Il nome di Niccolò Machiavelli evoca una moltitudine pressoché infinita di pulsioni, idee, suggestioni, interpretazioni, passioni e persino riprovazioni e condanne. L’intento di questa ricerca è molto piú modesto: esplorare fino a che punto predicazione e azione di Niccolò abbiano interferito con la storia d’Italia, quella a lui contemporanea, e magari, almeno per certi versi, quella successiva. È evidente che anche una definizione cosí ristretta del punto di vista comporta l’intersezione con alcuni punti di capitale importanza nella storia europea, oltre che italiana. Per brevità, e per sgombrare il campo da questioni di ben altra rilevanza, che non sono alla nostra portata, mi limiterei a esordire con una domanda: come mai colui che viene considerato, pressoché unanimemente, il fondatore della teoria politica moderna, – il fiorentino Niccolò Machiavelli, – nasce, vive, opera e soprattutto pensa nel paese a quei tempi (a quei tempi?) politicamente piú contrastato e contraddittorio di Europa, e cioè l’Italia?1. Certo, non gli mancava la precisa conoscenza di quelle altre situazioni, – la Francia e la Magna in modo particolare, delle quali aveva avuto un’esperienza diretta e approfondita2, – da cui, essenzialmente per contrasto, aveva ricavato elementi atti a meglio valutare la propria. Ma il suo campo di sperimentazione e d’invenzione piú alto e piú impegnativo, quello che per l’appunto lo spinse a formulare gli elementi base della scienza politica moderna, resta senza dubbio l’Italia. E dunque?
Le risposte, al solo scopo di cominciare, possono essere due, ovviamente intrecciate fra loro.
La prima è di ordine squisitamente culturale. Machiavelli ha alle spalle e si nutre, piú che averne una semplice conoscenza, della grande cultura italiana dei due secoli precedenti, che comprende anche un afflato politico e civile molto forte. Il primo dato che possiamo acquisire, con irrevocabile certezza, è dunque questo: la scienza politica moderna nasce, con Machiavelli, da un humus culturale, il quale pose le basi per una conoscenza estesa, anzi illimitata, al di là di ogni superstite confine, non solo del politico, ma dell’umano. Potremmo aggiungere che è sempre stato cosí: se non ci sono queste premesse, la scienza politica non nasce, o nasce monca. Oppure, rovesciando l’ordine dei fattori: la scienza politica, se è di qualità superiore, fornisce incessantemente nuove cognizioni per la conoscenza. Questa è la strada maestra: l’Umanesimo italiano, appunto, – poiché com’è ovvio di questo si tratta3, – rivissuto però come in un laboratorio perennemente attivo e cioè, in sostanza, operante, ossia la sua pratica politica pressoché quotidiana, che gli consentí di affiancare, nei suoi strumenti di osservazione, all’Italia e all’Europa contemporanea, anche la Roma antica, fucina inarrivabile a livello mondiale di esperienze teoriche, giuridico-istituzionali e militari, in questo caso, dunque, dal suo punto di vista, soprattutto positive. Ma il quadro, a me pare, è persino piú ampio di questo.
In fondo, anche Dante, – il da lui conosciutissimo e amatissimo Dante, – aveva posto, – anche lui pressoché totalmente inascoltato ai suoi tempi, – un problema di molto simile a quello che Niccolò affronterà due secoli piú tardi: e cioè chi invocare e come fare per dare all’Italia un «principe nuovo», – e solo, – in grado di porre fine al disastroso particolarismo italiano e di contrapporsi come una forza autonoma allo strapotere illimitatamente egemonico della Chiesa di Roma (che viene fin da allora individuato, – ai primi del Trecento, – sia pure embrionalmente e potenzialmente, come il grande, irrisolto problema dell’unità politica italiana).
Com’è esperienza comune, e assolutamente generalizzata, nessuno potrebbe staccare lo sguardo, prima di averne concluso la lettura, da una qualsiasi delle pagine del Principe o dei Discorsi, – ma anche quelle delle Legazioni e delle Commissarie, o, come vedremo piú avanti, delle lettere, non sono da meno, – perché il flusso che vi scorre dentro non è mai né pura politica né pura scienza, e di conseguenza non è neanche la conoscenza di una pura dinamica del potere (secondo l’accezione piú vulgata e diffusa del pensiero machiavelliano); è invece una ricostruzione vivente di ciò che di volta in volta siamo, di fronte alle occasioni fortunate o, piú sovente, di fronte alle avversità e alle sciagure, e, in certi casi, di ciò che potremmo o addirittura vorremmo essere. La grande scienza politica moderna, di cui Machiavelli è l’iniziatore, non è mai solo sapere ma è anche volere: è anche, e forse soprattutto, conoscere per volere. Cercherò di mostrare che nessuno piú di Machiavelli ne fu, –e resta, – maestro.
Quello che Machiavelli intende elaborare e proporre è, insomma, al di là del puro politico, un «homo novus», dotato di caratteristiche inequivocabilmente differenziate rispetto a qualsiasi altra forma apparentemente consimile del passato. Affinché questo si realizzasse sarebbe stato necessario che la pura prassi fosse illuminata da un nuovo sguardo sul mondo. Non si tratta esclusivamente, beninteso, del cumulo di letture messe in gioco: ma dell’ineguagliabile, gigantesca presa sul mondo che un’intera civiltà culturale ormai consentiva (questa, in fondo, non è neanche una novità: l’Occidente tutto si è fatto di volta in volta cosí, a strati e scoperte successivi, resi consapevoli e a un certo punto sanciti, se non determinati, dall’accumulo progressivo delle riflessioni culturali, almeno fino ai giorni nostri).
Piú avanti, e arrivando in prossimità dei tempi che qui c’interessano di piú, non basterà piú ipotizzare la crescita di ideali indeterminati e piú mentali che reali (per quanto anche Dante poggiasse la sua utopia su di una presenza reale, corposa come quella dell’Impero di Arrigo VII: non abbastanza reale e corposa, però, da sopravvivere ai colpi della «fortuna»… come del resto accadrà a molte delle, per quanto piú concrete, ipotesi e pratiche di lavoro politico formulate dallo stesso Machiavelli). Man mano che le conoscenze crescono e l’humus culturale si allarga e si irrobustisce, bisogna sempre di piú calare l’occhio sul reale e meditare sulle possibilità concrete, non ideali, di modificarlo. Ma in cosa ci s’imbatte in questo caso, nello spazioel tempo in cui Machiavelli si trovò a operare, quando lo sguardo invece di restare recluso nel regno delle idee generali, fu orientato a calare sul reale?
Prima tappa, dunque, del nostro discorso. La situazione italiana rappresenta il mobile ordito sul quale Machiavelli costruisce la sua trama. Innumerevoli altri elementi, del passato e del presente, non solo italiani ma dell’intero mondo storico e contemporaneo, contribuiscono a formare il suo sistema. Ma tutto precipita, e si condensa, appunto, in un circostanziato apparato di idee e di proposte, solo quando l’eccezionalità della situazione italiana, – eccezionale al di là di qualsiasi altra situazione in quel momento reale o anche possibile o immaginabile, – gl’impone che questo accada.
Non sarebbe perciò azzardato sostenere che sia lo «stato d’eccezione» in cui versa l’Italia del suo tempo a sollecitare il suo straordinario bisogno di conoscenze e di azione: per salvare l’Italia, come lui avrebbe voluto (vedremo che questo è un punto decisivo del discorso), non bastavano gli strumenti consegnatigli dalla tradizione. Bisognava spaziare oltre i confini segnati dalla tradizione: e, ciò facendo, poiché in un certo senso sarebbe stato impossibile fare altrimenti, dal caso singolo si passava alle regole generali. Anche da questo punto di vista, il modello machiavelliano potrebbe valere per molti altri esemplari rappresentativi del pensiero politico moderno.
Abbassando lo sguardo sul mondo circostante, con l’ambizione di trovare la chiave, – anzi, le molteplici chiavi, – per cambiarlo, – cambiarlo in meglio ai fini ideali che cercheremo via via di individuare e di precisare, – i pensatori, i poeti, i politici, i pensatori politici s’imbattono in una visione della realtà, che, almeno apparentemente, sembra comprendere tutte le altre. La seconda risposta...