È sincera l’amicizia tra un ristorante di pesce e una famiglia di vongole? Non credo. Potrei chiudere il corsivo di oggi affidando questo dubbio ai lettori.
Ho l’impressione, però, che le mie incertezze dovrebbero consacrarsi a questioni piú concrete. La maggior parte delle cose che faccio e dico durante la giornata sembra non avere senso. Si tratta semplicemente di ripetizioni, di abitudini: sono l’alabardiere di una tragedia in costume e ripeto sempre la stessa insulsa battuta.
Me ne sto disteso sul mio vecchio divano, la fantasia della stoffa che lo ricopre è ormai irriconoscibile, potrebbe raffigurare dei fiorellini o delle conchiglie o un breve tratto dell’intestino tenue. Sento voci provenire da fuori, non mi rendo subito conto di cosa stia accadendo, forse gente che litiga. Poi capisco: è un canto, che si leva sempre piú sicuro. Le parole della melodia dicono che è primavera, che lui la ama e che tutto il resto non conta.
Cantano. Cantano tutte le sere sui loro balconi.
All’inizio erano canzoni con un forte significato simbolico: l’inno nazionale o vecchi brani di cantautori impegnati. Adesso il livello è franato, lo spirito patriottico ha ceduto il posto alla voglia di talent show che percorre il Paese.
Cantate, fratelli miei. Fratelli d’Italia. Ci dimentichiamo di pagare le tasse e se fuori pioviggina evitiamo di andare a votare, ma in certe situazioni impieghiamo un secondo a tirare fuori il tricolore.
Dalla finestra aperta inneggiano a un gelato al cioccolato. Forse è vero quello che dicono gli scienziati: il virus colpisce anche il cervello.
Antonietta mi informa che oggi fa freddo. I nostri dialoghi sono solo di natura meteorologica: «Fa freddo» in inverno, «Fa caldo» da giugno in poi. Durante le mezze stagioni, la conversazione langue.
Sta per lavare il pavimento del soggiorno.
– Per un po’ è meglio che non vieni.
Si ferma e poggia lo spazzolone al muro. Non sembra aver capito quello che le ho appena detto, mi guarda come un parigino a cui hai chiesto un’indicazione sbagliando la pronuncia di una vocale.
– Per via del virus… per la sicurezza di entrambi, voglio dire…
– Non devo venire piú, Vittò?
Secoli di abitudine al peggio hanno programmato le persone come lei ad aspettarsi sempre un finale tragico.
– No, non intendevo questo… solo per qualche settimana, finché non torniamo alla normalità.
Annuisce di fronte all’inevitabile e riprende a strigliare il parquet.
Non esiste sensazione piú pericolosa nella vita che sentirsi al sicuro. Magari hai poco piú di quarant’anni, fai un bel lavoro, guadagni bene, stai cominciando a metterti comodo. Cosa può succederti?
Un’epidemia globale.
Mi sento come quel ricco commerciante egiziano che tornando a casa dal mercato dopo aver venduto le sue vacche, allegro e con le tasche piene, all’improvviso fu centrato dalla pioggia di fuoco mandata da Dio contro il Faraone. Si spense nello stupore. Ieri come oggi, la piaga d’Egitto è sempre dietro l’angolo.
Antonietta ha finito e s’infila il soprabito. Ci scambiamo uno sguardo mesto. Lavora a casa mia da tanti anni, c’è qualcosa di antico che ci unisce – e non parlo solo della polvere sopra i pensili della cucina.
Se ne va, la sua figura imponente caracolla giú per le scale. Nelle settimane a venire farà le pulizie solo per il marito, la sua attività sarà declassata da lavoro domestico a matrimonio.
Ho letto una notizia che potrebbe essere adatta alla mia rubrica: in Africa un turista si è sporto dal finestrino dell’automobile e ha accarezzato un leone, che miracolosamente non l’ha azzannato. Questo dimostra che gli imbecilli purtroppo non sono commestibili. Peccato, perché avremmo risolto il problema della fame nel mondo.
Il mio appartamento è troppo piccolo, a volte mi sembra di essere un contrabbasso infilato nella custodia.
Ogni tanto mi metto a leggere gli annunci immobiliari su internet, con la stessa meticolosa perizia del detenuto che vuole organizzare l’evasione. Ho imparato che alcune inserzioni nascondono insidie sottili. La dicitura «delizioso attico», tanto per fare un esempio, si riferisce sempre a un orrendo sottotetto capace di raggiungere in estate la temperatura di un forno a legna; quando invece accanto alle foto dell’abitazione appare la scritta «prezzo su richiesta», c’è una sola cosa saggia da fare: non richiederlo.
Comunque ottanta metri quadrati sono pochi, seduto in soggiorno non devo neanche allungare il collo per abbracciare con lo sguardo i miei possedimenti. Per fortuna, sono certo che questa storia dell’isolamento domestico durerà poco. Tutti i giornalisti ormai lo chiamano «lockdown», il che dimostra la nostra tendenza a servirci di termini stranieri quando vogliamo parlare di qualcosa di cui non sappiamo nulla.
Nella mia casetta sull’albero arriva un rumore improvviso di cristallo in frantumi, un suono che sa di catastrofe, di danni involontari e scuse mortificate. In strada, qualcuno sta gettando delle bottiglie nella campana del vetro. Gli altri rifiuti sono silenziosi, hanno vergogna di loro stessi. Il vetro no, vuole morire gridando, in maniera fragorosa.
Suonano alla porta. Abbandono il computer e vado a vedere chi è.
– Disturbo?
«Disturbare» è uno dei bisogni primari dell’essere umano. Mangiare, riprodursi e disturbare. Disturbare sempre, a qualunque costo, non importa chi o cosa: i propri simili, le altre specie animali, la natura. Piazzate il vostro ombrellone su una spiaggia deserta e presto arriverà a un metro da voi qualcuno con la radio a tutto volume, affezionatevi a un prato in fiore e tempo un mese ci costruiranno un resort.
– No, non disturba affatto.
Mi ritrovo davanti Amedeo, l’architetto in pensione che vive nell’appartamento a fianco.
– Lei riesce a capire perché non funziona?
Mi porge un cellulare. La differenza generazionale fa di me un tecnico riparatore.
– Beh, non saprei… anch’io non ho molta confidenza con questi aggeggi…
Per fortuna mi accorgo subito che si trova in modalità aereo: chissà quanto lo avrà torturato prima di attivare per sbaglio quella funzione.
– Ecco, credo che cosí vada bene.
Amedeo mi guarda con meraviglia, come se avessi trasformato in ragú del lucido da scarpe.
– Grazie… grazie tante! Lei è stato davvero gentile!
– Non ho fatto niente, mi creda…
– È che volevo telefonare a mia figlia, ci sentiamo tutte le sere… e non riuscivo a farlo funzionare!
Rimaniamo in silenzio, l’assistenza tecnologica genera una gratitudine di breve durata.
– Vuole entrare? – Uno dei due doveva pure dire qualcosa, mi sono assunto io la responsabilità. Amedeo alza le mani e scuote la testa, solcare la soglia di casa mia deve sembrargli una pretesa eccessiva, soprattutto di questi tempi. Mi fa un mezzo inchino e si eclissa. Guardo i suoi capelli ondulati sulla nuca e la cinta dei pantaloni tirata troppo su, come capita spesso agli uomini anziani.
Chissà se arriverò alla sua età.
I dati della televisione sono allarmanti, comprendiamo la metà del necessario e ci preoccupiamo il doppio. Ogni sera alle diciotto la Nazione resta col fiato sospeso ad ascoltare questa litania.
Il primo risultato della pandemia sulla mia vita è che stasera non uscirò con Floriana, ci siamo sentiti al telefono e abbiamo rinviato a data da destinarsi, come un incontro di calcio sospeso per maltempo.
Floriana ha un brutto carattere, lo dicono tutti. Ne parlano come se fossero due creature separate, Floriana e il suo carattere, come se lei camminasse per la strada e il suo carattere la seguisse due passi indietro.
È una persona simpatica e dolcissima, a una condizione: non conoscerla. Frequentarla con una certa assiduità rischia di cambiare l’impressione che suscita sulle prime.
Non è una donna, ma un gioco a quiz: se dai la risposta sbagliata, hai chiuso. Io la risposta sbagliata gliel’ho già fornita un paio di volte e senza nemmeno rendermene conto. Ho detto cose che l’hanno irritata, poi ho cercato di recuperare, pur non capendo esattamente da quale pantano dovessi tirarmi fuori. Lei ha contemplato la mia inadeguatezza e mi ha perdonato. Per il momento.
Floriana è bellissima, senza troppi giri di parole.
La bellezza è un valore, un privilegio rischioso, un gruzzolo ereditato senza alcuna fatica, un asso di briscola che non ti garantisce di vincere la partita.
Il cuore sostiene che l’amo, il cervello dice di no. Forse dovrei chiedere il parere del pancreas.
Bravo, fai lo spiritoso.
Finisco le tre righe che mi mancano e spedisco il pezzo al giornale. Chissà perché, provo uno strano senso di sollievo.
Ho letto che un campione di pesca sportiva è morto fulminato vicino a un laghetto artificiale mentre si preparava a una gara. Nel corso dei millenni abbiamo rappresentato la divinità in tanti modi, forse una grande trota sarebbe la raffigurazione piú giusta.
Ho spedito il pezzo al giornale, sono già tre giorni che non esco di casa. Mi alzo, faccio colazione, poi la doccia, mi vesto e mi siedo alla scrivania. Dedico due ore alla lettura sul web di quotidiani e agenzie di stampa, seleziono una decina di notizie, ne scarto la metà e alla fine scelgo quella che mi sembra piú adatta. Dopo una ventina di minuti mi pento e riprendo una di quelle che avevo eliminato. La rileggo e arrivo alla conclusione che non va bene, quindi torno alla notizia iniziale e comincio a scrivere.
Sempre cosí, tutti i giorni.
Da un po’ di tempo mi arrivano mail inquietanti, che cercano di convincermi ad acquistare prodotti di cui ignoravo addirittura l’esistenza. Ad esempio, una torcia tattica con funzioni strobo e SOS, scocca in alluminio, capace di arrivare fino a cinquecento metri con ben sei diverse modalità d’illuminazione.
Perché me la propongono? Cosa pensano stia per accadere nel Paese, per quale motivo mi consigliano di tenerne una in casa? Io una torcia ce l’ho già, nel cassetto del mobile all’ingresso, è un modello tradizionale, a pila, ogni tanto la luce si affloscia e devi darle un paio di colpetti per farla funzio...