  19. L’autore
  20. Dello stesso autore
  21. Copyright