Ci sono tracce? O sento solo io i perduti, gli stranieri,
i prigionieri tempestati di spine, le loro voci
murate in questi templi i loro lividi prima neri poi gialli
sulle pelle delle colonne, il sangue
rappreso mentre le fontane spalancano le fauci
indisturbate dalle feci di cavalli e cani.
Rileggendo Tacito durante questa estate di massacri
il conforto veniva dal latino, la nudità dei fatti,
l’assenza o quasi di aggettivi,
il gerundio che evita inutili giri di parole.
Confrontando la traduzione con l’originale,
il testo italiano colava piú lentamente sulla pagina.
In giorni pieni d’insegne levate in diversi schieramenti
la sintassi agiva come un laccio emostatico,
frenava enfasi e lacrime.
Sestilia, la madre dei Vitelli, non esultò ci dice Tacito,
mai per la fortuna, sentí soltanto le sventure familiari.
Il grigio libro di Tacito
scritto quando il suo autore aveva sessant’anni
dice soltanto ciò che deve. Sul grigio orizzonte
degli Annales non c’è posto per i paesaggi o per l’amore:
Ci cura questa forma lapidaria:
«La radicata cupidigia dei mortali,
i premi ai delatori non meno abominevoli dei crimini,
il metallo che decreta l’oro».
Oggi penso ai due dei tanti morti affogati
a pochi metri da queste coste soleggiate
trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati.
Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo
e cosa ne sarà del sangue dentro il sale.
Allora studio – cerco tra i vecchi libri
di medicina legale di mio padre
un manuale dove le vittime
sono fotografate insieme ai criminali
alla rinfusa: suicidi, assassini, organi genitali.
Niente paesaggi solo il cielo d’acciaio delle foto,
raramente una sedia, un torso coperto da un lenzuolo,
i piedi sopra una branda, nudi.
Leggo. Scopro che il termine esatto è livor mortis.
Il sangue si raccoglie in basso e si raggruma
prima rosso poi livido infine si fa polvere
e può – sí – sciogliersi nel sale.
Potrebbero essere a caccia – ma non portano fucili
avanzano con cautela dentro gli uliveti
se sono stanchi dormono
appoggiando la schiena contro i muri.
La città è crollata, da qui non si vede piú il bagliore
tra le case – non stoppie, ma micce,
con brande arroventate, e pneumatici in fiamme.
Potrebbero essere a caccia, se avessero un luogo
dove ritornare, coperte per le ossa e un fuoco
in un camino, fuoco vero non quello che hanno chiamato
fuoco-amico, ignaro come quello nemico di bambino.
I.
Pensa i morti e questi vivi che vanno verso casa
tra la pioggia e i lampioni, osservali
solo per un momento quando i gesti si fermano
dentro il suono del traffico e dei tuoni,
seguili nelle stanze ora dense di offese,
ora di amore, atomi che pensiamo perdurino
e che invece si perdono nel vuoto
che ci scuote al vento delle stelle e dei pianeti.
II.
La pelle delle mani sfavilla vicino alla fiamma dei fornelli
le parole sulla carta troppo povere
chiedono un lavoro immediato. Impegnarsi
a preparare il mattino come si prepara il caffè
premere polvere nera sull’acciaio,
per poi soffiare sull’amaro.
Nella radio ronza l’inferno.
Tendo l’orecchio a Morte, a come arriva.
Sparano alle grandi porte dell’Est
raccolgono corpi nei mercati del Sud.
III.
Dalla finestra osservo l’acacia ancora nera, le luci
ancora accese del Gasometro. Il ferro, l’aria, il legno,
gli esseri umani che fendono la notte
fissi verso il loro futuro
mentre rifanno i letti e accendono il gas nelle cucine.
Come si spalancano le case, come diventano scarlatte
prima di spegnersi al mattino, come si riempiono
di mani e braccia che si toccano,
come dentro quest’ora:
8:00
scendiamo in ascensore
ignari del libeccio sulle coste,
dei corpi già stretti nelle tele cerate e nella juta.
10:00
La radio manda in onda un concerto di Bach
il solo sembra che permetta anche ascoltando,
di montare le tende su una scala o cucinare,
concentrandoci dunque nonostante il piacere.
Eppure il cranio può colmarsi di lacrime
o il sangue colare giú dalle narici.
Sono avvisi del cor...