Senza mai arrivare in cima
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Viaggio in Himalaya

  1. 104 pagine
  2. Italian
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Senza mai arrivare in cima

Viaggio in Himalaya

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Che cos'è l'andare in montagna senza la conquista della cima? Un atto di non violenza, un desiderio di comprensione, un girare intorno al senso del proprio camminare. Questo libro è un taccuino di viaggio, ma anche il racconto illustrato, caldo, dettagliato, di come vacillano le certezze col mal di montagna, di come si dialoga con un cane tibetano, di come il paesaggio diventa trama del corpo e dello spirito.
Perché l'Himalaya non è una terra in cui addentrarsi alla leggera: è una montagna viva, abitata, usata, a volte subita, molto lontana dalla nostra. Per affrontarla serve una vera spedizione, con guide, portatori, muli, un campo da montare ogni sera e smontare ogni mattina, e soprattutto buoni compagni di viaggio. Se è vero che in montagna si cammina da soli anche quando si cammina con qualcuno, il senso di lontananza e di esplorazione rinsalda le amicizie.
Le notti infinite in tenda con Nicola, l'assoluta magnificenza della montagna contemplata con Remigio, il saliscendi del cammino in alta quota, l'alterità dei luoghi e delle persone incontrate. Questo è il viaggio che Paolo Cognetti intraprende sul finire del suo quarantesimo anno, poco prima di superare il crinale della giovinezza. «Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya ci riconsegna quei luoghi nello spirito di una esplorazione e di una immedesimazione autentiche in cui sono la natura e l'oltre a plasmare la psiche del viaggiatore che le contempla, ne subisce il fascino, finanche la forza invincibile».
Andrea Velardi, «Il Messaggero» «Cognetti, tra pecore azzurre e leopardi invisibili, ha fatto un viaggio nell'aspra poesia della natura».
Paolo Mauri, «la Repubblica» «Paolo Cognetti riprende il passo fisico e letterario - lento, costante, classico - col quale ci aveva lasciati».
Stefania Chiale, «Sette - Corriere della Sera»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858429884
Categoria
Viaggi
Capitolo secondo

Sotto la montagna sacra

La mattina in cui lasciammo il lago, la carovana si mise in marcia con piú solennità. Il cuoco preparò uova, chapati, un ultimo caffè, i portatori caricarono le stoviglie nelle gerle e imballarono le provviste in sacche di iuta, i mulattieri fissarono ai basti le tende e le taniche di cherosene. Controllarono i nodi due volte, perché quel giorno perdere il carico avrebbe significato gettarlo in fondo al lago. I muli sbuffarono e scartarono, poi rassegnati si misero in fila dietro a quello di loro che, addobbato con una maschera e una nappa dorata, faceva da capobranco.
Nella notte il vento si era placato. Adesso nella conca stagnava un’aria umida che non prometteva niente di buono. Risalendo il promontorio ci ritrovammo spesso a picco sull’acqua, su cornicioni dove Peter era passato a quattro zampe, o schiacciandosi tutto contro la parete. Io di vertigini non avevo mai sofferto, anzi mi piaceva affacciarmi e guardare in giú: qua e là il sentiero si reggeva su muretti di pietre o ponticelli di tronchi, e i nostri muli dagli occhi bassi, ognuno col muso tra la coda di quello che lo precedeva, formavano una lunga fila sul fianco roccioso della montagna. Salimmo fino a quattromila metri e ancora si sarebbe potuto fare un salto di trecento metri e tuffarsi nel lago; da lassú vidi bene come Phoksundo fosse, piú che la pietra preziosa delle leggende, un ostacolo d’acqua che la civiltà non aveva superato. A sud le case, le stalle, i campi e i pascoli di Ringmo, a nord due bracci di lago che davano su valli glaciali disabitate, solcate da fiumi serpeggianti, coperte di vegetazione.
Scendemmo sul braccio di nord-ovest per un bosco di betulle contorte e ormai ingiallite. Nicola disse che le cortecce sfogliate delle betulle, i loro brandelli agitati dalla brezza, gli ricordavano i panni di preghiera, era come se anche gli alberi portassero segni di devozione. Massi scaricati dalle frane si erano incagliati alla base dei tronchi, li avevano segnati e feriti: i massi, le cicatrici scure, le cortecce biancastre davano al bosco un’aria spettrale, che a me sembrava influenza del lago come il cielo lugubre di quella mattina.
Di nuovo sulla riva trovammo resti di falò e rifiuti bruciacchiati. Legname levigato dall’acqua e portato dalla corrente, lattine vuote, plastica, suole di scarpe. Contro una parete di roccia, poco piú su, erano stati eretti ricoveri di sasso simili a quelli per le capre, e anche lí la fuliggine anneriva la pietra.
– Chi si è accampato qui? – chiesi a Sete.
– Tibetani, – rispose.
– Tibetani del Tibet o tibetani del Dolpo?
Scrollò le spalle. Per lui fiero nepalese erano tutti la stessa gente.
– E dove vanno?
– A Shey. Per religione.
– Vuoi dire che sono pellegrini?
– Magari, – tagliò corto. La parola pellegrini non gli diceva niente, né la religione in questione pareva essere la sua.
Una valle partiva da lí in falsopiano, tutta ghiaia, arbusti di betulle e salici, bassi ruscelli trasparenti che costituivano l’estuario del fiume; si diramavano come vasi capillari, e il lago era l’organo che ne era nutrito. Forse per la luce perlacea e la minaccia di pioggia mi sembrò un paesaggio boreale piú che himalayano. Mi ritrovai sulle labbra la parola Alaska e subito dopo mi chiesi da dove fosse venuta, dato che io in Alaska non c’ero mai stato. L’avrei scoperto piú tardi, veniva da Peter: i miei pensieri e i suoi cominciavano a confondersi in una strana sensazione di déjà-vu.
I bastioni settentrionali del Kanjiroba incombevano sulla sinistra mentre ci allontanavamo dal lago. Un intero versante della montagna era bruciato, cosí da quella parte non restavano che rachitici tronchi neri. Lingue di ghiaccio grigiastro e seraccate instabili si allungavano nei canaloni fin quasi alla quota del bosco; nella fascia di erba rada tra il bosco e il ghiaccio pascolavano, distanti e immobili, yak allo stato brado. Piú avanti ne incontrammo alcuni lungo il sentiero e mi fermai a osservarli da vicino. Le mucche a cui ero abituato stanno istintivamente in branco, quei loro progenitori invece sembravano portati alla solitudine: massicci, solenni, con la gobba che dava loro una specie di malinconia preistorica, il folto pelo scuro fatto per il grande freddo. La calma però era solo apparente. – Occhio, – mi disse Remigio, notandone uno che mi puntava perché l’avevo innervosito. Lo scacciò con un gesto che gli avevo visto fare alle manze troppo aggressive, quelle lasciate nei pascoli alti che s’incontrano in agosto: funzionava anche con gli yak.
A noi due mancava un po’ il camminare liberamente, cosí una volta piantato il campo decidemmo di andarcene in esplorazione. Cadeva qualche goccia di pioggia e il caldo del pomeriggio staccava seracchi sul Kanjiroba. A mezz’ora dalle tende la valle si restringeva, perdeva la sua forma di scivolo glaciale e diventava un canyon dei piú belli: con l’acqua che scorreva sul fondo, tra le betulle di un giallo acceso, e le pareti di roccia rossastra che salivano verso i ghiacciai. Voltando oltre un dosso per osservare il fiume spaventai qualcosa o qualcuno. Avvertii lo scalpiccio di una fuga, la coda dell’occhio ebbe appena il tempo di notare un movimento, feci un passo di lato per vedere tra gli arbusti e non afferrai altro che ombre già svanite.
– Che cos’erano, li hai visti?
– Troppo tardi.
– Culo grigio, coda bianca?
– Mi pare. Saranno scesi al fiume a bere.
– Li seguiamo?
– Io no. Mi sa che torno indietro.
Remigio non era tranquillo e trasmetteva anche a me una certa inquietudine. Credo fosse la vastità a opprimerci: avevamo camminato tutto il giorno senza incontrare nessuno e sentivamo di inoltrarci in un mondo di dimensioni a noi sconosciute. Lui mosse qualcosa con la suola, era uno sterco come di capra. Alzai lo sguardo alle pareti e mi chiesi quante presenze ci fossero lassú nascoste a osservarci.
Sotto un telo impermeabile legato tra due betulle lessi di quel che ci aspettava. Il gompa di Shey, dov’eravamo diretti, è stato per secoli il piú importante monastero del Dolpo, il suo centro spirituale. Sorge ai piedi della Montagna di Cristallo ed è meta di un pellegrinaggio, o meglio i pellegrini vanno fin lí a compiere la kora rituale intorno alla montagna, partendo da tutta la regione, di solito in estate. La Montagna di Cristallo, sulla cui vetta è proibito salire, è per molti versi una sorella minore del suo piú celebre fratello tibetano: «A nord e a ovest, – scrive Peter, – oltre il fiume Karnali, l’altipiano del Tibet si alza fino al Kailash, il sacro Monte Sumeru o Meru di indú e buddisti, sede di Shiva e Centro del mondo; da quella montagna quattro grandi fiumi – il Karnali, l’Indo, il Sutlej e il Brahmaputra – scorrono in un grande mandala fino ai mari indiani». In questa figura, i quattro fiumi sono i raggi di una ruota di cui la montagna è perno. Girare intorno alla montagna porgendole il fianco destro le riconosce il valore di asse di rotazione: si fa parte della ruota, del vorticare del mondo; la montagna è origine del mondo cosí come è sorgente dei fiumi. Buddismo o no, mi piaceva che qualcuno la pensasse in quel modo.
Mi preoccupava invece il passo di Kang, che avremmo dovuto risalire entro un paio di giorni. Era la porta per arrivare a Shey e la mia mappa lo quotava a 5350 metri, Peter a 5425. Lui l’aveva trovato innevato, si era perso nel cercare la strada, aveva dovuto bivaccare al gelo e caricarsi le provviste in spalla per un ammutinamento dei portatori. Alla fine aveva superato il passo l’ultimo giorno di ottobre, dunque noi rispetto a lui eravamo in anticipo di due settimane. Alzai lo sguardo verso la quota che, a occhio, stimavo sui cinquemila: sulle pietraie umide, dopo la pioggerella del pomeriggio, le nuvole si diradavano e un velo di neve fresca si scioglieva.
Dio, come mi mancava il fuoco! I rami di betulla abbondavano intorno al campo, ma per evitare il disboscamento incontrollato accendere fuochi era proibito in tutta la regione, e noi, al contrario dei pellegrini, rispettavamo il divieto. Mi strinsi nella giacca e lessi, ancora, del mito tibetano del beyul, una valle segreta il cui accesso è protetto da alti passi, tempeste di neve e bestie feroci. Secondo la credenza ne esisterebbero alcune in Himalaya: le cime tutt’intorno le nascondono alla vista, i pendii sono impervi e battuti dalle slavine, ma poi al loro interno il clima si fa piú mite, crescono alberi da frutto, la terra è fertile e scorrono i torrenti. Come nelle valli perdute delle leggende alpine, soltanto che il beyul non ha a che fare con la nostalgia del passato, è anzi una speranza per il futuro. Esiste allo scopo di «dare riparo ai saggi in tempi di violenza». Ecco perché il suo segreto va mantenuto, nel chiuso dei monasteri e nel silenzio dei lama: è un rifugio anti-uomo in cui mettersi in salvo da guerre o disastri ecologici, o da qualsiasi altra arma l’umanità inventerà per autodistruggersi. Anche quest’idea la capivo bene. Chiunque va in montagna, pensai, la capisce.
C’era trambusto tra i portatori e chiusi il libro per vedere cosa succedeva. Una giovane aquila – impossibile confonderla con un altro rapace – era capitata chissà come tra i muli. I muli si erano innervositi e i portatori l’avevano circondata, ma ci accorgemmo subito che era ferita: l’aquila fuggiva correndo sulle zampe, non provava nemmeno a spiegare le ali. Si nascose nel folto di una rosa canina e da lí ci fissava, voltando la testa a scatti, con i suoi occhi spalancati.
Già l’eccitazione per quell’incontro si era trasformata in pena. Non sembrava cosí giovane da essere caduta dal nido, ma allora cosa le era capitato? Quanto poteva tirare avanti in un posto del genere un uccello incapace di volare? Presto i portatori la lasciarono perdere e tornarono al loro lavoro. Io restai l’ultimo lí chinato a osservarla. Forse Peter mi condizionava col suo insistente scrutare nell’invisibile, ma in quei giorni tendevo a vedere tutto come un segno e mi chiedevo che segno fosse un’aquila ferita. Se era una delle temibili sentinelle di Shey, la sua agonia mi sembrava tristemente adatta ai nostri tempi. Non servivano schiere di invasori, sarebbe bastata una volpe a giustiziarla.
A lei la mia compagnia non andava, o non voleva essere guardata in quelle condizioni: c’è una regalità anche nel salire sul patibolo, nel non lasciarsi compatire. Con la sua testa nobile, il passo goffo, gli artigli inadatti a camminare, mi voltò le spalle e si allontanò verso il bosco, andando incontro al suo destino.
Dai quattromila metri non saremmo piú scesi per molto tempo. Mi ci stavo abituando, ma mi accorgevo che tutto mi affaticava piú del normale. Chinarsi, aprire la tenda, entrarci, trascinare dentro lo zaino, bastava questo a farmi venire l’affanno, e dopo dovevo restare un minuto a riprendere fiato. Sarà cosí che ci si sente da vecchi?, pensavo. Costretti a economizzare ogni gesto, in un corpo a cui anche il semplice stare al mondo costa fatica?
Entrò Nicola e si sdraiò accanto a me. Ora col buio scendeva subito il freddo e restavamo poco, dopo cena, con gli altri a chiacchierare; bevevamo un’ultima tazza di tè, facevamo una partita a carte, e non piú tardi delle otto eravamo nel sacco a pelo.
– Casa, – disse lui, contemplando il soffitto della tendina.
– Questa? – chiesi.
– Sí, le voglio già bene.
– Alla tenda?
– Non è una tenda, è la nostra casetta gialla.
Ecco un artista in mancanza d’ossigeno, pensai. Presi il Leopardo e mi immersi nella lettura e lo lasciai alla sua storia d’amore con una tenda canadese.
Dove il sentiero si fece incerto, abbandonò il fondo glaciale della valle e si addentrò, seminascosto, tra i salti rocciosi di una gola, Sete mandò a guidarci Lakba, il capo dei mulattieri. Come tutti i ragazzi della carovana, non avrà avuto piú di venticinque anni. Era nato in Dolpo, viveva in qualche villaggio nei dintorni e seguendo le sue orme vidi come camminava: andava su distratto, in jeans bassi e scarpe da ginnastica, senza l’impegno che eravamo costretti a metterci noi. Non sembrava dispiaciuto di passare un giorno lontano dai muli, ma nemmeno prendeva sul serio il suo nuovo ruolo di guida. Anche cosí svagato, aveva un passo piú rapido del nostro e ogni tanto si sedeva a guardarci, strane creature concentrate, imbottite, cariche di attrezzature, che pagavano per fare la fatica di attraversare la sua terra a piedi. Avrei voluto scambiare con lui parole molto piú semplici di queste ma non ne parlava una d’inglese, cosí non potevo chiedergli se era contento (no, l’avrei scoperto piú tardi da Sete: gli era appena morto il padre), se a casa una famiglia lo aspettava (sí, aveva già una moglie e due figli), se il suo lavoro gli piaceva (perlomeno gli dava da vivere: adesso era lui il proprietario dei muli). Soprattutto avrei voluto chiedergli se gli piaceva la montagna, se quella montagna che provocava in me perpetua commozione suscitava qualcosa anche in lui, e mi sembrò di sí quando, seduto su un masso al sole, lo vidi osservare l’orizzonte lontano. Ci ritrovammo uno accanto all’altro a condividere quella sosta. Gli offrii una mezza tavoletta di cioccolato, che accettò sorridendo. Gli allungai la borraccia e lui bevve. Come stai, Lakba? Che cosa pensi? Mi sorrise di nuovo. Poi guardammo le montagne, senza nessuna fretta che il momento passasse.
Forse Lakba era uno sciamano, oppure a osservare lui mi distrassi dall’ascolto di me, comunque il demone imprevedibilmente mi lasciò in pace, e nel pomeriggio arrivai in buona forma a 4700 metri, piú in alto di qualunque vetta raggiunta in vita mia. Lassú quella gola accidentata si aprí in una conca arida, sassosa, dove rivoli d’acqua si univano a formare il torrente che avevamo risalito per ore. Un ripido pendio terminale portava al passo di Kang, da qualche parte sopra la nostra testa, e a voltarsi di spalle si veniva investiti dal gelo dell’immensa parete nord del Kanjiroba: lame di bianco lucente, seraccate dai colori di nuvole temporalesche, alti ghiacciai sospesi, Himalaya (che significa appunto dimora delle nevi).
Stavo bene e mentre gli altri riposavano me ne andai a fare un giro per la conca. Tra i sottili ruscelli cresceva un’erba pungente, un muschio dove l’acqua stagnava, e sulla terra sabbio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Senza mai arrivare in cima
  4. I. Lungo il fiume
  5. II. Sotto la montagna sacra
  6. III. Per una valle di frontiera
  7. IV. Nel deserto
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Copyright