L’Atleide è il poema in endecasillabi sciolti (interrotto al v. 1148 del canto I) di Mark Hateley, attaccante inglese in forza per breve tempo, sulla metà degli anni ’80, alla squadra del Milan sommamente cara all’autore. Il fatto che questi, pochissimi anni prima dell’era trionfale dei rossoneri, ponesse a oggetto di celebrazione il centravanti di quel Milan tutto sommato modesto assume oggi, alla luce dei fasti successivi, un preciso valore simbolico, configurando quella commossa epicizzazione come purissima mitopoiesi autosensata. Quale il senso, infatti, di una celebrazione che riguardasse un giocatore immenso come Marco Van Basten? (Giacché per un poeta epico non c’è peggior jattura, lamentava Vincenzo Monti, che essere un contemporaneo di Napoleone). Da quest’alta specola l’Atleide ci appare oggi, dunque, non poco struggente: tanto piú che uno struggimento di secondo grado giunge dall’assoluta inutilità dell’intera operazione, id est (a ben vedere) dalla scientifica pervicacia con cui l’autore, pel tramite d’essa, dissipava la propria vita o meglio non viveva.
La classe immensa il fiero sguardo io canto
del colpitore di palloni Atlide,
che tante maravigliando addusse
sfere impetuose in rete, e di portieri
orrenda strage solea far nel campo.
Come l’erba a calcar venne di Sirio1
or dinne, o Musa, e in quante guerre
ei fe’ stupende prove fino al giorno
che ’l suo destin la cruda Parca oppresse.
Già nove fiate avea compiuto il cielo
l’orbitale sua volta, e il decim’anno
volveasi allor da che portaro assedio
al campo eritromelio2 irti di guerra
i Meloglauchi3 dalla bassa fronte.
Duce era a lor Castagneronne4 il forte
cui l’antica Perusia riveriva
e tributo rendea l’insubre piana
d’armati generosa e di sostanze.
Solo d’Erneste egli temeva il cenno,
Erneste Pellegride5 a cui in divizie
nessuno al paragon s’ardía: Erneste
che centomila bocche di mortali
ad ogni sole provvedea a sfamare.
Ma ancora un fregio al suo poter mancava,
distinto onor che ’l possessore abbella:
la classe i’ dico, l’eterea classe
che ’l gran Cronide adunator di nembi
ai miseri mortai dispensa avaro.
E a cui concessa aveala in sacro pegno?
All’almo prence dall’aurata chioma,
il tocco-vellutato Riveride6
figliuolo al re Teresio Alessandrite
cui piacque il nome imporre a lui di Ghiannis,
tremendo suon di morte ai Meloglauchi
ma mélode dolcissima d’ambrosia
al sangue eritromelio, e ov’è che batta
d’amore il vecchio cuor per il Daimone7.
Venti lungh’anni splendida refulse
in suo poter la classe inarrivata
ch’ei giva disvelando a genti estrane
per quanti stadî allumina il Titano:
e allor che lunghi i suoi servigi addusse
a suggestion del pestiforme Pierio8
di ben tessute reti sfondatore,
e quando al Sormanide e all’Altofino9
dell’infima Ameride eccelsi figli
fu liberal di sfere da deporre:
questi fûr suoi compagni, antica scola
che s’abbellía del rapido volteggio
del misero Morao10 dai ricci negri
cui n’invidiò ‘l destin viver piú a lungo:
anche Roberzio11 v’era, il re rosato
in atterrar nemici e...