C’è una pagina di Machiavelli che non sarà inutile aver presente fin dall’inizio di queste considerazioni. È quella, famosa, che si legge nel capitolo XII del libro I dei Discorsi:
E perché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono, e ne allegherò due potentissime ragioni le quali secondo me non hanno repugnanzia. La prima è che per gli esempli rei di quella corte questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione; il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini: perché cosí come dove è religione si presuppone ogni bene, cosí dove quella manca si presuppone il contrario. Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo: di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa1.
Si tratta di una pagina che, per quel che dice, per il momento in cui venne scritta e poi, a distanza di anni, stampata, per le vicende della sua fortuna, si presta piú di ogni altra a rappresentare in maniera sintetica e quasi emblematica alcuni dei problemi su cui dovremo soffermarci. Intanto, nell’affermare che i popoli «piú propinqui alla Chiesa romana» hanno «meno religione», Machiavelli ribaltava una convinzione antica, che aveva ispirato tra l’altro una annotazione del suo concittadino Giovanni Rucellai:
… Debbo ringraziarlo [Dio] che m’à facto nascere in luogo dove è la vera fede, cioè nel Cristianesimo, e ppuosi dire nel mezzo della fede, cioè vicino a Roma, dov’è la residenzia del nostro sanctissimo signore papa e de’ suoi honorevoli fratelli cardinali, che rapresentano Cristo cogli apostoli… Appresso lo ringrazio che m’à facto nascere nella parte d’Italia la quale è la piú degna e piú nobile parte di tutto il Cristianismo2.
Tra la data dell’annotazione del Rucellai (1464) e gli anni in cui Machiavelli scrisse i Discorsi i termini e le nozioni di Roma e Chiesa, papato e religione si erano andati divaricando nelle coscienze, fino a risultare contrapposti. Ma il passo di Machiavelli non si limitava a registrare questo, né lo faceva nello stesso modo del suo concittadino Bartolomeo Cerretani, secondo il quale era, la Chiesa, «non le mura di Roma, o di santo Pietro, o di santo Pagolo, né questo o quello, ma il gruppo de’ buon christiani»3. Si può rilevare, anzi, che di Chiesa si parla nel testo di Machiavelli intendendo la corte di Roma come titolare di un «imperio temporale». È un uso certo non originale, ma diffuso in quegli anni, che tende a isolare nella Chiesa contemporanea la funzione del potere politico. Alla corte romana Machiavelli tuttavia legava le sue speranze di ottenere incarichi adeguati a chi, come lui, aveva nello Stato l’unica sfera di competenza: eppure era proprio quella corte, con i suoi «esempli rei», che aveva compromesso la naturale forza di coesione politica della religione, indebolendo in radice ogni progetto di costruzione statale.
Al suo, si può accostare il caso di Francesco Guicciardini, che consegnava ai suoi Ricordi amare invettive contro i «maladetti preti», ma era costretto a cercare al loro servizio l’occasione per esercitare ambizioni e attitudini di governo politico, dopo avere meditato in gioventú una possibile scalata al cardinalato. Erano situazioni non insolite né isolate nell’Italia di allora. Come ha mostrato Dionisotti, altri uomini di cultura si trovarono a vivere in quegli anni la lacerazione della scelta tra un ambiente cortigiano o cittadino d’origine, squassato dalle guerre e in rapida decadenza, e il richiamo della grande corte romana, a cui era connessa l’implicita opzione per lo stato ecclesiastico. I principi italiani avevano assaggiato «i colpi delle oltramontane guerre», come scriveva ancora Machiavelli nell’Arte della guerra, e si erano resi conto che non bastava «sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera». Insieme con la solidità degli Stati italiani, era svanita la vitalità culturale e la forza di attrazione delle corti sui letterati in cerca di buone sistemazioni. Restava Roma e la curia papale. Il caso di Baldassar Castiglione, passato dalla piccola corte di Urbino, idoleggiata nel Cortegiano, ai maneggi europei della diplomazia papale e dalle vesti del cortigiano a quelle dell’ecclesiastico, rimane emblematico. Ma, nella varia realtà politica degli Stati italiani del primo Cinquecento, non c’è dubbio che a Firenze questa lacerazione fu vissuta con alcune connotazioni specifiche. Il problema dello Stato passava qui attraverso la famiglia che, insediatasi al vertice della Chiesa, si serviva del pontificato per rinsaldare la sua egemonia su Firenze. Questa situazione non fu estranea alla capacità che storici e politici fiorentini mostrarono di individuare il volto violento del potere statale dietro le strutture ecclesiastiche e le ideologie religiose. «Non si può tenere stati secondo conscienza – scriveva Guicciardini – perché… tutti sono violenti… e da questa regola non eccettuo lo imperadore e manco e’ preti, la violenza de’ quali è doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirituale»4.
L’atto di accusa di Machiavelli contro la Chiesa e i preti è, come si è visto, duplice. Trascuriamo qui quello relativo alla mancata unificazione politica della penisola, di cui altrove già si è parlato5. L’altra accusa – l’essere cioè diventati gli italiani «sanza religione e cattivi» per colpa della Chiesa – situandosi nel punto d’incontro tra la forte tradizione anticlericale della cultura italiana e l’ondata crescente dei lamenti di predicatori e riformatori religiosi, ha avuto uno straordinario successo. Da quando un oscuro umanista abruzzese, Giovanni Angelo Odoni, la segnalò con appassionata adesione a Erasmo da Rotterdam, non ha piú cessato di affacciarsi dovunque fosse questione della religiosità degli italiani. Cosí, quando si sono cercate nella mancata Riforma (protestante) in Italia le cause lontane delle insufficienze dello Stato unitario, si è ricorsi senza esitazione alle ragioni indicate da Machiavelli: la presenza della Chiesa come Stato italiano, oltre che come centro spirituale, lo scetticismo e l’irreligiosità seminati dagli abusi degli ecclesiastici e dall’eccessiva prossimità al governo centrale della Chiesa. D’altra parte, la stessa capacità di distacco intellettuale dal fenomeno religioso manifestata da Machiavelli, nel quadro generale dell’alto livello raggiunto allora dalla cultura italiana, ha posto un problema che possiamo formulare con le parole di Burckhardt: «Perché dunque l’Italia tanto progredita nella cultura non reagí con maggior vigore contro la gerarchia, perché non effettuò essa una Riforma simile alla tedesca, e prima di questa?»6. Su questa strada è nato anche il problema degli intellettuali come gruppo sociale e dei loro rapporti col popolo-nazione. A una Chiesa che si fa tutta italiana e tutta temporale corrisponde il movimento inverso degli intellettuali che abbandonano la condizione laica per quella ecclesiastica e assumono linguaggio e mentalità di tipo cosmopolita, adeguati a un centro religioso d’importanza mondiale, rescindendo i legami con le realtà sociali e politiche d’origine.
Queste, in rapida e sommaria sintesi, sono le rappresentazioni dominanti dei rapporti intercorsi all’inizio dell’età moderna tra intellettuali e Chiesa in Italia. Talvolta possono variare i presupposti generali o il punto di vista di chi le fa proprie, ma anche allora non è difficile riconoscerle. Cosí, quando c’è chi sottolinea – come faceva Ludwig von Pastor – la fedeltà delle masse illetterate alla religione degli avi, la loro lontananza dai comportamenti e dalle idee eterodosse delle minoranze colte, ci si imbatte sempre nel giudizio di una frattura tra intellettuali e popolo; lo stesso avviene quando si esalta la modernità dei metodi con cui ordini come quello dei gesuiti seppero colmare quella frattura. Ma, nonostante la lunga permanenza e la ricorrente attualità di queste rappresentazioni, esse non sono a tutt’oggi sorrette da un’indagine storica adeguata. Si sa ancora poco della Chiesa in quell’epoca cruciale, della natura, distribuzione ed estensione del potere al suo interno, sia per quanto concerne il «capo» romano, sia per ciò che riguarda le «membra» italiane: le modificazioni profonde verificatesi all’inizio dell’età moderna sia negli organismi di governo centrale della Chiesa, sia nel funzionamento e nella vita quotidiana delle strutture diocesane e parrocchiali restano ancora per buona parte da studiare. Né, per gli intellettuali italiani, si è andati molto al di là – ove si eccettuino le ricerche di Dionisotti, di Burke e di pochi altri – di quel modo di procedere che tende a isolare gli alberi ignorando la foresta. Si procederà dunque per sondaggi su alcuni problemi: come intesero il potere della Chiesa quegli uomini di lettere che furono anche, spesso, titolari di (o aspiranti a) un beneficio ecclesiastico; come, dopo la crisi del primo Cinquecento, si vennero ponendo le basi di una cultura cattolica ben organizzata e aggressiva, destinata a caratterizzare e condizionare (per le strutture che si dette) il rapporto tra intellettuali e Chiesa in Italia quasi fino ai nostri giorni.
Piú che di intellettuali, tuttavia, si preferirà parlare di letterati: non tanto per la distinzione ancora forte in Italia nel Cinquecento tra letteratura e altre attività culturali e artistiche sul cui statuto di nobiltà intellettuale si discuteva molto, quanto perché si vuol concentrare l’attenzione sui rapporti tra la Chiesa da un lato e, dall’altro, i letterati e i semplici. È appena necessario ricordare che per lungo tempo le funzioni di intellettuale e il possesso della cultura furono compresi come indicazione secondaria in un termine – clericus – che designava in primo luogo l’appartenenza alla gerarchia ecclesiastica. La conoscenza delle litterae latine e l’accesso gelosamente tutelato ai misteri della teologia e alle tecniche del diritto canonico definivano una cultura a cui corrispondevano precisi poteri istituzionali e un adeguato status sociale. Si trattò di una situazione di monopolio non certo pacifico né indiscusso. Ma solo tra Quattro e Cinquecento, con la diffusione della stampa da un lato e la Riforma protestante dall’altro, si crearono condizioni eccezionali, tali da mettere radicalmente in crisi l’assetto tradizionale. Proprio mentre il libro a stampa si faceva veicolo di una rivoluzione silenziosa nell’organizzazione e nella distribuzione del sapere, oltre che nei suoi stessi caratteri costitutivi, l’interpretazione del libro sacro si veniva a trovare al centro – per la prima volta nella storia dell’Europa cristiana – di contrasti insanabili, tali da mettere in crisi la struttura ecclesiastica nei suoi stessi fondamenti. In queste condizioni, l’accesso alla parola scritta divenne nello stesso tempo piú agevole e piú importante. Intorno al libro si formarono un mercato e una struttura produttiva. Scrivere libri divenne un’attività redditizia, risultato di una carriera con scadenze e norme proprie, non piú solo prodotto di ozi garantiti da altri redditi. Fra le attività intellettuali venne dunque emergendo in questa età quella di chi aveva rapporti professionali con la parola scritta. Tra il potere di chi faceva i libri e il potere della Chiesa non potevano mancare zone d’intersezione e di contrasto. La Chiesa era allora, nella situazione italiana, il piú grosso centro di potere in grado di attrarre i letterati e tradizionalmente portato a farlo: ma tra i poteri piú gelosamente custoditi dalla Chiesa c’era quello dell’interpretazione dei libri sacri, con tutte le conseguenze che ne discendevano. La frattura visibile dell’unità della Chiesa, la presenza per la prima volta di piú verità tra cui scegliere, erano dati che scuotevano le basi stesse del corpo cristiano, portando i dubbi e le divisioni tra i semplici, gli illetterati. Riprendere il controllo dei semplici fu possibile, ma a patto di un rigido controllo sugli intellettuali, volto ad arginare gli effetti congiunti della diffusione della stampa e della nascita di quella che è stata giustamente definita una «religione del libro» (cioè la Riforma protestante). L’impegno e gli sforzi investiti nell’impresa furono grandissimi; il loro risultato è misurabile non solo in termini istituzionali e quantitativi – le istituzioni di controllo, i casi di repressione – ma anche nella qualità dell’elaborazione culturale e dei mo...