Il Giappone moderno
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Il Giappone moderno

dall'Ottocento al 1945

  1. 584 pagine
  2. Italian
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Il Giappone moderno

dall'Ottocento al 1945

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La parabola compiuta dal Giappone imperiale tra Otto e Novecento, dalla costruzione dello stato-nazione unitario fino alla disfatta bellica, è densa di spunti per una riflessione sul significato della modernità e del suo manifestarsi nel mondo in forme diverse secondo le condizioni locali. Il volume mira a collocare saldamente lo specifico caso giapponese nel suo contesto regionale e globale, offrendo al tempo stesso una prospettiva extraeuropea su fenomeni transnazionali di ampio respiro.
Le vicende trattate sono di particolare interesse per l'osservatore italiano, data l'abbondanza di spunti per un confronto fra le storie parallele dei due paesi. Si pensi, in ambito politico, a questioni quali l'unificazione nazionale, l'evoluzione in senso parlamentare del sistema di governo sotto la monarchia, la ricerca di un riconoscimento paritario da parte delle grandi potenze, la crisi del liberalismo e l'avvento di un regime autoritario che condusse il paese al disastro nella Seconda guerra mondiale. Collegati a questi temi, sul piano dei rapporti socio-economici si possono tracciare invece il processo di industrializzazione, i conseguenti squilibri territoriali, l'emergere dei movimenti di massa e di una cultura popolare sorretta dai mezzi di comunicazione moderni.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858429952
Argomento
Storia
Parte seconda

Il Giappone imperiale

Capitolo terzo

La formazione dell’impero

1. Teoria e prassi del governo costituzionale.

1.1. I poteri sovrani

La mattina dell’11 febbraio 1889, l’imperatore si recò nel sacrario del palazzo per annunciare agli spiriti dei suoi antenati l’intenzione di stabilire alcune leggi fondamentali «in considerazione del progresso dei tempi e in accordo con lo sviluppo della civiltà umana», assicurando loro che queste norme non sarebbero state altro che «un’esposizione dei grandi precetti di governo tramandati dal Capostipite imperiale e dagli Avi imperiali»1. A questo rito intimo seguí un cambio d’abito per una solenne cerimonia nella sala del trono, da poco costruita. Alla presenza dei nobili, degli alti funzionari civili e militari e dei diplomatici stranieri, il sovrano consegnò la Costituzione al primo ministro Kuroda. Accompagnato dalla consorte, l’imperatore lasciò quindi il palazzo a bordo di una carrozza da parata, che lo condusse a presiedere una rivista militare2. Al passaggio della coppia imperiale, un gruppo di studenti universitari lanciò per la prima volta il grido di banzai («diecimila anni»), prendendo a prestito dalla tradizione cinese l’augurio di lunga vita al sovrano. In serata si aprirono i festeggiamenti a corte, che compresero uno spettacolo di antiche danze e un ricevimento all’occidentale.
Come la cornice di eventi che ne accompagnarono la promulgazione, il testo stesso della Costituzione del grande impero del Giappone (Dai Nippon teikoku kenpō) era stato concepito per apparire quale una perfetta sintesi di tradizione e modernità3. Il preambolo chiariva subito i termini della relazione tra sovrano e popolo:
Noi, che ricevendo l’illustre lascito dei Nostri Avi siamo ascesi alla dignità imperiale in una linea ininterrotta nei secoli, avendo a cuore i Nostri amati sudditi, ossia quei sudditi sui quali vegliano con benevolenza e affetto i Nostri Avi; con il desiderio di accrescere il loro benessere e far sviluppare le loro virtú morali e intellettuali, e nell’auspicio di mantenere la prosperità dello Stato con il loro concorso, [...] stabiliamo qui una Costituzione. [...] Noi abbiamo ricevuto il diritto sovrano di reggere lo Stato dai Nostri Avi e lo trasmetteremo ai Nostri discendenti.
Si trattava dunque, in modo inequivocabile, di una Costituzione liberamente elargita alla nazione dall’imperatore, il quale restava l’unico depositario della sovranità. Questo principio poneva la carta Meiji nella famiglia delle Costituzioni ottriate, ossia «concesse» dall’alto senza alcun apporto popolare, come lo Statuto albertino del 1848; la differenziava invece da quella prussiana del 1850, la quale, pur confermando la posizione del re «per grazia di Dio», era stata sottoposta per approvazione alle Camere4.
Anche rispetto alla possibilità di modificare il testo in seguito, la Costituzione Meiji si distingueva da quella prussiana, che ammetteva emendamenti tramite legge ordinaria, cioè approvata dal re e dalle Camere a maggioranza semplice (articoli 62 e 107). Nel caso giapponese, era richiesta una maggioranza qualificata in entrambe le Camere, alle quali era consentito pronunciarsi unicamente su proposte presentate dall’imperatore (articolo 73). Nella forma, queste disposizioni rendevano la legge fondamentale del Giappone piú flessibile di quella della monarchia sabauda, che era «perpetua ed irrevocabile»; in Italia, tuttavia, l’assenza di norme su un’ipotetica revisione sottintendeva l’autonomia del re nel deciderne la procedura.
Se si continua nel confronto testuale fra i tre ordinamenti, si può osservare che li accomunava la successione dinastica in linea maschile. Per chiarirne i meccanismi, anche in caso di reggenza, la Costituzione Meiji (articoli 2 e 17) rimandava però a un documento distinto e non subordinato a essa, ovvero lo Statuto della Casa imperiale. Redatto da funzionari di corte e corretto da Inoue Kowashi sotto la supervisione di Itō Hirobumi, lo Statuto era stato approvato dal consiglio privato nel giugno del 1888 e promulgato contemporaneamente alla Costituzione; suoi eventuali emendamenti, come stabilito nel testo stesso, sarebbero dipesi dal consiglio dei membri maschi della casa imperiale (kōzoku kaigi) coadiuvato dai consiglieri privati5. In altre parole, nelle questioni dinastiche non era ammessa alcuna interferenza da parte del parlamento.
Le prerogative sovrane (taiken) dell’imperatore erano illustrate al Titolo I della Costituzione. Capo dello stato sacro e inviolabile, egli aveva il potere di dichiarare guerra, concludere la pace e stipulare trattati. Era comandante supremo delle forze armate, delle quali definiva l’organico e gli stipendi. Lo stesso valeva per la burocrazia civile, salvo disposizioni particolari di legge (queste, come si dirà oltre, servivano a tutelare l’indipendenza della magistratura dal governo). Al vertice dell’amministrazione si trovavano i ministri di stato, quindi era implicito che la loro nomina e revoca dipendessero dal sovrano, come per gli altri funzionari.
Il Titolo IV, oltre a confermare la funzione consultiva del consiglio privato, stabiliva la responsabilità individuale dei ministri nell’assistere l’imperatore nel loro ambito di competenza; il rispetto di questa regola era garantito dall’obbligo di controfirmare ogni legge e altro atto concernente gli affari di stato che fosse emanato dal sovrano. Questi esercitava il potere legislativo con il «concorso» (kyōsan) dell’assemblea deliberante dell’impero (Teikoku gikai) ossia la Dieta imperiale, come da traduzione corrente6. Qualora l’assemblea non fosse in sessione, in casi di urgente necessità l’imperatore poteva emanare decreti con forza di legge; tali provvedimenti avrebbero richiesto la successiva conferma delle Camere, che tuttavia non potevano annullarli in modo retroattivo. In qualsiasi circostanza il concorso della Dieta non era prescritto per tutti i decreti relativi all’esecuzione delle leggi, al mantenimento della sicurezza e dell’ordine, nonché «all’accrescimento del benessere del popolo», purché questi non fossero in conflitto con le leggi. Spettava inoltre al sovrano convocare le Camere, anche in via straordinaria, e decidere eventuali proroghe o prolungamenti della sessione annuale, la cui durata era di tre mesi (articoli 41-43); delle due Camere, egli poteva inoltre sciogliere quella eletta dal popolo, per convocarne i nuovi membri entro cinque mesi (articolo 45).
Nella parte dedicata ai poteri monarchici, la Costituzione Meiji riprendeva dunque ampiamente quella prussiana (articoli 44-52); sono evidenti pure le somiglianze con lo Statuto albertino (articoli 5-10, 65 e 67), benché questo non fosse servito da modello principale. In Giappone la posizione del parlamento era ancora piú debole, dato che non aveva facoltà di mettere in stato d’accusa i ministri, né il suo assenso era in alcun caso richiesto per la ratifica di trattati o per la conferma di decreti pertinenti alle prerogative imperiali.
Pur con le debite differenze, gli estesi poteri attribuiti al sovrano in ciascuno dei tre ordinamenti nazionali si possono spiegare guardando ad alcune precondizioni comuni nel contesto politico. Vanno soprattutto rilevate l’assenza di una robusta tradizione liberale e l’importanza della monarchia come forza motrice dell’unificazione di territori eterogenei in tempi recenti. Nel caso tedesco e in quello italiano, questo secondo fattore si era rafforzato in due fasi storiche successive: dapprima tra il Settecento e la metà del secolo seguente, con la crescita dei regni di Prussia e di Sardegna per aggregazione di domini dinastici; quindi a causa del ruolo egemone svolto da questi due stati nel processo costitutivo dell’impero germanico e del regno d’Italia.
Tuttavia, all’epoca in cui Itō e i suoi collaboratori formularono la Costituzione giapponese, Italia e Prussia (e di riflesso la Germania) avevano sviluppato notevoli differenze nella prassi di governo. Mentre a Berlino la monarchia aveva conservato i suoi poteri in gran parte intatti, in Italia essa aveva dovuto cedere uno spazio sempre maggiore al parlamento e in particolare alla Camera dei deputati, la cui fiducia stava diventando di fatto una condizione necessaria per l’esercizio del potere esecutivo. È dunque lecito supporre che l’apparente disinteresse di Itō per le istituzioni del regno d’Italia fosse motivato non solo dal superiore grado di «successo» della Germania quale stato di nuova fondazione, ma anche dalla precoce evoluzione in senso parlamentare della monarchia sabauda.
Il precedente italiano avrebbe tuttavia meritato una maggiore attenzione da parte dei funzionari giapponesi, proprio perché dimostrava come le circostanze politiche potessero indurre per gradi una trasformazione del sistema di governo anche in assenza di modifiche alla legge fondamentale. Qualcosa di analogo si sarebbe verificato presto anche in Giappone, nonostante la Costituzione fosse disseminata di norme volte a rendere tale percorso difficoltoso.

1.2. Ministri e consiglio privato.

Traspare con chiarezza l’intenzione, da parte dei costituenti, di assicurare all’imperatore il ruolo di asse portante della struttura istituzionale. È tuttavia opportuno soffermarsi sul significato pratico di tale impostazione, prima di procedere all’esame degli articoli dedicati alla Dieta. Quale fonte di ogni autorità, il monarca era garante dell’unità dello stato nel suo immutabile «ordinamento nazionale» (kokutai), come già affermato nel tardo periodo Edo dal movimento sonnō jōi. Anche da una lettura superficiale della Costituzione Meiji si evince però che i poteri sovrani sarebbero stati esercitati attraverso i diversi organi statali. Itō tenne a precisarlo nell’esteso commento al testo pubblicato a suo nome, che rappresentava all’epoca l’ortodossia interpretativa:
L’obiettivo del governo costituzionale è che i diritti di sovranità siano esercitati attraverso i canali opportuni. In altre parole, i diritti di sovranità devono essere esercitati con l’assistenza dell’apparato previsto per la rappresentanza popolare e con quella dei ministri di stato7.
Si comprende pertanto come, nella gran parte delle occorrenze, il termine «imperatore» possa essere sostituito con «il consiglio dei ministri». Tale osservazione conduce a un interrogativo cruciale: posto che la nomina dei ministri era prerogativa del sovrano, quali criteri avrebbero guidato quest’ultimo nella scelta? Né la Costituzione né le glosse di Itō fornivano alcun lume in proposito. Lo stesso si può dire riguardo al consiglio privato, fatta salva l’affermazione di Itō, che per questo incarico considerava qualificati «uomini di vasta esperienza e profonda erudizione»8. Dagli indizi contenuti in altre fonti e dalle vicende successive si può tuttavia concludere che gli oligarchi avevano in mente di mantenere una sostanziale continuità nella composizione del governo, almeno nell’immediato futuro.
In qualità di consiglieri piú autorevoli del sovrano, essi continuarono infatti a far cadere entro la propria cerchia le nomine dei vertici dell’esecutivo. La lista dei primi ministri in carica dal 1885 al 1898 testimonia perfino l’adozione di un criterio informale di alternanza tra statisti originari di Chōshū e di Satsuma, tradotto nella sequenza Itō-Kuroda-Yamagata-Matsukata-Itō-Matsukata-Itō. In questo periodo anche gli altri membri del consiglio dei ministri, nominati dall’imperatore su indicazione del premier, furono quasi tutti esponenti di spicco del regime oligarchico. Le sporadi-che eccezioni, come il già citato incarico di Ōkuma agli Esteri, furono limitate a quei leader parlamentari che in precedenza avevano fatto parte del gruppo di governo; la loro presenza, pur essendo in realtà una concessione ai partiti della Camera bassa, poteva essere giustificata come un riconoscimento di provate capacità personali.
A difesa della supposta autonomia del governo dalla Dieta, i consiglieri imperiali invocarono il principio della «trascendenza» (chōzenshugi) dell’amministrazione rispetto a interessi di parte. Il termine entrò nel linguaggio politico con il discorso che Kuroda tenne ai governatori provinciali all’indomani della promulgazione della legge fondamentale, sostenendo quanto segue:
Benché l’esistenza dei partiti nella società sia resa inevitabile dalle circostanze, il governo deve sempre attenersi alla linea stabilita e stare sulla via della piú rigorosa giustizia e imparzialità, ponendosi al di fuori dei partiti in quanto trascendente9.
Il 15 febbraio, Itō fece una dichiarazione analoga ai presidenti dei consigli provinciali riuniti nella capitale. Se dunque in pubblico l’approccio degli oligarchi alla questione del rapporto tra Dieta e governo era univoco, nondimeno sussistevano tra loro divergenze d’opinione sulle prospettive di lungo periodo per un’interpretazione flessibile del dettato costituzionale. A fine secolo sarebbe stato di nuovo Itō a imprimere una svolta al processo politico, stavolta però scontrandosi con l’opposizione dei colleghi piú conservatori.
Caratteristica peculiare dell’ordinamento Meiji era la presenza di un organo di garanzia nominato dall’imperatore, il consiglio privato. Nonostante il nome suggerisca precedenti europei, quali quelli del Regno Unito e del Belgio, l’importanza dei compiti attribuiti all’epoca a questa istituzione in Giappone era decisamente superiore. Ne facevano parte 27 membri incaricati a vita; con il tempo si affermò la prassi di concordare le nomine ai posti vacanti tra il presidente del consiglio privato e il primo ministro. Il consiglio si pronunciava a maggioranza su questioni di rilevanza costituzionale poste dal sovrano, vale a dire dal governo. Piú precisamente, il suo parere era richiesto nei casi previsti dallo Statuto della casa imperiale per decisioni interne alla medesima; per dubbi relativi alla Costituzione o a leggi e decreti cui essa rimandava direttamente, come le norme elettorali; sull’imposizione della legge marziale; sui decreti imperiali d’emergenza e su tutti quelli che stabilissero sanzioni; sui trattati e altri impegni internazionali; sull’assetto del consiglio stesso; nonché su qualsiasi altro quesito specifico gli fosse sottoposto10.
In altre parole, benché la Costituzione non attribuisse ai pareri del consiglio un potere vincolante, il ruolo di quest’organo era di monitorare l’operato del governo e della Dieta in modo autonomo. Tuttavia, dato che a decidere le prime nomine furono gli oligarchi Meiji, la loro influenza rimase a lungo radicata nel consiglio privato. Itō e colleghi vi sedettero nei periodi in cui non erano direttamente impegnati al governo, alternandosi anche alla sua guida. Particolarmente lunga fu la terza presidenza di Yamagata, che durò dal 1909 al 1922, anno della sua scomparsa; ciò rese il consiglio un bastione di alti funzionari conservatori.

1.3. Parlamento nazionale e assemblee locali.

Rispetto all’architettura istituzionale sorta nel corso del primo ventennio Meiji, la novità di maggior rilievo contenuta nella Costituzione del 1889 risiedeva senza dubbio nella nascita di un parlamento, formato da due Camere con pari poteri. La Camera dei rappresentanti, o meglio «dei deputati popolari» (Shūgiin), sarebbe stata eletta dal popolo come specificato in una legge a parte; la Camera dei pari (Kizokuin) sarebbe stata invece formata da nobili e da membri di nomina imperiale, come stabilito in un apposito decreto. Ciò avrebbe consentito, in prospettiva, di modificare l’assetto di entrambi i rami della Dieta senza alcun emendamento alla Costituzione, a differenza di quanto stabilito in Prussia e in Italia.
La scelta di precisare la composizione delle due Camere attraverso due strumenti diversi, ossia la legge e il decreto, implicava alcune differenze nella procedura di revisione. Nel primo caso, eventuali modifiche avrebbero richiesto l’assenso di entrambe le Camere, come previsto per il normale iter legislativo (articolo 37). Nel secondo caso, trattandosi di un atto autonomo del sovrano, di regola il concorso della Dieta non sarebbe stato necessario. Il Decreto sulla Camera dei pari rappresentava tuttavia un’eccezione, perché il suo ultimo articolo poneva quale condizione per qualsiasi emendamento il consenso della Camera medesima11. Detto altrimenti, la Camera alta non solo risultava «blindata» rispetto a possibili tentativi dei rappresentanti di modificarne la struttura, ma aveva anche potere di veto sulle modifiche alla legge elettorale della Camera bassa.
Sedevano di diritto nella Camera dei pari i pr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Introduzione
  5. Avvertenza
  6. Il Giappone moderno. dall’Ottocento al 1945
  7. Parte prima: La costruzione della modernità
  8. Parte seconda: Il Giappone imperiale
  9. Parte terza: Crisi e crollo dell’impero
  10. Conclusioni
  11. Note
  12. Cronologia
  13. Bibliografia
  14. Indice dei nomi
  15. Indice dei luoghi e delle cose notevoli
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright