Anatomia di uno scandalo
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Anatomia di uno scandalo

  1. 392 pagine
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Anatomia di uno scandalo

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Westminster, Londra. James Whitehouse è un uomo di potere, un maschio attraente, un padre devoto. Ed è accusato di violenza sessuale da una donna con cui ha ammesso di aver avuto una relazione. La moglie Sophie è convinta della sua innocenza, ma le sue certezze, o forse le sue speranze, si scontrano con la tenacia di Kate, l'avvocata dell'accusa, determinata a colmare il divario tra giustizia e privilegio. La verità, come spesso accade, è complessa: affonda le radici in un passato lontano, tra i palazzi d'ardesia dell'università di Oxford, dove James e Sophie si sono conosciuti. E può far saltare in aria un matrimonio, un partito, un intero sistema di valori. Thriller psicologico, ritratto di famiglia e insieme giallo giudiziario, Anatomia di uno scandalo affronta con tempismo perfetto uno dei grandi nodi del nostro presente.«Raccontando la storia di un rampante ministro del partito conservatore inglese, Vaughan ha anticipato il terremoto che si sarebbe abbattuto sulla nostra società occidentale. Come se avesse la palla di cristallo».
The Times «Al cuore di questo romanzo ci sono i temi scottanti del consenso, delle molestie sul lavoro, del pregiudizio che le donne ancora scontano in campo politico. Oltre che di uno scandalo, è l'anatomia dei tortuosi corridoi del potere, e dei recessi ancora piú oscuri dell'animo umano».
The Observer

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858429044
1.

Kate

2 dicembre 2016
La parrucca va ad afflosciarsi sulla scrivania come una medusa in secco sulla spiaggia. L’ho lanciata io, appena entrata. Quando non sono in aula ho pochissima cura di quest’imprescindibile elemento del mio guardaroba, e invece di trattarlo con la deferenza che vorrebbe suscitare, faccio tutto il contrario. È una parrucca intrecciata a mano con autentico crine di cavallo, vale quasi seicento sterline, ma vorrei che invecchiasse un po’, che mostrasse la gravitas di cui a volte mi sento carente. Che l’attaccatura frontale ingiallisse con il sudore degli anni, che i riccioli compatti e burrosi cedessero un po’. Sono patrocinante per la Corona da diciannove anni, ma ho ancora la parrucca di una principiante piena di zelo: non come certi miei colleghi (alcune donne, piú spesso maschi) che l’hanno ereditata dal padre. Mi piacerebbe che anche la mia fosse cosí: consumata dalla tradizione, dal prestigio, dal tempo.
Scalcio via le scarpe: décolleté con il tacco basso e la fibbia dorata che starebbero bene a un damerino della Reggenza, a un cerimoniere della Camera dei Lord, o magari a un’avvocata con la passione per certi riti antiquati, macchinosi e ridicoli. Le scarpe sono importanti. Mentre chiacchieriamo con colleghi e clienti, poliziotti e messi del tribunale, tutti noi abbassiamo lo sguardo di tanto in tanto per non sembrare troppo ostili. Chi posa gli occhi sulle mie calzature costose vede una persona consapevole di quest’umana bizzarria, una persona che si prende sul serio. Che si veste come se fosse sicura di vincere.
Ci tengo, sapete, ad avere l’aspetto giusto. A fare le cose per bene. Sotto la toga, le avvocate potrebbero indossare un semplice colletto finto: una striscia di pizzo a girocollo, con due facciole di cotone e un davantino che copre il petto a mo’ di bavaglino. Costo, trenta sterline circa. L’alternativa è agghindarsi come me: casacca bianca senza collo e colletto rigido fissato con due bottoni a pressione, uno davanti e uno dietro. Gemelli da polso. Tailleur gonna o pantaloni di lana nera, e infine la toga nera: di lana, oppure lana e seta, a seconda del successo e dell’anzianità professionali.
Parte di quella roba me la sono già tolta. Ho deposto alcuni pezzi del mio travestimento nel guardaroba dell’Old Bailey. Via la toga; colletto aperto, gemelli slacciati, capelli liberati dall’elastico e arruffati con un gesto veloce.
Sono piú femminile, senza il mio costume. La parrucca e gli occhiali a montatura spessa mi fanno sembrare asessuata. Bella no di certo, anche se qualcuno potrebbe notare i miei zigomi: due lame aguzze che mi sono affiorate sul viso dopo i vent’anni e da allora si sono indurite e affilate. Anch’io, nel tempo, mi sono indurita e affilata.
Senza la parrucca sono piú a mio agio. Piú me. Intendo la me che mi abita dentro, non quella che mostro ai giudici o una qualunque delle mie precedenti incarnazioni. La me di adesso: Kate Woodcroft, avvocato penalista, patrocinante per la Corona (ho il titolo onorifico di Queen’s Counsel e la toga di seta), membro dell’Inner Temple, esperta in processi per crimini sessuali. Quarantadue anni, divorziata, single, senza figli. Per un momento poso la testa sulle mani e lascio uscire il fiato in un lungo soffio, mi impongo di allentare la tensione. Niente. Non riesco a rilassarmi. Spalmo un po’ di crema idratante sul piccolo eczema all’interno del polso e resisto alla tentazione di grattarmi. Di grattare il mio scontento nei confronti della vita.
E invece alzo gli occhi verso il soffitto del mio studio. Un’infilata di stanze in un’oasi tranquilla, nel pieno centro di Londra. Edificio settecentesco, cornicioni riccamente ornati, rosoni decorati in foglia d’oro, alte finestre a ghigliottina con vista sul cortile dell’Inner Temple e sulla parte piú antica, a pianta rotonda, della chiesa costruita dai templari.
È il mio mondo. Arcaico, anacronistico, elitario, esclusivo. Un mondo che dovrei, che mi verrebbe spontaneo detestare. Eppure lo adoro. Lo adoro perché di tutto questo – questo nido di vecchi palazzi che digradano verso il fiume al limitare della City; questo sfarzo, questa rigida gerarchia, questi simboli di prestigio sociale e di antiche tradizioni – una volta ignoravo persino l’esistenza. Non avrei mai creduto possibile aspirare a tanto. Il che dimostra quanta strada ho fatto.
Ecco perché, se vado a prendere un cappuccino da sola, porto sempre una tazza di cioccolata calda – con qualche bustina di zucchero in piú – alla ragazza che si rannicchia dentro il sacco a pelo, ingobbita nel vano di un portone. La sua presenza sarà sfuggita a molti. I senzatetto sono bravi a fingersi invisibili, o forse siamo noi che li rendiamo tali; distogliamo lo sguardo dalle coperte color kaki, dalle facce grigie e dai capelli arruffati, dai corpi insaccati nei maglioni troppo larghi, dai cani altrettanto macilenti, e sgambettiamo veloci verso i lussuosi miraggi di Covent Garden o i frissons culturali del South Bank.
Ma bazzicate per qualche tempo un tribunale e capirete quanto la vita possa essere precaria. Con quanta rapidità il vostro mondo possa andare in pezzi, se solo fate la telefonata sbagliata; se per un unico, fatale attimo, violate la legge. O meglio: se violate la legge e siete poveri. Perché i tribunali e gli ospedali sono poli d’attrazione per chi dalla vita ha avuto solo carte brutte; per chi si è scelto gli amici o i compagni sbagliati e va sempre piú a fondo nelle cattive acque, fino a perdere la bussola morale. I ricchi se la cavano un po’ meglio. Prendete l’elusione fiscale: basta operare in proprio, senza i servigi di un bravo commercialista, ed ecco che diventa evasione. La sfortuna, o la poca furbizia, si accanisce di piú contro i poveri.
Stasera ho le paturnie, come no. Me ne accorgo quando comincio a ragionare come un politico alle prime armi. Le mie idee da lettrice del «Guardian» me le tengo quasi sempre per me. Essendo poco in linea con quelle dei miei colleghi piú tradizionalisti, scatenerebbero discussioni infuocate durante le cene ufficiali, tra una portata e l’altra del solito catering da matrimonio – pollo, salmone in crosta – innaffiato da vini altrettanto mediocri. Molto meglio attenersi ai pettegolezzi di lavoro: il pubblico ministero semi disoccupato che vuole fare domanda come giudice del tribunale penale; il prossimo candidato alla toga di seta, o l’avvocato che in aula ha strapazzato un usciere. Ormai so inserirmi in certe conversazioni senza smettere di pensare alle beghe professionali che mi aspettano, ai miei problemi personali, addirittura alla spesa per il giorno dopo. Con diciannove anni di esperienza, so integrarmi a meraviglia. Sono una vecchia volpe.
Ma nel rifugio sicuro delle mie sacre stanze riesco ogni tanto a lasciarmi andare, appena un pochino: e cosí, per un minuto, appoggio i gomiti sulla scrivania di mogano e mi reggo la testa tra le mani, poi serro le palpebre e premo forte le nocche sulle orbite. Dopo un po’ vedo le stelle: bianche punture di spillo che bucano il buio e risplendono come i diamanti dell’anello che mi sono comprata da sola, perché nessuno l’avrebbe fatto per me. Meglio vedere le stelle che arrendersi alle lacrime.
Ho appena perso una causa. So benissimo che entro lunedí avrò elaborato il senso di sconfitta, che ci sarò passata sopra perché ho altri casi da seguire, altri clienti da rappresentare; ma per adesso mi brucia. Non capita spesso, e non ammetto volentieri una disfatta, perché mi piace vincere. Be’, piace a chiunque. È naturale, no? Devi brillare, se vuoi far carriera. In un sistema giudiziario accusatorio, è cosí che funziona.
Ricordo ancora lo shock di quando mi aprirono gli occhi su questa verità, all’inizio del praticantato. Ero entrata in avvocatura con grandi ideali (alcuni li serbo ancora, non mi sono stufata del tutto), e una rivelazione cosí brutale non me l’aspettavo proprio.
«La verità è un concetto sfuggente. Giusto o sbagliato che sia, un sistema giudiziario accusatorio non si pone come obiettivo la ricerca della verità». Cosí disse Justin Carew, patrocinante per la Corona, a noi ventenni neolaureati ancora freschi di Oxford, Cambridge, Durham e Bristol. Fare l’avvocato significa essere piú persuasivi del vostro avversario, spiegò. Si può vincere anche con tutte le prove a sfavore, se si è piú bravi ad argomentare. E l’importante è vincere, si sa.
A volte però, in barba a tutte le tue arti persuasive, va a finire che perdi: a me capita sempre quando un testimone si rivela inaffidabile e una deposizione ottiene l’effetto contrario a quello previsto; oppure, nel controinterrogatorio, la sua storia si disfa come un gomitolo di lana tra le zampe di un gattino e genera un ammasso di contraddizioni, che piú cerchi di scioglierlo e piú si ingarbuglia.
Esattamente quel che è successo oggi, durante l’udienza del caso Butler. Un processo per stupro in un torbido contesto di violenze domestiche: Ted Butler e Stacey Gibbons, quattro anni di vita insieme e quasi altrettanti di botte.
Sapevo fin dall’inizio che avevamo poche chance. Le giurie non esitano mai a condannare lo stupratore che pesca nel mucchio, il classico orco in agguato nel vicolo buio; ma se si tratta di violenza sessuale coniugale, allora no grazie, preferiscono non sapere.
Io di solito penso che i giurati ci azzecchino sempre, ma questa volta non è andata cosí. Ogni tanto mi sembra che ragionino come ai tempi della regina Vittoria: dietro l’uscio di casa, tutto quel che succede fra te e tua moglie, o la tua compagna, è una faccenda privata. In effetti c’è un che di indecente nello scavare cosí a fondo la vita di una coppia: come quando devi chiedere a una moglie cosa indossa quando va a letto (una maglietta fuori misura comprata al supermercato) o ti senti raccontare che dopo il sesso lui si accende sempre una sigaretta, anche se lei soffre d’asma e le manca il respiro. In questi casi penso sempre al pubblico seduto in galleria: perché vengono a sentire certe tristezze? Forse le trovano piú avvincenti di una telenovela: e come dargli torto? Sono storie di persone vere, e vero è anche il pianto della testimone, per fortuna invisibile dalla galleria, perché c’è un tramezzo che protegge l’identità della moglie e le risparmia di guardare in faccia il suo presunto aggressore: il tipo dal collo taurino e dagli occhi porcini che affida a un completo da due soldi (camicia e cravatta nere) l’incarico di rappresentare la sua minacciosa idea di rispettabilità e guarda tutti in cagnesco da dietro il vetro antisfondamento.
Perciò sembra sconcio e morboso. Indiscreto. Ma le faccio comunque, le domande; vado comunque a rovistare nei momenti piú cruciali e spaventosi della vita di Stacey, perché giú nel profondo, malgrado ciò che disse l’eminente principe del foro, io voglio ancora arrivare alla verità.
E poi il difensore tira fuori l’argomento del porno. Cosa che può fare soltanto perché il giudice ha accolto un’istanza in cui si faceva notare la somiglianza tra i fatti avvenuti e una scena del dvd che stava sul comodino di casa Butler. «Non è forse possibile, – chiede il mio dotto collega Rupert Fletcher, con la sua voce profonda e imperiosa, – che sia stato soltanto un gioco sessuale che ora la querelante ricorda con un certo imbarazzo? Una fantasia andata un po’ troppo oltre? In quel dvd si vede una donna legata nello stesso modo di Miss Gibbons: al momento della penetrazione, Ted Butler può aver creduto che la sua compagna fosse ancora consenziente a una fantasia di cui avevano parlato poco prima. Che stesse ancora recitando una parte che aveva liberamente accettato di assumersi».
Il mio avversario fornisce altri dettagli sul contenuto del dvd; poi allude al testo di un messaggio in cui Stacey ammette di averlo trovato «eccitante». Noto la smorfia di disgusto sulla faccia di un paio di giurati – per esempio la donna di mezza età che si è messa elegante per venire in tribunale ma che forse si aspettava un processo per furto o per omicidio, e invece si trova ad assistere a un dibattito che le apre molto bene gli occhi su certe cose – e capisco che la loro compassione per Stacey sta svanendo come un’onda che si ritira sulla battigia.
«Lei ha concepito delle fantasie sessuali in cui veniva legata, vero? – domanda Rupert. – Ha fatto sapere al suo compagno, tramite sms, che le sarebbe piaciuto provare».
I singhiozzi di Stacey si riverberano nell’aula senza finestre. Poi lei ammette, con un «Sí» appena udibile, e da quel momento in poi non fa nessuna differenza che Ted l’abbia quasi soffocata mentre portava a compimento la violenza, o che Stacey si sia procurata delle escoriazioni sui polsi mentre lottava per liberarsi: bruciature da contatto con le corde che ha avuto l’accortezza di fotografare con il suo iPhone. Da quel momento in poi, è tutta discesa.
Mi verso una dose di whisky dal decanter sulla credenza. Non mi capita spesso di bere al lavoro, ma è stata una lunga giornata e ormai sono passate le cinque. È calato il crepuscolo – le nubi sono accese di oro e color pesca, il cortile sembra fin troppo grazioso – e ho sempre pensato che, quand’è buio, un po’ di alcol è concesso. Il single malt scende in fondo alla gola, mi scalda l’esofago. Chissà se Rupert sta festeggiando la vittoria nella vineria di fronte al tribunale. Le escoriazioni, il tentativo di soffocamento, il sorriso furbesco sulla faccia del suo cliente mentre ascoltava il verdetto: secondo me ha sempre saputo che Butler era colpevole come Giuda, ma una causa vinta è una causa vinta. Con tutto ciò, se a me toccasse in sorte di difendere un simile individuo avrei la decenza di non gongolare, figuriamoci poi di stappare una bottiglia di Veuve e dividerla con il mio assistente. Come ho detto, però, ci sono clienti che preferisco non difendere. Sarà anche utile alla reputazione professionale, ma non voglio sporcarmi la coscienza rappresentando persone che sospetto essere colpevoli. Per questo preferisco sostenere l’accusa.
Perché io sto dalla parte della verità, non solo dalla parte di chi vince: se credo a un testimone, vuol dire che ci sono prove sufficienti per intentare un processo. Ed è per questo che ci tengo a vincere. Non per il gusto della vittoria in sé, ma perché sto dalla parte delle Stacey Gibbons di questo mondo e di tutte le vittime di violenze meno dubbie e piú brutali: la bambina di sei anni abusata dal nonno, l’undicenne sodomizzato dal capo scout, la studentessa costretta a fare sesso orale l’unica notte in cui fa l’errore di rincasare da sola. Sí, soprattutto lei. Nella giustizia penale, il criterio di valutazione delle prove è severo: il reato va attribuito al di là di ogni ragionevole dubbio, non in base a un calcolo probabilistico come avviene nei processi civili. Questo spiega perché oggi Ted Butler sia uscito libero dall’aula. C’era il seme del dubbio, la possibilità ventilata dalla voce caramellosa di Rupert: una donna come Stacey (che forse ai giurati sarà parsa volgare) avrebbe potuto acconsentire a un rapporto sessuale violento per poi decidere di rivolgersi alla polizia solo due settimane piú tardi, dopo aver scoperto una scappatella di Ted. La possibilità che fosse traumatizzata o provasse vergogna, che avesse paura di non essere creduta o di fare una figuraccia in tribunale, come in effetti è avvenuto, non è stata neanche presa in considerazione.
Riempio ancora il pesante bicchiere di cristallo, aggiungo qualche goccia d’acqua. Due bicchieri sono il mio limite, e lo rispetto. Sono un tipo disciplinato. Devo esserlo per forza, perché se bevo di piú mi intontisco. Forse è ora di andarsene, ma in questo momento non ho una gran voglia di tornare al mio lindo quadrilocale. Non che mi dispiaccia vivere da sola: anzi. Sono troppo testarda per tener vivo un rapporto; troppo gelosa dei miei spazi, troppo egoista, troppo polemica. Mi godo la mia solitudine, o meglio il non dover assecondare le esigenze di nessun altro quando ho la testa in fermento perché sto preparando una causa, o sono stanca morta perché ne ho appena chiusa una. Ciononostante, quando perdo mi accorgo di patire il silenzio compatto e indulgente della casa. Non mi va di stare sola a rimuginare sulle mie inadeguatezze professionali e personali, perciò tendo a fermarmi in studio fino a tardi, e quando i miei colleghi che hanno famiglia se ne sono andati da un pezzo la mia lampada è ancora accesa, e io sono ancora qui a sfogliare i miei faldoni, in cerca della verità e di un’idea per vincere.
I tacchi delle mie colleghe battono sul legno della scala settecentesca, e mi arriva un gorgogliare di risate. È un venerdí sera di inizio dicembre, c’è aria di Natale, e il sollievo per la fine di una lunga settimana di lavoro è quasi tangibile. Non raggiungerò i miei colleghi al pub. Ho una faccia che è tutta un poema, come direbbe mia madre, e per oggi ho già recitato abbastanza. Non voglio che gli altri si sentano in dovere di rasserenarmi, di dirmi che ci sono altre cause per cui combattere, che i processi per violenza domestica sono già persi in partenza. Non voglio dover sorridere mentre dentro sto dando in escandescenze; non voglio che la mia rabbia inacidisca l’atmosfera. Tanto piú che ci sarà anche Richard, il mio ex supervisore e amante occasionale: molto occasionale negli ultimi tempi, dato che sua moglie Felicity è venuta a sapere di noi e io non ho nessuna intenzione di scuotere, tanto meno distruggere, il loro matrimonio. Non voglio far pena a Richard.
Qualcuno bussa con decisione alla mia porta: il brusco toc-toc-toc dell’unica persona che sopporterei di vedere in questo momento. Brian Taylor è il mio segretario da diciannove anni, dal primo giorno in cui sono entrata in questo studio al numero 1 di Swift Court. Qu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Anatomia di uno scandalo
  4. 1. Kate. 2 dicembre 2016
  5. 2. Sophie. 21 ottobre 2016
  6. 3. Sophie. 22 ottobre 2016
  7. 4. James. 31 ottobre 2016
  8. 5. Kate. 31 ottobre 2016
  9. 6. James. 1º novembre 2016
  10. 7. Kate. 9 dicembre 2016
  11. 8. Holly. 3 ottobre 1992
  12. 9. Holly. Autunno 1992
  13. 10. Holly. Autunno 1992
  14. 11. Sophie. 13 dicembre 2016
  15. 12. Kate. 24 aprile 2017
  16. 13. Kate. 25 aprile 2017
  17. 14. Sophie. 25 aprile 2017
  18. 15. Holly. 16 gennaio 1993
  19. 16. Kate. 26 aprile 2017
  20. 17. James. 16 gennaio 1993
  21. 18. Kate. 26 aprile 2017
  22. 19. Holly. 5 giugno 1993
  23. 20. Holly. 19 giugno 1993
  24. 21. Ali. 26 aprile 2017
  25. 22. Kate. 27 aprile 2017
  26. 23. Sophie. 27 aprile 2017
  27. 24. Kate. 27 aprile 2017
  28. 25. Sophie. 28 aprile 2017
  29. 26. Kate. 28 aprile 2017
  30. 27. Kate. 1º maggio 2017
  31. 28. Sophie. 1º maggio 2017
  32. 29. Sophie. 2 maggio 2017
  33. 30. Kate. 26 maggio 2017
  34. 31. Sophie. 22 luglio 2017
  35. 32. Sophie. 3 ottobre 2017
  36. 33. James. 5 giugno 1993
  37. 34. Sophie. 3 ottobre 2017
  38. 35. Kate. 7 dicembre 2018
  39. Nota al testo
  40. Nota dell’autrice
  41. Ringraziamenti
  42. Il libro
  43. L’autrice
  44. Copyright