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Come reagire agli allarmi ambientali

  1. 272 pagine
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Come reagire agli allarmi ambientali

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Siamo un pezzo di natura, lo dice la scienza ecologica, e se la natura si degrada anche noi facciamo la stessa fine. Partiamo da dove posiamo i nostri piedi. Ogni secondo in Italia spariscono sotto cemento e asfalto 2 metri quadrati di suolo. Eppure il suolo è la nostra assicurazione sul futuro, per produrre cibo, per filtrare l'acqua, proteggerci dalle alluvioni, immagazzinare CO2. La sua perdita irreversibile è un grave danno per noi e per figli e nipoti. Tanto piú in epoca di riscaldamento globale che, inducendo fenomeni meteorologici estremi - alluvioni, siccità, ritiro dei ghiacciai e aumento dei livelli marini - minaccia il benessere dei nostri figli e nipoti. Eppure ci sono molti modi per risparmiare energia evitando di aggravare l'inquinamento atmosferico o per non sprecare inutilmente le risorse naturali che scarseggiano mettendo a rischio il futuro. Mercalli lo dice e lo scrive da oltre vent'anni, e propone qui un compendio di riflessioni, prendendo lezioni di metodo e di vita da Primo Levi.

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Informazioni

PARTE QUINTA

La febbre globale: meglio prevenire che curare

La lama climatica.

Vediamo un esempio per capire la variabilità climatica naturale e la tendenza a lungo termine. In una sega, i denti che vanno su e giú rappresentano la variabilità tra un anno e l’altro, quelli in su piú caldi, quelli in giú piú freddi, ma se il clima è stabile, la lama resta orizzontale e in media il clima non cambia. Se un fattore nuovo disturba l’atmosfera, come i gas serra, tutto il sistema cambia e sotto la variabilità si inserisce una tendenza, ovvero la lama si inclina: questo è il riscaldamento globale. Noi siamo sull’estremità alta della lama, il 2016 è stato l’anno piú caldo almeno dal 1850, superando il 2015 e il 2014, lo confermano i dati della Nasa, della Noaa, l’Ufficio meteo britannico e quello giapponese. Però quando il dente ogni tanto va giú, il piccolo osservatore locale non vede l’intera lama e crede di trovarsi nell’era glaciale: provincialismo climatico.

Ghiacciai, sentinelle climatiche.

Era il settembre 1986 quando iniziai a misurare le variazioni del ghiacciaio Ciardoney, nel Parco nazionale del Gran Paradiso. In quegli anni i ghiacciai alpini uscivano da una breve fase di modesta avanzata, frutto d’un gruppo di estati fresche e nevose, e tornavano a ridursi come stavano già facendo prima del 1972. Fino al 1997 osservammo il ghiacciaio Ciardoney arretrare, ora piú, ora meno. Il suo bilancio di massa – cioè il valore che ne quantifica lo stato di salute – era inferiore a un metro di perdita di spessore all’anno. Poi giunse la calda estate 1998, che associata a un inverno poco nevoso fece perdere al Ciardoney oltre tre metri di spessore. Il fenomeno si ripeté nella torrida estate 2003, la piú calda da oltre due secoli, allorché il ghiacciaio perse altri tre metri di spessore. Da allora la riduzione si è accelerata, ogni anno camminiamo su un ghiacciaio che si abbassa almeno di un paio di metri, in un desolato paesaggio che lascia sempre piú spazio alle pietraie. Sembra proprio che in questo ultimo decennio vi sia stata una frattura dell’equilibrio climatico, con anomalie del tutto nuove: dopo l’estate 2003, l’autunno 2006, il piú caldo a scala europea da quando abbiamo misure, cosí come l’inverno successivo, che in molte zone delle Alpi è stato anche il meno nevoso, e poi l’aprile 2007, eccezionalmente caldo al punto da spazzare i precedenti record di circa 3 °C – statisticamente parlando un’enormità – seguito da maggio, collocatosi nei primi dieci casi piú caldi. Una serie di anomalie che diventano difficilmente giustificabili rispetto alla variabilità naturale del clima. Un capriccio climatico locale è sempre possibile, anche senza invocare il riscaldamento globale, ma tanti, frequenti, su grandi regioni del globo e orientati nello stesso senso, allora ecco che i sospetti cominciano a farsi realtà. Del resto i sospetti datano già dal 1896, quando Svante Arrhenius, lo svedese Nobel per la chimica, fu il primo a sostenere che bruciando carbone l’umanità avrebbe contribuito ad aumentare la temperatura della Terra. Allora la CO2 atmosferica ammontava a 294 parti per milione. I suoi calcoli furono confermati nel 1931 dal fisico americano Edward O. Hulburt del Naval Research Laboratory, sebbene a questa notizia non seguisse alcuna reazione. Nel 1938, l’ingegnere inglese Guy Stewart Callendar pubblicò uno studio nel quale affermò che l’aumento della temperatura causato dalla CO2 era già misurabile dagli osservatori meteorologici, ma molti misero in dubbio la qualità delle misure. Nel 1956, Gilbert Plass, fisico canadese esperto in spettroscopia degli infrarossi, avvertí la comunità scientifica del rischio di riscaldamento globale: «Se alla fine di questo secolo le misurazioni mostreranno che il contenuto di anidride carbonica dell’atmosfera sarà cresciuto significativamente e nello stesso tempo la temperatura avrà continuato ad aumentare in tutto il mondo, sarà definitivamente dimostrato che l’anidride carbonica è un importante fattore del cambiamento climatico». La CO2 era intanto salita a quota 313 parti per milione. Vennero quindi consolidate le misure sistematiche di concentrazione di CO2 atmosferica da parte di Roger Revelle, Hans Suess e Charles Keeling che dimostrarono il continuo incremento dei gas serra a partire dal 1958. Gli anni 1960-70 furono però freddi e misero in dubbio queste pionieristiche ricerche, anche se nuovi dati sul possibile riscaldamento emergevano via via, come il primo modello di simulazione matematica del clima che Syukuro Manabe del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory di Princeton, pubblicò nel 1967. Bisognerà attendere i calori dei primi anni 1980 perché il problema dei cambiamenti climatici di origine antropica torni sulla scena con rinnovata importanza grazie al contributo di climatologi come Stephen Schneider e Jim Hansen, fino alla costituzione da parte dell’Onu dell’Intergovernmental Panel on Climate Change e al complicato processo decisionale che ha portato alla ratifica del protocollo di Kyoto nel 1997 e alla sua entrata in vigore nel 2005. Questo rapido excursus storico è probabilmente un buon punto di partenza per rendersi conto da un lato di quanto complessi e ancora pieni di incognite siano i processi che governano il cambiamento climatico, dall’altro di quanto accurata e profonda sia stata la ricerca scientifica iniziata oltre un secolo addietro. Si possono criticare i problemi aperti come l’affidabilità dei modelli di simulazione del clima futuro, il ruolo delle nubi e degli aerosol inquinanti. Ma non si può tollerare che pochi scettici ai quali i mezzi di informazione assegnano troppo spesso ampio spazio possano liquidare in poche battute la scienza del clima come inaffidabile, falsa e imbrogliona. È come se perché ancora non si è in grado di curare certe malattie ci si permettesse di gettare discredito sull’intero sapere della medicina. Intanto la concentrazione di CO2 è di 384 parti per milione e il ghiacciaio Ciardoney si accinge a sperimentare un’altra dura stagione di fusione.

Troppo caldo.

Caldo. Afoso, torrido, umido, secco, tropicale. Difficile definirlo rigorosamente. Sentiamo cosa fa dire Umberto Eco nel Nome della rosa a Guglielmo da Baskerville quando parla a Adso: «Uno stesso corpo può essere freddo o caldo, dolce o amaro, umido o secco, in un luogo – e in un altro luogo no. Come posso scoprire il legame universale che rende ordinate le cose se non posso muovere un dito senza creare una infinità di nuovi enti, poiché con tale movimento mutano tutte le relazioni di posizione tra il mio dito e tutti gli altri oggetti?»
Per un sasso il caldo non esiste, se non per le dilatazioni che in tempi millenari aprono piccolissime fratture che lo sgretoleranno lentamente. Per una lucertola è fonte di vita, essendo animale «ectotermo», ovvero a sangue freddo: si mette al sole per regolare la sua temperatura secondo le necessità. Per un essere umano è una sensazione soggettiva che dipende da svariate condizioni: di certo fa sempre caldo, e troppo, allorché la temperatura dell’aria è pari o superiore a quella corporea, in questo caso l’organismo mette in atto ogni espediente per evitare che la propria temperatura salga, in primo luogo attraverso la sudorazione che raffredda la pelle per mezzo del processo fisico dell’evaporazione. Ma non sempre ciò accade in modo rapido ed efficace. Tanto piú umida è l’aria, quanto piú l’evaporazione del velo liquido sulla pelle è ostacolata e la sofferenza al caldo acuita. Ecco perché si sta molto meglio a 45 °C in un deserto con aria secchissima, piuttosto che a 30 in una foresta tropicale immersi nell’afa. Ne sanno qualcosa gli speleologi del team La Venta, che hanno esplorato Naica, la grotta dei cristalli giganti scoperta recentemente in Messico, dove la temperatura è di 50 gradi e l’umidità del 100 per cento. Senza dotazione di speciali tute refrigerate e isolate vi si può resistere solo per pochi minuti. Ma torniamo all’aria aperta. Oltre a temperatura e umidità, entra in gioco pure l’effetto del vento: se l’aria è ferma è piú difficile far evaporare il sudore, se è in movimento, evaporazione e raffreddamento sono piú efficienti, da qui la ricerca di una brezza marina ristoratrice o almeno di un ventilatore. Infine c’è la situazione fisiologica individuale: ognuno di noi ha diverse soglie di tolleranza al caldo e all’umido, e queste cambiano ancora a seconda delle circostanze istantanee, dello stress, della stanchezza, dell’assunzione di cibo o di liquidi e ovviamente degli abiti indossati, tipo di fibra, taglio e colore. Tutto questo per dire che quando sentiamo affermare «ho caldo» si tratta di un concetto molto dilatato e sfumato, almeno nell’intervallo tra 25 e 35 gradi, oltre questa soglia è invece abbastanza facile che tutti lo provino. Comunque, per cercare di conferire una parvenza di oggettività ai vari «caldi» personalizzati si sono compilate tabelle di «temperatura percepita», frutto dell’interazione tra umidità e temperatura, come l’indice di Scharlau, elaborato nel 1950, come l’Heat Index statunitense o l’Humidex canadese. Utili, soprattutto in campo biomedico, ma anche fonte di gran confusione tra gli utenti dei bollettini meteo, che già hanno difficoltà a comprendere il concetto di temperatura misurata dalle stazioni meteorologiche, figuriamoci quando si mischiano i gradi «veri» del termometro ai gradi «percepiti». Reale o percepito che sia, il caldo è spesso amato e invocato da chi vive nei Paesi freddi, come ricorda Hermann Hesse: «La mia nascita avvenne in una delle prime ore della sera di un caldo giorno di luglio, ed è la temperatura di quell’ora che inconsciamente ho amato e cercato per tutta la vita, e, quando mi è mancata, ne ho sentito dolorosamente la privazione. Non ho mai potuto vivere in Paesi freddi» (da Traumfährte, 1922-1924). Tuttavia, il caldo intenso e prolungato quasi mai è ben tollerato e induce debolezza, pigrizia e spossatezza, come ci dice Leopardi in questo passo dello Zibaldone (3 settembre 1823): «Il caldo scema le forze di agire, e nel tempo stesso ne ispira ed infiamma il desiderio, rende suscettibilissimi della noia, intolleranti dell’uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti di se stessi e del presente. Sembra che il freddo fortifichi il corpo e leghi l’animo: che il caldo addormenti e ammollisca e illanguidisca e intorpidisca il corpo, eccitando e svegliando e sciogliendo l’animo. L’attività del corpo è propria de’ settentrionali, de’ meridionali quella dell’animo». Eppure, ai tempi di Leopardi eravamo ancora nel pieno della piccola età glaciale, un periodo piú freddo di oggi, con estati spesso piovose e pochi giorni con temperature superiori ai 30 gradi, in particolare era da poco trascorso il 1816, passato alla storia come l’«anno senza estate» a causa della cappa di polveri scaraventata in atmosfera dall’esplosione del vulcano Tambora, in Indonesia, avvenuta nell’aprile 1815. Cattivi raccolti, carestie e atmosfera propizia al romanzo gotico: Mary Shelley concepiva Frankenstein proprio a causa delle lunghe riflessioni al chiuso durante le vacanze svizzere di quell’estate «umida e non congeniale». Al contrario è ancora vivissima la memoria dell’estate 2003, che per tutta l’Europa centro-occidentale è stata la piú calda in assoluto da almeno 500 anni, come indicano le cronache storiche. Un evento eccezionale che ha portato, in particolare nella prima decade di agosto, a far toccare ai termometri di Francia, Svizzera, Italia, valori superiori a 40 gradi. Gli effetti sono stati devastanti, con oltre 70 000 vittime tra la popolazione anziana, siccità e perdita di raccolti, riduzione della produzione idroelettrica, incendi boschivi, consumo energetico alle stelle per eccesso di utilizzo dei condizionatori. L’estate 2003 ha rappresentato per chi si occupa di clima un importante caso studio, una sorta di assaggio di come potrebbe essere il clima normale della metà di questo XXI secolo. Un caldo prolungato, intenso e opprimente, tipico delle ondate di calore generate dagli anticicloni africani, ben diverso dalla breve canicola che per una manciata di giorni portava il termometro a 35 gradi a Torino nelle estati di metà Novecento, quelle che ispirarono Cesare Pavese a scrivere La bella estate: «Quell’anno faceva tanto caldo che bisognava uscire ogni sera, e a Ginia pareva di non avere mai capito prima che cosa fosse l’estate, tanto era bello uscire ogni notte per passeggiare sotto i viali». Forse si riferiva a un luglio prima del 1940, ma nel 2003 nemmeno i viali serali offrivano refrigerio! Il riscaldamento globale indotto dalle emissioni di gas serra rischia infatti – secondo i piú recenti modelli di simulazione climatica elaborati dall’Ipcc, l’agenzia Onu per gli studi sui cambiamenti climatici – di far diventare sempre piú frequenti stagioni estive come quella del 2003. Il Mediterraneo appare una zona particolarmente sensibile all’aumento termico e alla diminuzione delle piogge estive, un cosiddetto «hot spot», materializzato da una macchia giallo rossa sulle cartine climatiche. Si tratta di una previsione, certo, con tutti i limiti dell’attuale affidabilità dei modelli numerici di simulazione del clima, ma nei confronti della quale conviene in ogni caso attrezzarsi: architettura bioclimatica, con case dotate di isolamento termico, schermi frangisole, giardini pensili, alberate ombrose, sistemi di raffrescamento passivo a ventilazione naturale e a energia solare, raccolta dell’acqua piovana per l’irrigazione di orti e giardini, potenziamento delle reti acquedottistiche e dei serbatoi di accumulo stagionale. Perderemo gran parte dei nostri ghiacciai alpini, ma forse nelle estati del futuro, la montagna tornerà a essere una ambita meta di villeggiatura e si ripopolerà: scacciate dalle città infuocate, masse di pensionati e lavoratori del terziario cercheranno refrigerio in fresche dimore e uffici d’alta quota, collegati tramite Internet al resto del mondo. Insomma, contro il caldo che verrà c’è tanto lavoro da fare per adattarsi e ridurre i rischi, accanto però alla mitigazione ottenuta dalla riduzione delle emissioni climalteranti: ogni tonnellata di CO2 evitata oggi, diminuisce un po’ la probabilità di aver a che fare domani con un caldo che forse la nostra specie ha raramente sperimentato nella sua lunga storia. Due gradi entro il 2100 sí, possiamo farcela, quattro no, troppo caldo troppo in fretta, ammonisce l’Unione Europea. Siamo figli delle ere glaciali. Diventeremo ostaggi dell’effetto serra?

Aria di primavera.

Aria di primavera, forse la stagione piú celebrata e piú gioiosa. Ci sono antiche primavere letterarie, come quella che Boccaccio descrive nell’Elegia di Madonna Fiammetta:
e il florigero Zeffiro sopravenuto col suo leno e pacifico soffiamento, avea le ’mpetuose guerre di Borea poste in pace, e cacciato del frigido aere li caligginosi tempi, e delle altezze d’i monti le candide nevi e li guazzosi prati rasciutti delle cadute piove, ogni cosa d’erba e di fiori avea rifatta bella; e la bianchezza per la soprastante freddura del verno venuta negli alberi era da verde vesta ricoperta in ogni parte; e era già in ogni luogo quella stagione, nella quale la lieta primavera graziosamente spande in ciascuno luogo le sue ricchezze, e che la terra, di varii fiori e di rose quasi stellata, di bellezze contrasta col cielo ottavo, e ogni prato teneva Narcisso.
O piú recenti come quella di Buzzati in Bàrnabo delle montagne (1933):
Entrano dalla finestra i resti di un vento lontano, aria profumata di primavera. […] fuori c’è un cielo sereno con i riflessi del tramonto […] verso il Nord, si vede la bassa catena delle prime montagne con sopra cumuli bianchi trionfali, raggelati dalla sera.
Ci sono primavere musicali, notissima quella vivaldiana, e primavere pittoriche, come quella del Botticelli o dell’Arcimboldo. Ma in genere la primavera fatta esclusivamente di brezze tiepide e carezzevoli, cieli sereni, prati in fiore è solo nei nostri sogni. La primavera alpina è invece capricciosa e volubile. Per i meteorologi questa poetica stagione inizia il 1o marzo, e non il 21 o giú di lí come vuole l’equinozio; ma le date hanno poca importanza, si tratta comunque solo di umane convenzioni. Il cambiamento della temperatura per effetto della minore o maggiore durata del soleggiamento è infatti un processo lento, che non si percepisce certo da un giorno all’altro. I passaggi di stagione non sono mai regolari e definitivi, né si attengono a date fisse, le stagioni le abbiamo inventate noi, la natura mette invece in atto mille sfumature, colpi di coda, ripensamenti, indecisioni, anticipi sorprendenti e clamorosi ritardi. Lo ha detto benissimo nel 1924 lo scrittore comico inglese Pelham Grenville Wodehouse nella Conquista di Londra:
C’è qualcosa, nel modo in cui la primavera si manifesta in Inghilterra, che mi ricorda un cucciolo timido che cerca di farsi degli amici. Fa un avventato passo avanti, se la svigna terrorizzato, poi striscia di nuovo in avanti, timoroso, e infine, acquistata fiducia, si avventa con impeto e gioia.
È dunque primavera perché il termometro segna 20 °C, non perché il calendario segna il 20 marzo. Da qui al caldo estivo tutto può ancora capitare, ci possono essere crudi ritorni di freddo e non è raro che la neve possa cadere ancora in pianura fino alla metà di aprile e oltre: la primavera alpina, e soprattutto quella ticinese, non ha nulla a che vedere con l’icona letteraria dominante, in quanto è proprio nei mesi tra aprile e maggio che si colloca uno dei massimi di piovosità annuali, con il suo corteo di giornate grigie stillanti acqua da tetti e grondaie e talora foriere di turbinose piene torrentizie. Forse le trecentesche primavere del Boccaccio erano miti, ancora appartenenti a un moderato e tiepido Optimum climatico medievale, di certo furono seguite dai freddi via via piú intensi della piccola età glaciale, che per quasi cinque secoli vide sempre piú il trimestre marzo-aprile-maggio indugiare nell’inverno piuttosto che aprirsi all’estate. Per esempio, il 22 maggio 1716, Ludovico Soleri annotava sul suo diario che a Torino «non vi è memoria d’huomo vivente che si ricordi d’esser stato sino al giorno d’hoggi il tempo cosí incostante et si è veduto ancora in qualche corti relliguati [resti] di cumoli di neve». Oggi la neve, quando viene, nei cortili ombrosi non dura che qualche giorno nel pieno di gennaio, altro che trovarne ancora residui in maggio inoltrato! In effetti la temperatura media primaverile della Pianura Padana negli ultimi quindici anni è cresciuta di quasi 2 gradi rispetto ai secoli precedenti. La primavera 1997 è stata calda e soprattutto molto asciutta, ma la primavera del 2007 ha battuto ogni record precedente, arrivando a toccare valori medi attorno ai 16 gradi contro un dato normale di circa 13 gradi e un minimo storico che ormai sembra solo una leggenda climatologica come furono i 9 gradi del 1837. Il mese di marzo si è nettamente riscaldato negli ultimi anni e favorisce la fusione precoce del manto nevoso alpino che defluisce piú rapidamente del passato verso il Po, privandolo di preziosa acqua nel periodo estivo. Ma come saranno le primavere del futuro? Molto probabilmente sempre piú calde, sempre piú un preludio a un’estate mediterranea e infuocata anche sulle Alpi. Le simulazioni piú recenti dei cambiamenti climatici attesi sulle Alpi entro il 2050, ottenute dal progetto europeo «Prudence», prevedono aumenti di un altro paio di gradi nei mesi primaverili, mentre le precipitazioni dovrebbero subire un decremento piuttosto modesto, inferiore al cinque per cento. Eppure il mese di marzo negli ultimi quindici anni è divenuto molto asciutto sull’Italia nord-occidentale: a Torino la media 1803-1989 era di 61 millimetri mentre nel periodo 1990-2007 è scesa a soli 37 millimetri. Comunque, se sarà soprattutto il caldo a prevalere, il nostro paesaggio vegetale vedrà un anticipo della ripresa vegetativa con fioriture precoci di fruttiferi e piante ornamentali, ma se anche le precipitazioni tenderanno a diminuire, allora i toni gialli dei prati secchi e polverosi potrebbero prendere il sopravvento fin da maggio sul tradizionale verde tenero della vegetazione irrorata da piogge frequenti. L’idilliaco orto di Montagnola cantato da Hermann Hesse nel 1936 dovrà in futuro adattarsi a ospitare essenze piú tipiche della Toscana, finocchietto selvatico, capperi e carciofi invece di «fagioli o fragole, o cavoli o piselli», e l’«enorme cactus», schiantato da un inverno nevoso, non sarà piú uno «straniero nel verde», ma una normale presenza dei giardini prealpini. «San Benedetto, la rondine sotto il tetto», dice il proverbio del 21 marzo. Ma le rondini, quando non sono vittime della triste «primavera silenziosa» denunciata da Rachel Carson nel 1962, in genere giungono in Italia e sulle Alpi verso l’inizio di aprile: era diverso il clima del passato o erano le rondini ad anticipare la migrazione? La spiegazione ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Non c’è più tempo
  4. PARTE PRIMA. Uscita d’emergenza
  5. PARTE SECONDA. Lettera dalla Terra: un pianeta sovrasfruttato
  6. PARTE TERZA. Ecologia domestica
  7. PARTE QUARTA. Ci manca la Terra sotto i piedi
  8. PARTE QUINTA. La febbre globale: meglio prevenire che curare
  9. PARTE SESTA. Sostenibilità globale, la politica è all’altezza?
  10. Conclusioni in chiaroscuro
  11. Fonti
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright