Contro Pinocchio
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Contro Pinocchio

  1. 152 pagine
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Contro Pinocchio

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Con la furia dell'invettiva e la tenerezza del racconto autobiografico, Aurelio Picca si scaglia contro il burattino piú famoso della letteratura italiana. E scrive un libro intemperante, che raccoglie l'innocenza infranta di ogni giovinezza e la accompagna senza esitazioni verso il futuro.«Eppure amavo la legna, i pezzi di legno, i bastoni. Adoravo martello e chiodi. Ci volevo fare croci e spade. Epperò Pinocchio non mi ha mai chiamato. Lo leggo solo ora; e l'unica cosa che mi piace sta scritta alla fine della prima versione di Collodi ( Pinocchio che resta un pezzo di legno; che non è sgravato nel futuro con la carne e il sangue dei bambini, dunque degli umani). Godo quando lui s'impicca. Un burattino che si impicca. Dovrebbe fare ridere. E farsi mandare affanculo. Invece la catramosa metafisica (ho sentito nei reticolati dei capillari) si squarcia nelle parole: Oh babbo mio! Se tu fossi qui! Ecco allora che l'impiccagione sembra una crocifissione».«Aurelio Picca è uno scrittore irregolare, diverso dagli altri in modo decisivo. Uno scrittore estremo». Raffaele La Capria Nessuno scrittore è come Aurelio Picca. Nessuno scrive con tanta ferocia e tanto candore, con tanta vocazione allo spreco di sé e insieme con una fedeltà quasi classica alle parole. Ricordando l'Aurelietto che aveva «visto gli ultimi invalidi di guerra con gli arti di legno e le stampelle di legno (altro che Pinocchio )», in questo libro Picca si domanda perché abbia disdegnato fin dall'infanzia il personaggio del burattino, e spiega perché, oggi che finalmente ha letto la favola di Collodi, preferirebbe strapparla: Pinocchio non ha carne, mai diventerà adulto, mai attraverserà la vita con le sue vittorie e sconfitte. Bisognerebbe ritornare a leggere Cuore e I ragazzi della via Pàl. Il capolavoro di De Amicis può riportarci al senso di comunità, non è servo del nuovo capitalismo che isola gli individui, ma vi si trovano le antiche differenze sociali, e questo prepara a crescere. I ragazzi della via Pàl è una storia eroica di amicizia. È il sogno puro degli adolescenti che ancora hanno il loro mondo, che del mondo non sono ostaggio. Memoir, pamphlet, in definitiva romanzo, Contro Pinocchio parte dalla letteratura per arrivare alla vita, e viceversa, perché per il suo autore fra letteratura e vita non c'è distinzione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858438985

La patria dei cadaveri di legno

Pinocchio

Anzi, la ghigliottina

Non sono cattivo. Bimbo bimbo ero sbattuto contro il muro da una dolce forza selvaggia e sensuale. La parola malizia non era contemplata neanche in un pesciolino di liquirizia da una lira. Non so perché è accaduto.
Ad esempio: ieri sera ho provato cinque minuti di felicità. Inaspettatamente ho incontrato dopo decenni un compagno delle elementari, Gualtiero. Lui era silenzioso ma incontrollabile; io ero ingenuo però pronto a combinarle di tutti i colori. Gualtiero si è ricordato che in prima portò le carte a scuola e mi convinse a giocare all’ultimo banco. La Signorina maestra ci sorprese e sospese parlandone con le mamme il pomeriggio stesso. Per la gioia di rivedere il mio compagno non stavo fermo, saltellavo come un grillo. Stamattina ho pensato che la mia esistenza è stata solo interiore, anche se sono stato sbattuto in mezzo alla strada, con un filo legato a una innocente e vitalissima infanzia. Quindi non riesco a capire perché è successo. Forse c’è un motivo altrettanto oscuro (rispetto alla Storia) che mi ha impedito di leggerlo. Eppure amavo la legna, i pezzi di legno, i bastoni. Adoravo martello e chiodi. Ci volevo fare croci e spade. Epperò Pinocchio non mi ha mai chiamato. Lo leggo solo ora; e l’unica cosa che mi piace sta scritta alla fine della prima versione di Collodi (quella in cui Pinocchio resta un pezzo di legno; che non è sgravato nel futuro con la carne e il sangue dei bambini e dunque degli umani). Godo quando lui s’impicca. Un burattino che si impicca. Dovrebbe far ridere. E farsi mandare affanculo. Invece la catramosa metafisica (l’ho sentita nei reticolati dei capillari) si squarcia nelle parole: «Oh babbo mio! Se tu fossi qui!» Ecco allora che l’impiccagione sembra una crocifissione.
«C’era una volta un pezzo di legno, – riattacca dopo cinque righe Pinocchio. – Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per riscaldare le stanze». Un legno quindi che non ha nome, né ci è dato saperlo, e che però maestro Ciliegia, dopo aver visto che era impossibile trattarlo con la pialla e l’ascia, lo regala a quel povero onanista di Geppetto che in seguito lo chiamerà come tutto il mondo sa. Ora io non pretendevo che il legno fosse di larice come una bimba bionda; né di castagno trattato a cera come una neonata etiope; né di rovere come le gote di un fanciullo di montagna. No, non pretendevo fosse di lusso. Pretendo invece che alle scuole elementari la maestra (bisognerebbe tornare ad averne una) insegni agli scolari la differenza tra un albero e un altro. Tra un legno e l’altro.
Forse il racconto di questo burattino non l’ho mai preso in considerazione perché mia nonna una volta sola, di notte, quando avevo meno di due anni, con il nonno che dormiva con un petto sterminato di boscaglia e un respiro da animale antico, prese a raccontarmi una storia inventata all’istante, nel tentativo di farmi dormire. Era lunghissima, tale e quale a una processione che si inerpicava su per colline e montagne in un buio denso, carnoso, spiccicato al corpo e al rantolare del nonno. Da giovane lettore, in seguito, compresi che quella favola orale aveva il sapore, l’armonia e il terrore dei riti iniziatici del passato remoto dell’umanità. Riti selvaggi ai quali venivano sottoposti i fanciulli affinché sbucassero, dopo le prove del fuoco e delle belve, nella stagione dell’adultità come suggella l’antropologo Propp nella Morfologia della fiaba. Insomma, nessun pretesto per amare un pezzo di legno. Da subito era destino che avessi bisogno della natura, del-
la velocità del sangue, del battito cardiaco accelerato, della paura, del coraggio, dell’abbandono, della tristezza. Della realtà. Come quando certi compagni di giochi piú grandi mi suggerirono di rubare (non conoscevo ancora il valore della parola) nel magazzino del nonno le stecche di legno per farci le spade. A me giurarono e spergiurarono di costruirmene una bellissima «col binocolo», che ancora non sapevo tradurre con: te la faremo col cazzo! Infatti scapparono con le loro lasciando me rannicchiato di fronte alla serranda del magazzino. Accadde un po’ come fecero i fratelli Pásztor ai giardini del museo nell’adorato romanzo I ragazzi della via Paal.
I piú piccoli, con a capo il mio fratellino innocente Ernesto Nemecsek, stavano giocando con le biglie di vetro. In terra ce ne erano trenta, piú due colorate. Le aveva vinte il biondino. Arrivarono i due bruti Pásztor e dissero Einstand, cioè «preda», «razzia». I Pásztor difatti, forti della superiorità fisica, si misero le palline in tasca alla pari di un bottino di guerra.
Invece per la mia spada arrivò un ragazzo «barbaro», un tipo alla Garrone di Cuore; piú neorealista; un povero vero che per cercare di consolarmi e farmi felice, a mani nude, riconquistò le spade dei traditori accatastandole ai miei piedi. Ma ormai non sapevo cosa farci. Non potevo giocare con nessuno.
Oppure quando andavo dall’arrotino Vittorio, verso i quattro anni, incantato da un martelletto che costava quattrocento lire. Imploravo Vittorio di vendermelo, il martelletto, anche se non avevo una lira in tasca. Lui non faceva una mossa. Restava col capo chino sulla mola che ruotava tenendoci poggiate le lame dei coltelli e delle forbici che si andavano affilando. Col mento che faceva tutt’uno con la gola, mi diceva: «Che ci devi fare? Ti fai male. Vai a casa». E io a cercare di sostenere la sua immobilità da padre Pio arrotino. «Ci batto i chiodi sul legno. Ci infilo i chiodi», gli ripetevo illudendomi che capisse. E mentre stavo là, incantato al cospetto del martello con il manico di faggio, avevo l’acquolina in bocca al pensiero di battere i chiodi sul legno. Era il mio sogno.

Quindi

Alle scuole elementari bisogna che ci sia una sola maestra. I ragazzini devono disegnare molto. Già sappiamo che per lo piú tracciano figure come i primitivi che graffiavano la pietra delle caverne. Tutto questo aumenterà un tasso di realtà che sono certissimo si riprodurrà nell’arte a venire con un crollo del concettuale a vantaggio del vecchio e nuovo figurativo. L’alfabeto sarà la nuova Tavola pitagorica. Ogni lettera diventerà una nota musicale che andrà a comporre una parola e poi un’altra e un’altra ancora. I bambini dovranno lavorare con le mani. Bisognerà procurargli martello e chiodi (pure a loro!) Devono vedere, manovrare, sentire e soppesare gli oggetti. Se quando inchioderanno un pezzo e mezzo di abete a forma di spada ci parrà cosa riprovevole giacché rimanda alla guerra, lasciamo stare, perché potrebbero sempre unire insieme due pezzi di legno per farne una croce che ricorderà invece un ragazzo che ci ha insegnato la pietà. E se pure questo ci parrà discutibile, non potrà esserlo la croce, quella dei morti e dunque la morte. Parola e significato scancellato fino a bucare il foglio della memoria nell’alfabeto dei bambini. Quella parola va assolutamente ripristinata: morte.
Parlavamo di cose pratiche. Le addizioni, sottrazioni e divisioni si possono imparare misurando con il metro di muratori e falegnami la propria stanza, l’ingresso, l’altezza di mamma e papà. E a seconda dell’anno scolastico è necessario insegnargli a riordinare la casa e, crescendo, occorre fargli vedere come si cucina, come si infila un ago e si riattacca un bottone.
Riattaccare un bottone a una camicia o a una giacca è un gesto che rimane sigillato tra le varie cure che riserviamo al corpo nel corso degli anni. E siccome non bisogna mai trattare un bambino come un bambino (perché l’angoscia piú grande dell’infanzia è quella di non essere adulti), dobbiamo rapportarci alla pari. Quindi il primo libro da strappare è Pinocchio. Le fiabe (quelle di Perrault e soci) non sono altro che la veste candida dei riti violenti che sbattevano i fanciulli sulla terra dura della realtà (lo ripeterò fino alla noia).
Anni fa ho fatto questo esperimento con una mia nipote. Le ho letto una novella di De Maupassant, dalla raccolta Racconti della beccaccia, nella quale due fratelli pescatori in alto mare si trovarono a gestire una pesca orrenda. Uno dei due resta con la mano incastrata sotto il peso della rete. Il maggiore ha due possibilità: tagliare le corde e liberare il fratello; oppure non mollare la rete gonfia di tonni. Scelse la seconda. Però la mano del disgraziato, rimasta per troppo tempo schiacciata, non poté guarire. Quindi fu tagliata e messa in salamoia come il pesce. Tornati a riva, presero l’arto amputato, lo depositarono in una piccola bara e insieme al corteo di parenti e paesani lo accompagnarono al cimitero.
Mia nipote ha voluto poi che gliela leggessi tutti i giorni. Di Biancaneve non sapeva che farsene.
Quindi, per ricapitolare a mo’ di rafforzativo: gli studenti dalla prima alla quinta elementare non devono leggere Pinocchio. I libri giusti sui quali la maestra o il maestro devono lavorare moltissimo sono: Cuore e I ragazzi della via Paal (o Pàl, o in ungherese Pál).
Chissà. Magari Pinocchio non l’ho letto perché non mi è stato regalato? Domando a me stesso: invece di comprare L’isola del tesoro (che è stato il tuo primo libro), potevi chiedere al signor cartolaio, che portava il cappello a falde come gli americani negli anni Trenta, proprio di fronte al commissariato di Polizia, il burattino toscano, l’erede delle anime dei nobili Etruschi rimaste cadaveri puzzolenti, o no? O forse non lo hai letto soltanto perché era un pezzo di legno che fingeva di essere un bambino. E tu invece il legno volevi inchiodarlo a costo di darti una martellata sulle dita? O magari perché era la recita di un teatro col fuoco finto, le pentole finte e non la strada; non era i morti visti già all’asilo, come la vecchissima nonna Margherita con il naso a becco, il fazzoletto a triangolo identico alla mitra papale o al cappello dei faraoni; piccina piccina, il contrario di Maria Goretti imbalsamata e di bianco adornata con la fascia azzurra della Madonna e i capelli giallastri identici alla stoppa utilizzata nel tempo che fu dagli idraulici; oppure perché non riguardava il lavoro al quale ti avevano costretto dai nove anni in poi. Cose che appartengono al mondo antico (come lo chiamo io) e non stanno dentro i giochi della Fatina, di un non padre che è Geppetto. Un mondo antico che i ragazzi e gli adolescenti del futuro dovrebbero rivivere. Perché in realtà la brutalità del mondo antico produceva sogni e visioni. Quelle che poi vedremo avrà Ernesto Nemecsek. Egli stesso una visione.
La verità è che Aurelietto è stato uno sciuscià; il bambino figlio di uno dei Ladri di biciclette (il mio patrigno gli rassomigliava); è stato barista, piastrellista, macellaio, contadino, manovale, apprendista gemmologo, apprendista usuraio, apprendista venditore di gioielli, verduraio. Aurelietto è stato amico del grande falegname Scaramucci di Spoleto; di Angelino il Padreterno, grande restauratore, con il fratello Alvaro che vendeva i migliori baccalà della città. Aurelietto ha visto gli ultimi invalidi di guerra con gli arti e le stampelle di legno (altro che Pinocchio); ha visto i reduci garibaldini con la camicia rossa che cantavano nella notte tra le torce conficcate nelle crepe della antichissima casa del nonno: repubblicano e mazziniano.
Aurelietto cucinava da sé a dieci anni, riordinava la casa abbandonata, cantava nel coro da voce bianca, conosceva alla perfezione la Storia e la Geografia. Tutto ciò che deve essere insegnato in classe (a parte l’apprendistato da usuraio) e fuori dalla classe. Meglio sarebbe se la scuola del domani portasse i ragazzi a bottega (se mai gli artigiani sopravviveranno alla seconda e diabolica globalizzazione). Sarà stato per questo che Pinocchio l’ho letto solo adesso? Perché allora ritrovai me stesso non lí ma in Cuore e ne I ragazzi della via Paal? Ma sviolinando non voglio demolire il burattino. Voglio affermare rivoluzionariamente (se mai è ancora possibile usare questo avverbio che deriva dal sostantivo «rivoluzione») che Le avventure di Pinocchio: storia di un burattino non serve nella vita per lottare. Ha altre qualità. Ad esempio, quella di essere una preziosissima bara carbonizzata.
Aurelietto ha visto i morti distesi sul letto in casa; a lui non è stata sottratta la morte come si usa fare adesso. E la morte l’ha sentita che nemmeno aveva compiuto due anni; e gli si è timbrata sul corpo quando gli annunciarono a nove (nella terza infanzia) la morte del patrigno, il secondo marito di sua madre. Però la morte che le riassume tutte arriva adesso.

Lo sputo

Quando morí mio nonno fu l’uragano. Perché era stato lui l’uragano.
Se ne andò tre giorni prima di Pasqua. In maggio avrebbe compiuto sessantanove anni.
Ero a letto con la febbre. La notizia me la diede zio Franco, che prima sentii confabulare con la mamma, e poi vidi agitato ai piedi del letto.
Mio nonno era morto davvero.
Ora è disteso sul lato destro del materasso. Nella zona in ombra.
Sono sulla soglia della camera. Ancora non riesco a entrare. Noto che il suo corpo è pesante. Ma non sprofonda. È bello come una scultura di carne.
Adesso vedo che è gonfio sotto il collo. Non è piú lui. Mi viene in mente quando si piegava per saltare, e si arrampicava sul muro come fosse per sempre giovane.
La morte è facile da vincere quando si sanno fare le capriole e si hanno gli occhi neri e il pelo nero sul petto.
Mio nonno ha una striscia viola che sale dietro l’orecchio, come un serpentello che si nasconde e subito fugge dalla guancia.
È immobile. Bloccato a sé. Ha raggiunto una concentrazione che fa roteare l’universo circostante.
È poco piú dell’alba. La luce nella stanza è la luce della campagna saporita.
Mio nonno è chiuso nella orribile bellezza della morte. Ma l’armonia che lo circonda è musica. Sorge e si distende con sottile e gorgogliante vitalità. È cosa buona come una zuppa di verdure, uova e olio.
Nessuno parla. Mia nonna, Annunziata (serva e seconda nonna che mi portava con sé per i santuari) e zio Romano sono affaccendati in gesti furtivi e senza scopo. Si incrociano e si allontanano.
Lo zio si avvicina al padre. Ha il viso di calce bianca. Gli resterà cosí...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Contro Pinocchio
  4. La patria dei cadaveri di legno. Pinocchio
  5. La Patria Giovane. Cuore
  6. La Visione. I ragazzi della via Paal
  7. Ringraziamenti
  8. Nota al testo
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright