Dostoevskij
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Dostoevskij

Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Dostoevskij

Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa

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I saggi qui raccolti propongono una lettura articolata e dialogante del grande russo non solo come approfondimento di inedite prospettive su temi ampiamente dibattuti dalla critica, ma soprattutto come interpretazione unitaria del suo pensiero. L'intero ragionare di Pareyson si fonda su tre momenti legati a diversi ordini d'esperienza: del bene e del male, della libertà e di Dio. Ma esperienza primissima è qui anche quella della lettura dei libri di Dostoevskij, «occasioni» per l'avvio di una meditazione che trascende il semplice commento al testo per divenire interpretazione dell'esperienza religiosa in quegli aspetti di universalità capaci di suscitare l'interesse e la partecipazione di ogni uomo, tema, questo, centrale nell'ultimo Pareyson. In questo senso, "Pareyson su Dostoevskij" era un libro necessario molto prima di essere scritto.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858438619
PARTE PRIMA

Primo sguardo

Capitolo primo

Romanzo e filosofia

1. Biografia e pensiero.

La vita di Dostoevskij, cosí ricca di circostanze romanzesche e impreviste, sembra particolarmente adatta a spiegare il suo pensiero, cosí fortemente originale e cosí personalmente condizionato. Senza qui addentrarci in uno studio biografico, noteremo solo che in essa c’è forse la chiave per interpretare due temi ossessivi della sua produzione artistica: il tema del parricidio, intorno al quale gira tutto intero il suo capolavoro, I fratelli Karamazov, e il tema dello stupro della donna che si trova a essere indifesa, o per esser bambina, come nel caso della fanciulla violentata da Stavrogin nella celebre appendice dei Demonî, o giovinetta, come nel caso di Nastas´ja Filippovna nell’Idiota, o per essere mentecatta, come Lizaveta Smerdjaščaja nei Fratelli Karamazov. Questi due temi artistici hanno il loro fondamento in due tra i fatti piú importanti della vita di Dostoevskij.
Anzitutto il tema del parricidio si ricollega col fatto che Dostoevskij desiderò la morte del padre e se ne sentí colpevole, con conseguenze che furono oggetto d’uno studio, diventato classico, di Freud. Il padre di Dostoevskij era un uomo violento e brutale, «sentimentale e crudele insieme», che picchiava la moglie e che si dedicò all’ubriachezza dopo la morte di lei, che infieriva sui suoi servi e contadini, al punto di esserne chiamato «bestia feroce» e odiato senza remissione. Dostoevskij, che a sedici anni era rimasto orfano della madre, morta tisica, a diciotto anni perse anche il padre, trovato barbaramente ucciso e atrocemente straziato in una strada di campagna. La morte violenta del padre dovette determinare in Dostoevskij, che l’aveva desiderata, un profondo e inconsapevole rimorso, se è vero che, due mesi dopo, alla sola vista d’un funerale egli ebbe una forte crisi epilettica. È l’esperienza vissuta d’un delitto non commesso eppure espiato, che diventerà il tema centrale dei Fratelli Karamazov, ove gli stessi titoli dei capitoli introducono il padre, «vecchio buffone», in questa prospettiva: «Ma che vive a fare un uomo simile?» Del resto Dostoevskij ebbe occasione di scrivere: «I grandi epilettici sono inclini a una morbosa e costante autoaccusa: sono torturati dalla loro colpevolezza, dai loro rimorsi spesso senza ragione. Esagerano e persino inventano a se stessi obblighi e delitti».
In secondo luogo, il tema dello stupro ha certamente uno spunto nella vita di Dostoevskij. Non che egli abbia realmente vissuto l’orribile esperienza di Stavrogin, come alcuni biografi e interpreti hanno sostenuto, sulla base di malevole insinuazioni del suo ex amico Strachov; ma certamente nella natura degli amori di Dostoevskij c’era qualcosa di indiscreto e di possessivo, di oppressivo e di violento, che ne faceva quasi una sopraffazione, una violazione, un sopruso. Forse non è senza significato il fatto che la prima notte di matrimonio con Marija Dmitrievna finisce con una crisa epilettica: la sposa, da lui profondamente amata, non lo riamava, come dimostrò il seguito del loro matrimonio, ed egli non poté evidentemente realizzare totalmente la natura possessiva del suo amore. Le alterne e burrascose vicende della relazione con Apollinarija Suslova, la Polina del Giocatore, sono ancor piú significative. La Suslova si sente offesa da Dostoevskij: «Il mio amore era bello, era splendido», essa scrive, ma altrove dichiara, parlando di lui: «Mi metto a odiarlo, se penso a quella che ero: è lui il primo che ha ucciso in me la fede». Da che cosa può essere stata offesa questa donna fiera e indipendente, spregiudicata e nichilista, sostenitrice della libera unione, e che fu realmente il piú grande amore di Dostoevskij? È verisimile pensare che Polina sentí la natura violenta e indiscreta dell’amore di Dostoevskij, e la visse come una profanazione, un’umiliazione, una violenza. Si può forse dire che in quest’amore Dostoevskij trovò non Polina, ma se stesso, e nell’amore di lui Polina trovò non una dedizione, ma un’affermazione, non un abbandono ma un attentato, non la devozione ma l’oltraggio. Ed è significativo che il protagonista delle Memorie del sottosuolo dichiari: «Amare per me significa tiranneggiare e dominare moralmente. Durante tutta la mia vita non sono riuscito a rappresentarmi un altro amore, anzi qualche volta sono arrivato al punto di pensare che l’amore non consista in altro che nel diritto, liberamente accordato dall’essere amato a colui che ama, di tiranneggiarlo. Nelle mie fantasticherie di sottosuolo io non mi immaginavo l’amore che come una lotta: lo cominciavo sempre con l’odio e lo finivo con l’assoggettamento morale».
Ma se le circostanze della vita servono a spiegare o per lo meno a illuminare due dei temi piú importanti dell’arte e del pensiero di Dostoevskij, invano cercheremo nella sua biografia la spiegazione della grande svolta del suo itinerario artistico e spirituale. Uno dei maggiori interpreti del pensiero di Dostoevskij, Lev Šestov1, ha giustamente insistito sul problema che nel lettore non può non suscitare il fatto che la produzione di Dostoevskij è nettamente divisa in due periodi, separati da una crisi cosí vistosa da indurre a parlare non solo di mutamento e trasformazione, ma addirittura di rigenerazione e rinascita. Il primo periodo, che comprende, fra le opere principali, Povera gente, Ricordi dalla casa dei morti, Umiliati e offesi, è ispirato a una visione laica ed «europeistica» della vita, formata di umanitarismo filantropico, di socialismo utopistico e di generico ottimismo nella fratellanza umana; il secondo periodo comincia con le Memorie del sottosuolo del 1864, e comprende i grandi romanzi, Delitto e castigo, L’idiota, I demonî, L’adolescente, I fratelli Karamazov, ed è ispirato a una concezione tragica della vita, che unisce in una robusta sintesi una religiosità profonda, un vivo senso della terra, una vigorosa consapevolezza della realtà del male e della forza redentrice del dolore, e la convinzione che l’uomo realizza appieno le proprie possibilità soltanto se non vuole sostituirsi a Dio, ma ne riconosce la trascendenza. La concezione del secondo periodo trova forse un primo e precoce spunto nel Sosia, che appartiene cronologicamente al primo periodo, cosí come nel secondo periodo si può forse ravvisare una rievocazione del primo nel lungo racconto La mite; ma in sostanza i due periodi sono divisi in modo assai netto e preciso.
Si può esser tentati di trovare la spiegazione della svolta in una delle circostanze piú importanti e drammatiche della vita di Dostoevskij, cioè nella tragica esperienza della sua condanna e nella dolorosa odissea della sua deportazione. Certamente queste circostanze ebbero un’influenza decisiva sull’arte e sul pensiero di Dostoevskij: i tragici minuti passati nell’attesa della fucilazione, condonata, con una macabra messa in scena voluta dallo zar, all’ultimo momento, gl’insegnarono a «vedere la vita dal lato della morte», come giustamente afferma Thurneysen2, l’acuto interprete barthiano di Dostoevskij; e l’esperienza del bagno penale gl’insegnò a saper vedere non piú soltanto, come nel filantropismo socialisteggiante, «un fratello anche nell’uomo piú privo d’importanza», ma soprattutto «un infelice nel criminale»: insomma, l’esperienza della condanna e della prigionia gl’insegnò il carattere rivelativo della morte, del dolore, del delitto. Ma la storia stessa s’incarica di smentire l’interpretazione che fa della prigionia di Dostoevskij la spiegazione della svolta del suo pensiero: infatti l’umanitarismo filantropico persiste ancora nei Ricordi dalla casa dei morti, in cui si racconta, appunto, l’esperienza della prigionia; e risalgono agli anni di servizio militare a Semipalatinsk, posteriori alla liberazione, racconti comici, ottimistici, quasi idillici come Il villaggio di Stepančikovo.
Nulla nella vita di Dostoevskij può costituire una spiegazione esauriente della violenta crisi del suo pensiero, la quale deve collocarsi negli anni fra la partenza da Semipalatinsk, nel 1859, e i primi viaggi all’estero, nel 1862, e il cui primo frutto si deve ravvisare nelle pagine vigorose e drammatiche delle Memorie del sottosuolo, del 1864.

2. L’uomo sotterraneo.

L’interprete che maggiormente ha insistito sulla netta separazione dei due periodi, Lev Šestov, afferma che Dostoevskij nel primo non ha ancora scoperto il tragico, e quindi le ore piú felici le passa a scrivere piangendo storie lacrimevoli per far piangere gli altri, mentre nel secondo periodo scopre d’aver sempre mentito nel fare con tanta incoscienza quella parte di scrittore idealista e compassionevole. Prima, quando non soffriva veramente per conto suo, poteva con gioia descrivere le disgrazie di Povera gente e di Umiliati e offesi; ma, dopo, quando il tragico entrò nella sua esistenza, egli comprese quanto fosse mostruoso e orribile esorcizzare la propria coscienza al punto da raccontare felice disgrazie terribili per far piangere gli altri: cercò di dimenticare la prigione, ma la prigione non si dimenticò di lui, e si può dire ch’egli passò in prigionia tutto il resto della vita; cercò di riconciliarsi con la vita, ma la vita non si riconciliò con lui, ed egli scoperse la verità, cioè scoperse quant’era falsa e menzognera la sdolcinata compassione dell’umanitarismo filantropico e idealistico, e preferí mettere in mostra il suo «talento crudele», l’apparente cinismo e l’apparente sfrontatezza di chi ridicolizza gli «ideali», le «anime belle», l’elevatezza della ragione e la nobiltà della coscienza, in nome d’una verità piú profonda e d’una sincerità piú radicale, stanca di disinganni e scevra di illusioni3.
«Le Memorie del sottosuolo sono l’urlo di terrore dell’uomo che a un tratto scopre di aver sempre mentito e fatto la commedia quando diceva che lo scopo supremo dell’esistenza è di servire l’ultimo degli uomini». Esse rappresentano la disperazione, l’audacia e l’imprudenza di chi sputa sui sentimenti umani piú cari e piú sacri, da parte di chi ha scoperto che i nobili ideali dell’idealismo umanitario e «schilleriano» servono egregiamente a nascondere la verità quand’essa sia in qualche modo spiacevole e scomoda. La poesia della fraternità universale può indurre a fantasticare grandi sogni per l’avvenire e intanto contentarsi della parte ipocrita di sacerdote del sublime; ma questi ideali, che riempivano Dostoevskij di tenerezza e di entusiasmo, gli suscitano ormai soltanto disgusto e orrore: bisogna ascoltare l’uomo qual è, e rimettergli tutti i peccati purché dica la verità: può darsi che questa verità, cosí spiacevole e crudele a prima vista, contenga qualcosa di superiore al fascino delle menzogne piú splendide. Le grandi idee possono essere mostruose menzogne, e i piú bassi istinti possono rivestire le forme piú belle; il che è cosí riposante e calmante per gli idealisti, ma costituisce un «muro» di cui bisogna riconoscere l’esistenza, perché ogni verità, quale che sia, è meglio d’una menzogna, e gli orrori della vita reale sono meno spaventosi delle idee ipocritamente immaginate dalla ragione universale e dalla coscienza morale, quali sono da un lato le leggi naturali e l’ordine armonico dell’universo e dall’altro le leggi morali e i sentimenti umanitari. I Ricordi dalla casa dei morti sono l’ultimo sforzo per conciliare la realtà e gli ideali, sí che il lettore alla fine è intenerito e sereno, pronto a condurre una fiduciosa lotta contro il male per instaurare un ordine felice e armonico; le Memorie del sottosuolo invece non dànno luogo al culto di verità nobili e generose, sublimi e ideali e all’edificazione dello splendido «palazzo di cristallo» del futuro, ma impongono la ricerca della verità senza veli, della sincerità assoluta, dell’ammissione franca e persino crudele della realtà del male e della meschinità degli uomini, dell’impossibilità di chiudere gli occhi davanti alla peccaminosità e alla sofferenza dell’uomo. Nel clima dei Ricordi dalla casa dei morti era ancora possibile per Dostoevskij scrivere compassionevoli storie di «umiliati e offesi»; dopo le Memorie del sottosuolo il suo tema preferito non potrà che essere «il delitto e il castigo».
Le Memorie del sottosuolo, che costituiscono dunque la svolta nel pensiero di Dostoevskij, sono un’opera molto complessa, il cui significato maggiore consiste nel rivendicare la libertà e la personalità dell’individuo contro l’ordine necessario della natura o della ragione. Tale rivendicazione è operata sino all’assurdo, al punto che contro la necessità dell’ordine naturale o della coscienza morale la libertà dell’individuo si afferma con l’arbitraria negazione delle verità piú necessarie come quelle matematiche («2 + 2 = 4 ci sputo su», perché «2 + 2 = 4 non è piú vita, ma inizio della morte»), e con la preferenza data al desiderio di soffrire piuttosto che al desiderio di felicità («Perché siete cosí fermamente, cosí solennemente convinti che solo ciò che è normale e positivo, in una parola, solo il benessere è vantaggioso per l’uomo? Non si sbaglierà la ragione nel valutar ciò ch’è vantaggioso? È proprio vero che l’uomo non ama che il benessere? Non ama egli forse anche la sofferenza? Che forse la sofferenza non gli è altrettanto vantaggiosa che il benessere? È un fatto che qualche volta l’uomo ama terribilmente la sofferenza, l’ama sino alla pazzia»).
Ma fra i grandi temi di quest’opera c’è senza dubbio quello indicato da Šestov, cioè lo smascheramento dell’ipocrisia dei grandi ideali e la sincera denuncia della realtà.
In generale io non ho mai potuto sopportare di dire: perdono, papà, non lo farò piú; non perché non fossi capace di dirlo, ma, al contrario, forse proprio perché ne ero anche troppo capace, e in che misura!... Mi commovevo con tutta l’anima, mi pentivo, piangevo e naturalmente la davo a intendere a me stesso... In capo a non piú di un minuto io m’accorgevo con irritazione che tutto ciò non era che menzogna, menzogna ripugnante, vergognosa menzogna, tutto: e i patimenti e la commozione e i propositi di rinnovamento.
L’uomo si vendica perché nella sua vendetta trova la giustizia. Il che vuol dire che ha trovato la causa prima, ha trovato la base, la giustizia. Per conseguenza egli è tranquillo da tutti i lati e si vendica tranquillamente e con proprio vantaggio, convinto di compiere un’azione onesta e giusta. Ma io la giustizia non la vedo, né trovo la virtú, e perciò se mi vendico è per cattiveria. La cattiveria, naturalmente, è tale da soverchiare in pieno tutti i miei dubbi e potrebbe perciò prendere completamente il posto della causa prima.
Ho conosciuto un signore che per tutta la vita non fece altro che insuperbirsi di essere un intenditore di champagne. Egli considerava ciò come un suo merito reale e non dubitò mai di se stesso. Morí con la coscienza non soltanto tranquilla, ma trionfante, e aveva perfettamente ragione. Io mi sarei allora scelta una carriera: sarei stato un infingardo e un crapulone, e non cosí semplicemente, ma pieno di simpatia per tutto ciò che v’è di bello e di sublime... Io avrei trovato un campo di attività corrispondente alla mia capacità, e cioè: bere alla salute di tutto ciò che è bello e sublime. Avrei potuto in qualsiasi evenienza versare nel mio boccale una lacrima e berla alla salute di ciò che è bello e sublime. Avrei trasformato tutte le cose dell’universo in «bello e sublime»: in tutte le cose piú disgustose, piú vili, piú basse avrei trovato il «bello e sublime».
In questo senso le Memorie del sottosuolo sono veramente la rivelazione dell’uomo a se stesso, la rivelazione dell’uomo segreto, nascosto, ignorato. Come Pascal parla in tutta la sua opera del Deus absconditus, rifacendosi al detto di Isaia (45, 15) ’ēl mistatēr, cosí si può dire che in tutta la sua produzione Dostoevskij non fa altro che parlare dell’homo absconditus, secondo il detto della seconda epistola di san Pietro (3, 4) kryptòs ànthropos.

3. Fantasia artistica e visione del mondo.

Per ricostruire il pensiero di Dostoevskij altrettanto poco ci servirà compiere uno studio estetico. Anche se la sua concezione filosofica dovremo cercarla proprio nella sua arte, perché solo dalla sua arte può essere pienamente rivelata, tuttavia non limiteremo la nostra considerazione a constatazioni o valutazioni di carattere artistico. Da un punto di vista strettamente artistico il capolavoro è forse Delitto e castigo, per la sua unità, la sua stringatezza, la sua coerenza, la perfetta fusione dei vari elementi drammatici e dottrinali; ma certamente I fratelli Karamazov, tanto piú disordinati, diseguali, prolissi, hanno una grandiosità di concezione, una forza di penetrazione, un vigore di pensiero, un’ampiezza di esperienza, una completezza di umanità che ne fanno un capolavoro assoluto. Cosí Povera gente è assai piú riuscito del Sosia, per la maggiore evidenza, scorrevolezza, varietà; ma è indubbio che Il sosia è assai piú profondo, interessante, problematico, vigoroso, e merita un posto speciale nella successione dei capolavori dostoevskiani. Comunque sia, i temi della filosofia di Dostoevskij dobbiamo individuarli non tanto nei contenuti di per sé presi, quanto piuttosto nell’esito artistico ch’egli ha saputo dare alle sue stesse idee e al movimento speculativo di queste.
Ciò pone non poche difficoltà, che sono state assai bene analizzate da un ottimo interprete della Weltanschauung di Dostoevskij: Fëdor Stepun4. Difficile cercare la concezione di Dostoevskij nei suoi diversi eroi, perché ciascuno di essi rappresenta una Weltanschauung diversa: atei e cristiani, cinici e generosi, scettici e rivoluzionari, assassini e asceti, libertini e santi. Tutti rappresentano tuttavia visioni dell’autore, prodotte dal suo cuore e nutrite dalla sua passione: bisogna perciò tenerne conto, ma unificandole in base a un ordine profondo, in base a un principio comprensivo, che si tratta dunque di trovare. Ed è proprio qui che appare come non si debba fare questione di contenuti, ma di visioni artistiche, perché il principio unificante che si tratta di cogliere non è reperibile negli scritti piú esplicitamente dottrinali e filosofici di Dostoevskij, ma proprio nelle sue opere artistiche: in una parola, non nel Diario d’uno scrittore, ma invece nei romanzi. Per quanto interessante dal punto di vista filosofico e tutt’altro che spregevole dal punto di vista artistico, il Diario d’uno scrittore è decisamente inferiore ai grandi romanzi non solo sul piano artistico, ma proprio sul piano speculativo: ciò che nel diario è un semplice punto di vista, cioè un’opinione o una presa di posizione, nei romanzi, è addirittura un’idea, cioè un principio vivente e una carica spirituale. Il che significa, appunto, che si tratta di cogliere il pensiero di Dostoevskij non attingendolo ai contenut...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Nota bibliografica.
  5. Dostoevskij
  6. Parte prima. Primo sguardo
  7. Parte seconda. Approfondimenti
  8. Appendice
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright