Il pensiero politico medievale
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Il pensiero politico medievale

  1. 248 pagine
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Superando sia i secolari pregiudizi negativi su un presunto medioevo tenebroso, sia certe rivalutazioni troppo convenzionali e rapide, che a volte caratterizzano l'interesse per il pensiero medievale, il libro di Gianluca Briguglia propone una lettura delle teorie politiche medievali nel loro contesto proprio. Ne scaturisce un'introduzione originale e plurale al pensiero politico del medioevo (XII-XV secolo), in cui i maestri delle università e i teologi, ma anche gli intellettuali delle città, i laici, perfino i traduttori dei testi latini nelle lingue volgari rispondono ai problemi del loro presente ricollocando teorie del passato, modificando idee ricevute, costruendo orizzonti teorici del tutto nuovi. Per questo il volume non solo tratta idee e teorie di autori classici, da Tommaso d'Aquino a Marsilio da Padova, ma include autori spesso neppure menzionati in opere di questo tipo, e la cui importanza va ormai riconosciuta, come nel caso di un Brunetto Latini, di un Tolomeo da Lucca o di un Giacomo da Viterbo, e soprattutto ricostruisce contesti concettuali capaci di rendere piú approfondita e ampia la conoscenza del pensiero medievale, come nel caso delle «ecclesiologie politiche», dell'importanza delle lingue volgari, degli intrecci tra post-aristotelismo e ispirazioni guelfe o ghibelline.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858429716
Capitolo primo

Il Policratico di Giovanni di Salisbury

Platone, avendo veduto il tiranno di Siracusa Dionisio tutto circondato dalle sue guardie del corpo, gli chiese: «Che hai fatto di cosí male da aver bisogno di una simile protezione?»
Policraticus, I, 8.

1. Un intellettuale per la politica.

La politica esisterebbe anche se non ci fosse la filosofia (e infatti essa è esistita ben prima che i filosofi greci se ne interessassero), è ovvio, e le dinamiche del potere e della vita comune opererebbero comunque. Ma la riflessione su queste dinamiche e su queste pratiche ne cambia il volto, perché svelandone la natura contribuisce a riconoscerle, a difendersene, a utilizzarle, a modificarle, a nominarle. Cosí il pensiero sulla politica diventa a sua volta politica, parte attiva di una vicenda, diventa una forma nuova della realtà che è produttrice ulteriore di realtà.
Tra le molte forme di queste realtà, che esploreremo nel libro, quella di Giovanni di Salisbury (1120 ca. - 1180), nel suo Policratico, ossia delle vanità di curia e degli insegnamenti dei filosofi1, opera originale già nel neologismo del suo titolo, è un ottimo e significativo punto di partenza, che presenta molte peculiarità.
Giovanni è nato attorno al 1120, lo si ipotizza dalla data dell’inizio presunto dei suoi studi superiori, in una Salisbury che non coincide esattamente con la stessa città che oggi porta quel nome e che doveva però essere una città di una qualche importanza culturale, probabilmente fornita di scuole – fu forse qui che Giovanni ebbe una prima formazione – e centro di produzione di manoscritti2. Giovanni doveva appartenere a una famiglia di non eccelsa condizione economica3. Di certo non gli manca una forte propensione allo studio se, nel 1136, decide di andare a studiare a Parigi presso il piú famoso e ambizioso filosofo del suo tempo, Abelardo. In quel tempo Abelardo era molto noto per i suoi studi logici e anche, già, per il suo stile battagliero e polemico, per le sue concezioni razionaliste e per il suo porsi nel dibattito filosofico come in un agone pubblico, senza lasciare tregua agli avversari. Giovanni studia anche con il maestro Roberto di Melun, che in certo modo succede ad Abelardo alla scuola della collina di Saint-Geneviève a Parigi e che difenderà per la sua dottrina teologica quando i tempi si faranno difficili e i molti nemici di Abelardo prevarranno.
Non meno famosi di Abelardo sono però a quel tempo i filosofi di Chartres. Bernardo, di cui Giovanni sente parlare almeno da Teodorico di Chartres, che ne era il fratello minore, e da Guglielmo di Conches, rappresenta per lui una figura ideale di sapiente e filosofo. L’insegnamento degli «chartriani» Teodorico e Guglielmo può aver avuto luogo per Giovanni forse ancora nella città di Parigi, che sta per diventare il centro intellettuale e filosofico piú importante d’Europa, o forse, piú probabilmente, nella stessa Chartres, che aveva dato vita a un’incredibile novità di indirizzi interpretativi nella filosofia naturale, nella teologia e soprattutto nelle tecniche ermeneutiche. Ancora oggi il portale della cattedrale di Chartres presenta i segni chiari di quel rinnovamento e della centralità che la cultura filosofica e scientifica doveva avere anche nella ricerca di Dio e della sua opera. Sono infatti scolpite e personificate le scienze del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), come a rappresentare un percorso di sapienza filosofica che conduce a Cristo, al centro.
Con lo stesso Teodorico e con Adamo du Petit-Pont, Giovanni studia la grammatica e il quadrivio e ancora la logica con Gilberto di Poitiers. Insomma, Giovanni è un intellettuale che si forma con le migliori menti della sua generazione e rappresenta bene il percorso classico di un giovane brillante di quel suo tempo che alcuni hanno definito il «Rinascimento del XII secolo»4. Giovanni assorbe le novità degli orientamenti degli ambienti filosofici che frequenta (e il suo percorso di studi superiori si estende per almeno un decennio, dal 1137 al 1147) e trae profitto dalle nuove logiche e dalle nuove scienze teologiche che in quegli anni vanno formandosi.
Giovanni di Salisbury si sente inoltre estraneo a qualsiasi formalismo, a qualsiasi concezione della filosofia come esercizio fine a se stesso. Lo capiamo da quanto scrive nel Metalogicon, nel quale ci informa di molte dottrine e polemiche contemporanee, e con il quale difende la logica come strumento per comprendere il pensiero e la realtà, e l’eloquenza che ci dà accesso alla socialità. Giovanni è tuttavia convinto che l’unica pista filosofica sicura, benché stretta, sia quella del probabilismo, che ha in Cicerone la fonte d’ispirazione principale5. Nel Policraticus Giovanni scrive: «[…] a proposito di questioni filosofiche, ho sempre cercato di orientarmi secondo soluzioni probabilistiche in ciò seguendo i modelli degli Accademici. Non mi vergogno affatto di questa mia professione d’accademico, dato che il mio criterio è stato appunto quello di seguire, in tutto quanto il sapiente ritiene soggetto al dubbio, il sentiero tracciato da loro […]. Sicché, in tutte quelle questioni di cui incidentalmente tratto – la provvidenza, il fato, il libero arbitrio e simili – sappi che mi sono comportato piuttosto da accademico che da temerario definitore di tutti quei problemi che rimangono avvolti nel dubbio […]»6.
Giovanni entra presto al servizio dell’abate Pietro di Celle, che forse lo presenta addirittura a Bernardo di Clairvaux. È comunque proprio Bernardo di Clairvaux che lo raccomanda all’arcivescovo di Canterbury, Teobaldo, nel 1147. Giovanni ne diventa segretario e consigliere ascoltato. Per conto della sede di Canterbury, Giovanni viaggia spesso in Italia, dove entra in contatto col futuro Adriano IV, anch’egli inglese, e con la corte di Sicilia. Giovanni insomma si orienta verso una carriera di funzionario ecclesiastico e diplomatico. È in questa veste che urta le attese di re Enrico II d’Inghilterra. Il re inglese si aspettava infatti da lui un aiuto nei negoziati con il papa rispetto alla cosiddetta questione irlandese. Il re vorrebbe un riconoscimento pieno della sua giurisdizione sull’Irlanda, mentre il papa, per interessamento di Giovanni di Salisbury, accondiscende sí al disegno inglese di conquista, ma dichiarando l’Irlanda feudo papale. Gli Inglesi potranno dunque conquistarla, però saranno giuridicamente dipendenti da Roma7.
È forse in questo urto col re che Giovanni si prende il tempo di scrivere il Policraticus, dedicandolo al cancelliere del re, cioè a quel Thomas Becket che di lí a poco diventerà arcivescovo di Canterbury e che confermerà Giovanni nel suo ruolo di consigliere.
Nel 1164, con le famose Costituzioni di Clarendon, Enrico II limita la giurisdizione papale in Inghilterra, eliminando anche alcuni privilegi del clero, per esempio quello di non poter essere giudicato da una corte civile. Thomas Becket, ormai arcivescovo, assume una posizione molto dura, che scatena la reazione del re, determinerà l’esilio di Becket – e di Giovanni di Salisbury al suo seguito – e un rientro nel 1170 dopo anni di tensioni drammatiche che finirà con l’omicidio di Becket nella cattedrale di Canterbury da parte di alcuni cavalieri del re. La forza dell’avvenimento costringerà il re a riconoscere l’errore e a riconciliarsi con la Chiesa, che farà di Becket un martire e santo. Nel 1176 Giovanni, fuori dall’Inghilterra, assume il suo incarico piú importante: diventa vescovo di quella Chartres che probabilmente l’aveva visto studente quasi quarant’anni prima.

2. La politica come umanesimo.

«Sono ormai quasi dodici anni che vivo immerso in questa miseria e mi vergogno e mi pento, indirizzato com’ero a ben altro e quasi allattato dal santo petto della filosofia, d’aver aderito, una volta svezzato, non già, com’era giusto, al collegio di chi fa filosofia, ma a quello dei cialtroni (collegia nugatorum8. Una dozzina d’anni dopo aver cominciato la propria carriera di funzionario e consigliere politico, Giovanni di Salisbury, nel 1159, si dedica a un’ampia riflessione sulla politica e sugli uomini di potere.
Con una punta di nostalgia per l’attività filosofica che lo aveva appassionato nei molti anni della sua formazione, sembra avvertire il bisogno di una cesura, di una messa a punto originale e personale delle proprie esperienze e delle proprie osservazioni. Si tratta però di una riflessione che Giovanni compie con l’aiuto di un’ampia cultura, di un continuo rifarsi a fonti classiche, bibliche, storiche, patristiche e filosofiche.
Questa pluralità di fonti nutre una visione del potere che è anche un’apertura alla politica come umanesimo e alla cultura come spazio politico. Si tratta di equilibri instabili e creativi, sempre in bilico tra il grottesco e l’armonia delle azioni umane. Quando Giovanni afferma che il re ignorante (o il governante, l’ecclesiastico, il cortigiano) è un «asino coronato»9, attribuendo questa massima all’imperatore Corrado III di Svevia, non vuole fare del moralismo, ma intende porre il problema del rapporto tra politica e cultura come baricentro di un’attività di governo funzionante.
La violenza e la forza non bastano per governare un regno, per guidare una corte, per organizzare una burocrazia e dirigere un popolo.
L’amore per le lettere di Filippo il Macedone, a cui si deve la potenza del suo popolo, «viene descritto [nelle Notti attiche di Aulio Gellio] con lo stesso calore col quale si parla delle sue vicende di guerra, dei suoi trionfi, della liberalità con la quale gestí i suoi conviti, della sua umanità»10 e tale amore fu trasmesso al figlio Alessandro Magno. E Roma cominciò a declinare quando i suoi imperatori persero la coscienza dell’importanza della cultura: «Non mi risulta che imperatori o condottieri romani, sino a quando la loro repubblica fu fiorente, fossero degli illetterati; e fu proprio anzi quando la cultura cominciò a languire che cominciò a venir meno la stessa forza militare di Roma quasi che il potere fosse stato reciso alle radici. Non c’è da stupirsi, ché nessun principato può durare o perfino esistere senza sapienza perché la sapienza di Dio ha detto: nulla potete fare senza di me»11.
La sapienza, come l’azione politica, dev’essere infatti anche studio dei comportamenti umani, comprensione delle dinamiche etiche e sociali. Giovanni dà soprattutto espressione all’ambivalenza delle manifestazioni del potere, all’oscillazione costante fra opzioni, alla presenza continua di una duplicità dei fenomeni politici.
Il doppio registro è presente fin dal sottotitolo dell’opera – le vanità di curia, o meglio, «degli uomini di corte», e gli insegnamenti dei filosofi – che delinea i due poli entro cui la politica si inscrive. Da un lato le vanità, le sciocchezze, le inconsistenze degli uomini che gravitano attorno al potere e se ne nutrono, che sono gli appartenenti «al collegio dei cialtroni» (nugatores). Questo tipo di rapporto con il potere è diffuso in tutti gli ambienti, in tutte le curie, e in ogni relazione sociale a qualsiasi livello: «Non c’è luogo ove non siano sciocchezze (nugis) […]: regnano sia nella Chiesa che nelle sale dei ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il pensiero politico medievale
  4. Introduzione
  5. 1. Il Policratico di Giovanni di Salisbury
  6. 2. Brunetto Latini. Pensare il Comune
  7. 3. Le idee politiche post-aristoteliche. Da Tommaso d’Aquino a Dante Alighieri
  8. 4. La crisi del 1300 e l’emergere delle ecclesiologie politiche
  9. 5. Modelli di un mondo nuovo
  10. 6. Di nuovo la tempesta
  11. 7. Dall’impossibile riforma al grande scisma
  12. 8. Gli anni di Carlo V
  13. Bibliografia
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Copyright