Mangiare è un atto civico
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Mangiare è un atto civico

  1. 152 pagine
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Mangiare è un atto civico

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L'atto di mangiare implica la responsabilità di tutti e di ciascuno, attraverso una grande catena che va dalla Terra al piatto. Noi non siamo al centro del mondo. Le altre specie viventi - animali e vegetali - meritano lo stesso rispetto che riserviamo a noi stessi. Continuare a distruggerle, come stiamo facendo, significa condannarci a una morte certa, ben più di quanto non si creda.
In questo libro, dove ha scelto, per la prima volta, di raccontare alcuni episodi della sua vita, Alain Ducasse ci propone alcune soluzioni concrete per riapprendere a mangiare. Nel corso di queste pagine incontrerete un curioso gesuita delle Filippine, un cuoco che serve delle carote al vapore a tutta New York, un orticoltore della banlieu, una coppia di piccoli produttori che, in Normandia, hanno creato un ecosistema unico nel suo genere. Il loro impegno, l'impegno di Ducasse, è anche il vostro. Perché mangiare è un atto civico.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858429730
Capitolo sesto

Nutrire il mondo in un altro modo

In questo mondo che si prosciuga, se non vogliamo morire di sete, dobbiamo farci fonte.
CHRISTIANE SINGER
Il progresso e la velocità hanno annullato le distanze fisiche tra gli uomini. Lo spazio e il tempo si sono contratti e hanno profondamente modificato la vita e i rapporti tra gli individui. In poche ore posso essere dall’altra parte della Terra. In pochi secondi quel che succede nella via dove abito, o quello che twitto sul cellulare, fa il giro del mondo. Se mi piace un ristorante, o se lo detesto, con due righe scritte su TripAdvisor posso in-fluire sulla sua immagine e sulla sua reputazione. Alcuni ricercatori immaginano addirittura che ben presto ogni consumatore, per mezzo di vestiti, occhiali o braccialetti connessi alla rete, potrà avere accesso ai codici QR inseriti nei menu e conoscere istantaneamente le qualità nutritive di ogni piatto.
In ogni istante, dunque, sono connesso in tempo reale con chiunque ci sia dall’altra parte del mondo. Tuttavia, se mi fermo un momento, mi rendo conto che la vicinanza, la durata e la profondità degli scambi umani e dei legami sociali si sono sfaldate. Ma gli uomini, allora, non dovrebbero forse riprendere il controllo sugli straordinari mezzi di comunicazione che hanno creato per rimetterli al loro giusto posto, vale a dire al servizio degli scambi umani, anziché vivere questi mezzi come fini a se stessi?
Che cosa c’entra la gastronomia? «Tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto essere che si nutre» – come recita la definizione di Brillat-Savarin1 – non interpella solo la nostra relazione con gli altri uomini, ma riguarda piú in generale il nostro rapporto con il mondo dei viventi, cioè con la nostra biosfera (ovvero con il risultato dell’evoluzione e della diversità biologica degli ecosistemi). La sopravvivenza, la salute e il benessere dell’umanità dipenderanno anche dalla nostra capacità di nutrire gli esseri umani, in stretta osmosi con gli equi-libri e la dinamica intrinseca della biosfera.
Non è una teoria astratta. L’uomo nel corso del tempo ha fatto emergere una tecnosfera (l’insieme delle tecniche da lui introdotte in natura). Ebbene, piú la tecnosfera si sviluppa, piú aggredisce la biosfera2, secondo un ritmo esponenziale. Da qui al 2100 la nostra tecnosfera avrà divorato tutto il carbone, il metano e il petrolio accumulati dalla biosfera nel sottosuolo in trecento milioni di anni. Ogni giorno scompaiono delle specie, ogni giorno terreni esauriti diventano sterili. Non dimentichiamolo: la nostra capacità di nutrire gli uomini continua a dipendere come minimo da api e lombrichi. Siamo tutti condannati? Sí, se non diamo alla nostra biosfera la capacità di riprendere il controllo sulla tecnosfera che abbiamo creato e che ogni giorno ci sfugge sempre piú di mano.
La gastronomia umanista, nel mio modo d’intenderla, può essere l’arma di punta di questa battaglia. Noi, che abbiamo la fortuna di mangiare ogni giorno a sazietà, possiamo impiegarla come strumento per preservare l’avvenire dell’umanità. Per l’eternità? Sicuramente no. I mari si svuotano dei pesci. I terreni diventano sterili. Le foreste vengono distrutte. Piú di tre miliardi d’individui non mangiano a sufficienza. E noi continuiamo a ucciderci l’un l’altro. L’umanità ne ha ancora soltanto per alcuni secoli, nel migliore dei casi. Vi credete al riparo? Pensate, magari, «Dopo di me il diluvio», e che quando il diluvio arriverà, i vostri figli e i figli dei vostri figli saranno già morti da tempo? Allora siete dei vili.
Io non mi sento migliore. Anch’io sono stato vile cosí. Per comodità, per paura, per abitudine. Inebriato dalla fortuna di essere riuscito, giovanissimo, a far carriera nella gastronomia, per molto tempo ho pensato solo a me stesso e a servire la mia ambizione divorante. Ma quando l’aereo su cui mi trovavo si è schiantato e ho saputo di essere l’unico sopravvissuto, ho capito che nessuno è il centro del mondo.
L’universo è un campo di energia in espansione. Ma nasconde anche dei buchi neri, con campi gravitazionali cosí potenti da assorbire ogni tipo di materia e radiazione, senza concedere possibilità di fuga. Allo stesso modo, e molto probabilmente in linea di continuità cosmica con questi fenomeni, piú doniamo a chi ci circonda, piú nutriamo psichicamente chi ci è vicino, piú la loro crescita a sua volta ci nutre, e piú partecipiamo, nel nostro infinitamente piccolo, all’espansione dell’universo. La vita mi ha insegnato che piú vi aprite agli altri, piú il vostro orizzonte si amplia e piú si dischiude il campo delle possibilità.
Ognuno di noi ha l’opportunità di aprirsi al mondo per aprire il mondo. È vero: fama, potere e pubblico riconoscimento possono essere molto gratificanti. Ma che siamo cuochi, banchieri, presidenti o panettieri, finiremo tutti in un mucchietto d’ossa e polvere spazzato dai venti. Che altro potremmo pretendere di lasciare davvero su questa terra, se non un lembo di orizzonte in piú?

Della necessità di cambiare il nostro sistema.

Nelle nostre società dei consumi, nutrirsi è diventato un atto politico quotidiano. Per due terzi dell’umanità è un quotidiano atto di sopravvivenza. Per le nuove generazioni, grazie alla presa in carico delle nostre vite individuali da parte del progresso tecnico, l’abbondanza è divenuta tanto evidente che i nostri spiriti vegetano in un grasso torpore, sicuri che non patiremo mai la penuria. Nonostante le azioni di una minoranza di militanti meritevoli e perseveranti, la maggior parte di noi rimane soltanto sconsolata spettatrice di fronte alle immagini e ai dibattiti sull’erosione dei suoli, sugli attentati alla biodiversità, sul pericoloso sviluppo dell’inquinamento agrochimico, sulla decimazione delle api, sulle catastrofi ecologiche provocate dall’industria… Quanto ai politici, con i loro discorsi, le loro promesse non mantenute, le loro micro-azioni effimere a cui essi stessi non sembrano credere, la loro strabiliante ignoranza delle realtà locali, offrono troppo spesso un patetico spettacolo d’impotenza. Il pianeta custodisce risorse piú che sufficienti a sfamare tutti gli uomini; tuttavia, piú di 15 000 bambini muoiono di fame ogni giorno. Nei Paesi in via di sviluppo, un bambino su sei (ovvero cento milioni di bambini) soffre d’insufficienza ponderale, e uno su tre di ritardo di crescita. Secondo il Programma alimentare mondiale (PAM) delle Nazioni Unite, occorrerebbero 3,2 miliardi di dollari l’anno per nutrire i circa 66 milioni di bambini in età scolare che nel mondo hanno fame.

Aberrazioni.

Se consideriamo con un minimo di attenzione il tecnosistema industriale in cui ci stiamo sviluppando, individuiamo subito le sue aberrazioni e i suoi controsensi. Nella metà settentrionale del pianeta, il sistema economico agroindustriale e culturale della società dei consumi è oggetto di una radicale messa in discussione. Il meccanismo che ha permesso di accedere all’abbondanza alimentare produce oggi squilibri e assurdità. Sono altrettanti segnali di allarme che devono risvegliare le nostre coscienze e stimolarci a modificare i nostri comportamenti.
Ad esempio, la domanda di proteine animali dei Paesi sviluppati induce a penalizzare la produzione di proteine vegetali necessaria ai Paesi sottosviluppati. Produrre un chilo di carne richiede dieci chili di cereali. Ma per produrre un chilo di cereali servono 400 litri d’acqua. Occorrono perciò 4000 litri d’acqua per produrre un chilo di carne. Analogamente, occorre sacrificare circa sette chili di pesce selvatico per produrre un chilo di pesce d’allevamento. E piú i prelievi di pesce selvatico aumentano, piú la risorsa naturale scompare ed è maggiormente necessario il ricorso all’itticoltura.
Le aberrazioni economico-ecologiche in cui siamo coinvolti non si limitano a queste anomalie. Tutte le colture fuori stagione necessitano di una grande quantità di combustibile per produrre il calore artificiale delle serre. Nel suo Manifesto per la terra e per l’uomo, Pierre Rabhi riferisce questo aneddoto, dall’alto valore simbolico: «Negli anni Ottanta, un camion di pomodori ha lasciato l’Olanda per rifornire la Spagna. Nel frattempo un altro camion di pomodori partiva dalla Spagna per rifornire l’Olanda. I due camion hanno finito per scontrarsi su una strada francese!»3.
In un recente rapporto sullo spreco alimentare, la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) stima che ogni anno siano gettati 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, pari a un terzo della produzione alimentare mondiale. I fagiolini del Kenya appaiono a tal proposito emblematici. I consumatori si sono abituati a trovarli sul mercato tutto l’anno. Ma occorre sapere che la regolamentazione europea impone una rigida disciplina, per ciò che riguarda il loro aspetto e la loro dimensione. I fagiolini devono essere depicciolati e lunghi 8 centimetri. Il minimo difetto li rende inidonei. Risultato: in media, si stima che fra il 30 e il 40 per cento del prodotto raccolto venga buttato via!
Il problema è amplificato dalla diffusione dei prodotti industriali precotti, pronti da servire nel loro imballaggio sottovuoto. E tuttavia, centinaia di milioni di persone nel mondo non mangiano sempre a sufficienza. Situata all’estremità della catena, la ristorazione di qualità si sente particolarmente chiamata in causa, e moltiplica perciò in tutto il mondo le iniziative di lotta contro questo spreco impressionante. Per esempio, diversi anni fa il ristorante tre stelle di Régis e Jacques Marcon, a Saint-Bonnet-le-Froid, uno dei fondatori del Collège Culinaire de France, è stato completamente riorganizzato per rendere possibile il riciclo di ogni cosa. Ormai vengono trattati ogni settimana 750 chili di avanzi, che sono redistribuiti come materia secca agli agricoltori della regione.
Nel 2015, durante l’Expo di Milano dedicata all’alimentazione, Massimo Bottura, lo chef tristellato dell’Osteria Francescana di Modena, ha portato sotto i riflettori la necessità di questa lotta allo spreco, cucinando per i piú bisognosi cibo scartato. È nato cosí Food for Soul, un progetto a cui abbiamo partecipato insieme a una quarantina di altri grandi cuochi di tutto il mondo, tra i quali Yannick Alléno, un altro membro fondatore del Collège Culinaire de France.
Il cibo indispensabile è diventato qualcosa di ordinario. Gli investimenti pubblicitari creano bisogni superflui sempre nuovi, per permettere alle industrie agroalimentari di smaltire la loro produzione. I nostri organismi si trovano al tempo stesso in una condizione di sovralimentazione e di carenza. Le correlazioni tra l’alimentazione moderna globalizzata e determinate patologie, come l’obesità o le malattie cardiovascolari, sono oggi scientificamente provate.
E non è tutto. Le ricerche piú recenti constatano concordemente l’impatto sulla nostra salute degli interferenti endocrini, tra cui gli ftalati e i fenoli, presenti in un certo numero di imballaggi alimentari e di prodotti fitosanitari utilizzati in agricoltura. La cosa piú preoccupante è che i feti, i lattanti e i bambini piccoli rivelano una maggiore sensibilità a queste sostanze. Tali composti, perturbando il sistema endocrino, possono alterare la riproduzione, la regolazione del metabolismo e lo sviluppo, o provocare una pubertà estremamente precoce (anteriore ai dieci anni di età). Di intossicazione alimentare non si muore piú di colpo dopo un pasto, come ancora avveniva meno di un secolo fa. Oggi si muore di una morte lenta e programmata, per gli effetti chimici e inquinanti di un’alimentazione industrializzata: l’obesità, il colesterolo alto, il diabete, il cancro e lo stress legati al cibo spazzatura riguardano il 60 per cento degli statunitensi e già il 30 per cento degli europei.

Anestesia collettiva.

Assistiamo, impotenti, alla progressiva paralisi e al deterioramento dell’intera rete nervosa del nostro ecosistema. Stiamo vivendo la sindrome della rana in pentola. L’esperienza ha dimostrato che se buttate all’improvviso una rana in una pentola d’acqua a 50 gradi, l’animale darà un vigoroso colpo con le zampe e balzerà immediatamente fuori dal liquido bollente. Se invece la gettate in un pentolone d’acqua fredda che fate scaldare gradualmente, la ranocchia si lascerà tranquillamente cuocere a fuoco lento, senza agitarsi.
Penso che sia questo che ci sta succedendo, a livello di dimensione collettiva. Progressivamente anestetizzati, ci lasciamo scivolare in un dolce torpore che ci rende già mezzi cotti! Gli agenti motori e regolatori, vale a dire le multinazionali e le élite politiche, si rivelano incapaci, in tempi brevi, di mettere da parte i rispettivi interessi e sono lontani dalla realtà sociale ed economica delle popolazioni. L’informazione e le statistiche sulla gravità della situazione restano dati astratti o virtuali, troppo distanti da una relazione intima con la natura per toccarci davvero e obbligarci a cambiare comportamenti. Lo sviluppo dell’urbanizzazione e della globalizzazione e la crescente centralizzazione della distribuzione alimentare ci hanno distanziati fisicamente e mentalmente da ciò che mangiamo. Il grande inganno che è riuscito ad anestetizzare le menti è quello che ci ha saputo imprigionare nella finalità del mondo dei consumi. L’attuale sistema economico dei consumi ricrea all’infinito il vuoto esistenziale che pretende di colmare. Si basa sulla frustrazione permanente, alimentata da un meccanismo di dipendenza. L’agricoltura produttivista è sottomessa alla legge instabile e speculativa dei mercati di Borsa. È associata all’agroindustria, che mira a uniformare i gusti per ottimizzare i costi, realizzando economie di scala e al tempo stesso universalizzando i propri mercati di massa. I prodotti dell’agricoltura produttivista sono commercializzati dalla grande distribuzione, impegnata in una mortifera guerra dei prezzi su scala planetaria. Il tutto è alimentato dalla pubblicità, che si sforza di plasmare le menti creando incessantemente nuovi desideri, che si trasformano in pressanti esigenze.
Le leggi ambientali, le carte etiche, gli appelli al consumo responsabile, per quanto necessari, appaiono oggi insufficienti. Potremo invertire questa tendenza deleteria soltanto con un cambiamento di paradigma. La vitale riconnessione con la natura per salvare l’avvenire della nostra specie va al di là delle estemporanee esperienze radical chic, della moda «bio», delle inquietudini sul clima e di altre manifestazioni emotive, nella maggior parte dei casi superficiali ed effimere. Non possiamo evitare una radicale ridefinizione della nostra sensibilità ambientale e neppure un drastico cambiamento...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Mangiare è un atto civico
  4. Prefazione. di Christian Regouby
  5. I. Assaporare il mondo
  6. II. Quel che vuol dire mangiare
  7. III. Dalla natura alla naturalità
  8. IV. Diventare uno chef?
  9. V. L’influenza planetaria della gastronomia francese
  10. VI. Nutrire il mondo in un altro modo
  11. Conclusione. Manifesto per una gastronomia civica
  12. Appello per una dichiarazione universale della gastronomia umanista
  13. Ringraziamenti
  14. Il Collège Culinaire de France
  15. Il libro
  16. Gli autori
  17. Copyright