Babele: capitolo undici.
Partendo da Oriente, gli uomini scampati al Diluvio arrivano a una pianura grandissima e, cosí a colpo d’occhio, anche fertile e grassa: terreno elastico a basso rischio sismico, corsi d’acqua e vegetazione rigogliosa.
Si siedono davanti al paesaggio migliore, si guardano e dicono: ma scusate, visto che parliamo tutti la stessa lingua, usiamo le stesse parole e bene o male abbiamo le stesse esigenze, le stesse abitudini, unità di tradizioni e cultura, un sistema monetario omogeneo, ecco, invece di disperderci sulla faccia della Terra espandiamoci qui, che è un bel posto, e verso l’alto, con un’idea di civiltà verticale, architettura ecosostenibile, bioedilizia sicura e versatile, mattoni cotti, bitume impastato anche di componenti grezze ma tenaci, per esempio l’odio e la discordia, la tracotanza eccetera. Tutti prodotti naturali in filiera corta. Una struttura resistente agli eventi fisici e metafisici, energeticamente efficiente, praticamente indistruttibile. Un’ampia e comoda scala che collega tutti i piani. Se stiamo uniti, dicono gli uomini (le donne non sono contemplate: i testi sacri fanno spesso delle sviste), siamo come si suol dire una potenza.
E allora senza perdere tempo cominciano a costruire questa fabbrica che poi sarà una città-mondo verticale. A chi sia venuta per primo l’idea non si sa di preciso, si fa il nome di un pronipote di Noè, perché a un’idea buona bisogna dare subito un autore nobile di stirpe.
Be’ niente, col cantiere già in avanzamento Dio dà un’occhiata giú e dice: però, guarda questi uomini che cose meravigliose san fare. Lo dice con un certo orgoglio perché gli uomini li ha inventati lui. È vero che poi ha cercato anche di sterminarli, ma i superstiti sono virtuosi, mica delle schiappe, e ora sono un solo popolo, parlano una sola lingua, lavorano tutti insieme e cosí bene organizzati che non li ferma piú nessuno.
E insomma, con l’occhio incantato sul panorama di queste creature infaticabili – operai, ingegneri, architetti, geometri, direttori dei lavori –, tutte impegnate dietro alla torre che cresce di ora in ora, di giorno in giorno, dice: è ora di far qualcosa per loro.
Scende, guarda piú da vicino la folla che lavora senza sosta, si compiace anche del coraggio, dell’amore per il sacrificio, della resistenza alla fatica. Cose che in fondo, pensa Dio, gli uomini hanno avuto in dono da me, non faccio per vantarmi ma è tutta proiezione della mia grazia.
Cosí, con un gesto lieve, un soffio o un dolce batter di ventaglio o un cenno gentile di bacchetta che chiama l’attenzione dell’orchestra e il silenzio del pubblico, li sparpaglia tutti in giro sul pianeta, che è come dare un calcio a un formicaio, o disperdere uno sciame col DDT; confonde le lingue, per esser sicuro che non si parlino tra loro, e torna su.
Per terra resta un aborto di torre, un relitto che non interessa a nessuno, anche perché non c’è piú nessuno, tolto un branco insignificante di balordi che girano senza sapere piú chi sono.
E questa era solo la premessa del ragionamento. Buttarelli non aveva mai imparato a leggere sul rotolo, perché la vedova da un po’ di anni aveva perso interesse per le liturgie.
Leggere sul rotolo poteva essere un vantaggio, a parte il verso di lettura da destra a sinistra, per via della mancanza di una linea mediana. Leggeva da fogli singoli, strappati, che lasciavano scorie e relitti a ogni riga.
Difficile capire, al di là delle frasi fatte, perché Dio avesse boicottato il progetto. Se la costruzione della torre fosse stata già finita, o anche solo piú alta, l’avrebbe buttata giú come fa un bebè con la pila di cubi, quindi in un certo senso è stato meglio cosí, si è evitata una strage.
Vien da pensare che Dio ai tempi era giovane, forse un po’ permaloso. O forse è un Dio artista, creativo; il continuo, il definitivo non dialogano con l’arte: il continuo impoverisce, la rottura arricchisce. Cosa sarebbe stato il mondo ridotto a una torre dove tutti dicono le stesse cose? Il mondo ha bisogno di collisioni e intermittenze, insieme a momenti di vuoto. Se tutti parlano uguale nessuno dice piú niente.
Volevo fare del mondo un’opera d’arte, ha pensato Dio, mica un motore diesel. L’arte è varia e dissociata, come gli stati atmosferici ma anche come l’uomo, che ho voluto pieno di difetti e paturnie, umori instabili, bisognoso di piangere e ridere, parlare a vanvera, pregare. Va bene la globalizzazione, pensa Dio, ma ci vuole sempre un po’ di Nord e un po’ di Sud, qualche traccia di sottosviluppo, di ghetti e barriere. La città-mondo non soddisfa nessun senso estetico. E in fondo c’è piú colore, cromatismo, nell’incomunicabilità che nella comunicazione. E poi, pensa ancora Dio, anche a livello di urbanizzazione del pianeta, o di coscienza ecologista, se vogliamo metterla su quest’altro piano, vien da chiedersi che idea è una torre. Un pugno di semi ha bisogno di un campo, per crescere, non di un vaso da fiori. Dentro la torre soffoca il mercato libero, si strozzano le reti tecnologiche. E dove va a finire il progresso?
Il problema è che Dio procede sempre per approssimazioni, con danni proporzionati alla sua potenza che essendo poi onnipotenza possiamo provare a far due conti. E questa idea di seminare l’incomunicabilità c’entra sí e no con le lingue, è un discorso piú vasto. Dio, senza saperlo, non ha solo sparso un’infinità di lingue, ma ha anche avvelenato la metalingua, la cinesica, la prossemica, quelle cose lí; il linguaggio come disvelamento, come casa dell’essere, non so se mi spiego. E non ha pensato al dopo. Una lingua, va là, la impari sempre, ma se poi manca l’accordatura, l’orecchio, la tonalità di base, è come non averla imparata.
E allora l’uomo, che fa il verso all’Onnipotente – e questo, siamo onesti, gli deriva anche da chi l’ha voluto creare a sua immagine e somiglianza con margini di approssimazione –, dice: qui ho capito che non si riesce a comunicare, ma ci penso io, che in queste cose modestamente sono esperto. E inventa la comunicazione.
L’esperto che ha inventato la comunicazione è come quel primo uomo, tanti anni fa, che avendo recintato un terreno, dice: questo è mio, e trova delle persone abbastanza stupide da credergli. Bastava poco: bastava che qualcun altro corresse lí in tempo con in mano un badile, buttasse giú i pali di cinta, coprisse i fossati e gridasse: per carità, non date ascolto a quel deficiente.
Ma quest’uomo col badile era lontano da lí in quel momento, ci è arrivato un sacco di secoli dopo e un po’ per caso, nel frattempo ci son state le guerre, le invasioni, i delitti, la miseria. Troppo tardi, cosa vuoi che facesse ormai, l’uomo col badile. La stessa cosa con la comunicazione: l’esperto non si ricorda piú di quella torre degli uomini scampati al diluvio e crea la città-mondo, dove però è tutto un dialogo tra sordi.
Ho sintetizzato il pensiero di Buttarelli. Piú che altro ho messo in fila tutti i suoi relitti di lettura, aggiungendo qualche relitto mio.
Buttarelli, diceva Gualtieri, continuava a leggerlo, il capitolo undici della Genesi.
Stagione fertile del cefalopode, parte seconda.
Se Buttarelli non avesse scritto le lettere alla vedova, la vedova non avrebbe ricevuto le didascalie, le didascalie non sarebbero arrivate in mano a Fulgenzio e di conseguenza non ci sarebbe stata la chiacchierata al bar. Che poi non era stata una vera chiacchierata, mancando un confronto dialettico, la chiamiamo chiacchierata perché non mi viene una parola migliore; o magari la chiacchierata al bar ci sarebbe stata lo stesso, dentro altri destini o catene, ma Fulgenzio non avrebbe letto ad alta voce le didascalie e non avrebbe cantato la canzone di Nunzio Gallo.
Raccogliendo i frutti di quell’ora di vanvera – è questa forse la parola adatta –, si poteva dire che l’idea di Buttarelli di scrivere alla vedova non aveva dato i risultati che lui si aspettava, ma per terra restavano molti rottami su cui buttare l’occhio. La canzone di Fulgenzio e della vedova per esempio era già un dato storicizzante, se si può dire, per capire da dove era partito quel viaggio. Idem per la Svizzera, la guerra e altri particolari come il galvanometro e il radiotelegrafo che per forza propria si erano aggiunti a un quadro vivo di luci e ombre, verità e menzogna, dove la vedova e Fulgenzio avevano ripreso i ruoli giusti di femmina e di maschio: il maschio piccolissimo dentro una maschera di taglia ampia presa a noleggio, e la femmina organicamente grande, con una corazza minerale di reticenza che la rimpiccioliva.
Tra il maschio umano e il maschio cefalopode Argonauta Argo forse l’unica differenza è proprio la maschera, perché il cefalopode non conosce la cosiddetta fiamma della vanità, ma tutti e due sono sempre fertili.
Quest’ultima conclusione, a dir la verità, è un po’ buttata lí. Andrebbe verificata, almeno per il cefalopode. Per l’uomo maschio, soprattutto del Nordovest del mondo, che interpreta e adatta i concetti a modo suo e in senso piú spiccatamente apologetico virile, la fertilità sembra che vada oltre la chimica e la fisiologia, quindi non abbia frontiere, neanche a livello di resistenza e persistenza. Ci sono uomini del Nordoccidente del pianeta che toccano punte di fertilità da mettere in vergogna tutto il resto del mondo animale.
Raccontava Gualtieri di un suo amico americano – si chiamava Tavolazza e abitava in Santagnese, ma Gualtieri diceva che era americano – che avrebbe avuto un’esperienza di fertilità durata ininterrottamente da dopo pranzo fino alle due di notte, con cambio di partner verso le sei di pomeriggio perché la prima partner aveva detto che bastava cosí, a livello di fertilità, e a mezzanotte ne era arrivata un’altra a darle il cambio, perché anche lei, quella del secondo turno, era molto provata dalla fertilità di Tavolazza. E anche la terza aveva retto per due ore, poi aveva gettato la spugna. Tavolazza non so se lo rincontreremo in questo mesto cammino, ma era giusto citarlo come esempio di dilatazione profetica di un concetto che nasce con un significato e ne prende un altro.
L’incontro con Fulgenzio aveva ampliato l’immaginario di Buttarelli, e ferma restando la figura di Maribèl come modello di riferimento, diventava ora possibile che il rapporto tra la vedova e Fulgenzio non fosse poi cosí contro natura, e che anche quell’ossessione dell’impurità che Buttarelli aveva ereditato dalla vedova come deriva inconscia di un conflitto fra religioni fosse appunto solo un’ossessione, un incubo infantile e che anche la vedova si fosse ricreduta grazie a Fulgenzio, forse proprio a cominciare dalla canzone di Nunzio Gallo.
Volendo semplificare il discorso – un discorso che, come tutti i discorsi già è difficile fare, figuriamoci semplificare –, il mondo terrestre umano era riapparso agli occhi di Buttarelli avvolto da una fodera di medaglie al valore e meriti autocertificati che serviva da isolante naturale protettivo, per via che i mammiferi umani sono troppo deboli di costituzione per sopravvivere su un pianeta dove sono finiti per sbaglio o solo per far ridere gli alieni e dove la natura bene che vada li tollera nella speranza che si estinguano presto. Sotto questa specie di pelle o coperta che diventa poi un sudario o una sindone, agiscono delle componenti mucose come il pensare per rattristarsi o sorridere, la speranza fra sonno e veglia, mal di testa e pesantezze di stomaco, digestione lenta, frasi e perifrasi, avverbi come francamente o paradigmaticamente, orologi di design e biciclette con freni a bacchetta, ma anche bicchieri di Oro Sibille e canzoni cantate fra detriti del passato e ipotesi sull’aldilà, svizzere, guerre, galvanometri e radiotelegrafi.
Insomma, la fiamma della vanità.
Per dire che il cefalopode è avvantaggiato da molti punti di vista. Ma non si può pretendere di nascere tutti cefalopodi.
In questa nuova mentalità gli occhi di Buttarelli erano andati oltre il bordo dell’orizzonte, dove anche il cappello dell’Eustrella usciva dal mondo delle idee e cominciava ad avere un senso biologicamente plausibile, cioè la corazza minerale della femmina in periodo fertile.
E cosí da quel momento le didascalie scritte per lei non sfuggivano piú di mano a Buttarelli, diventavano parte meccanica di quel brusio di ormoni che gli faceva guardare l’Eustrella con un occhio piú selettivo, che voleva entrare nel mistero del corpo che poi è un allegato del sistema dell’essere e del divenire, dei misteri eterni, volendo allargarsi. Insomma le didascalie finalmente si appiccicavano ai quadri di donna col cappello e anche lui, Buttarelli, per la prima volta saliva sul palcoscenico della commedia, per recitare davanti a sé e davanti agli altri.
È qui, sul davanti agli altri, che gira un po’ la storia.
Stagione della fertilità del cefalopode, parte terza e forse ultima.
Perché in questo modo cambiavano le regole. Il senso del disinteresse svaniva appena Buttarelli metteva piede nel territorio dell’Eustrella, e ritornava ogni volta che ne usciva fuori. Dentro il territorio lui guardava l’Eustrella come la poteva guardare qualunque altro interessato.
L’Eustrella se n’era accorta, senza capire però cosa fosse successo nel frattempo. Perché anche se Buttarelli aveva già un’ombra di barba sul mento ed era alto fino a dove si respira l’aria stupida, la sua misura di uomo per lei era sempre quella del nipotino, che lascia alle zie un’ampiezza totale di campi espressivi stimolando quell’istinto di accudimento che è l’anticamera del senso materno.
Diciamo che Buttarelli si trovava per cosí dire scisso in due: il Buttarelli nipotino che raccoglieva le confidenze della zia e la ricompensava raccontando tutto quello che secondo lui poteva farle piacere; e il Buttarelli uomo che guardava l’Eustrella come il maschio guarda la femmina nel mondo dei mammiferi.
L’Eustrella, dopo un breve e comprensibile smarrimento, aveva dovuto rivedere i metodi e cominciare anche con lui la recita dell’indifferenza come con tutti gli altri maschi. E per spirito di colleganza anche le altre compagne avevano dovuto correggere il tiro, per esempio limitando gli inviti a casa loro a prendere il tè. Ma Buttarelli non era cambiato: era invariato il suo senso del tumulto, continuava a leggere solo su fogli singoli o sulla pagina di sinistra e a partecipare del patimento dell’universo, continuava a disegnare logogrammi; anche il senso di disinteresse non aveva smesso di funzionare per tutti i campi dell’esperienza che non fossero l’Eustrella.
Il cambiamento di sguardo dell’Eustrella, che aveva segnato una nuova fase ritrattistica della donna col cappello e una nuova flessione poetica di didascalie orientate verso la disperazione dei sentimenti, non era stato messo in conto. Buttarelli credeva un po’ ingenuamente che l’affetto delle compagne, e quindi anche quello dell’Eustrella, lo potesse avvantaggiare nel nuovo orizzonte del commercio amoroso, invece tutt’a un tratto si era trovato solo e senza bussola in mezzo a una tempesta di sabbia.
A volte si esagera con le parole e le immagini, ma l’importante è spiegarsi.
Detto in parole povere, avrebbe dovuto fare come fanno tutti, cioè cercare l’occasione, cominciare un discorso eccetera, ma le occasioni e i discorsi non li trovi cosí per strada, non ti vengono incontro. Bisogna poi tener conto che Buttarelli, oltre a essere considerato irregolare per via di tutte quelle stranezze a partire dal meccanismo della pagina pari fino al sistema dei logogrammi, era anche visto con una certa ostilità e sospetto dai compagni maschi proprio per questa inspiegabile confidenza con le compagne che a lui dicevano tutto senza vergogna e lo ascoltavano senza ridere. Per dire che non poteva contare sul loro aiuto, anzi ai compagni maschi era prudente non accennare neanche l’argomento, per evitare ripercussioni o rappresaglie che avrebbero ostacolato il progetto.
Che poi un vero progetto non c’era, Buttarelli era sempre solo in mezzo alla tempesta di sabbia a perder del tempo con ritratti immaginari della donna col cappello e didascalie – ora in registro pessimistico – con facili slittamenti escatologici, tipo questo:
TURBOLENTA PIETÀ
SILENZIO BIANCO
CHIAMA CHIAMA CHIAMA, CHIAMA
Qui il soggetto che chiama è fin troppo facile capire che è la morte intesa proprio come morte, diceva Gualtieri senza però soffermarsi sul testo che non amava tanto, infatti lo lanciava nei discorsi insieme a gesti scaramantici, perché ...