Sono nella lavanderia a gettoni di corso Giulio, dove lavoro. Anzi, dove sto di base. Non mi occupo di lavatrici e detersivi, sono un investigatore privato senza ufficio. Un ufficio mi costerebbe troppo per quello che guadagno, quindi ho fatto sapere in giro che se qualcuno ha bisogno dei miei servizi può trovarmi in questo posto. Mohamed Sabil, il marocchino padrone del locale, mi lascia stare qui perché ogni tanto lavoro per la sua comunità, con buoni risultati. Devo essermi distinto almeno per l’impegno, perché nessuno dei clienti ha ancora preteso in cambio la mia testa. Invece fuori dal quartiere c’è una lunga lista di persone che mi vorrebbero morto, per esempio la mia ex moglie. E forse anche mia figlia, che non vedo da otto mesi, piú o meno.
Ogni tanto Mohamed passa a svuotare la macchinetta dei soldi e a riempire quella dei gettoni. Di solito non ci diciamo niente, ci scambiamo solo un cenno d’intesa. Oggi però no. Oggi mi saluta e mi chiede come sto.
– Bene. Tranne per questo freddo del cazzo –. È gennaio inoltrato, due giorni fa è caduta un po’ di neve e adesso è diventata ghiaccio sui marciapiedi. Stamattina ho visto un tizio scivolare a terra di brutto. Qualcuno lo ha soccorso; il mondo è pieno di brave persone che la mattina soccorrono chi cade e la notte, magari, stuprano le ragazzine: se uno comprende questo paradosso può anche non stupirsi piú di niente – che poi è quello che intendo fare io per gli anni che mi restano da vivere.
Mohamed s’informa: – Sei occupato in questi giorni? – La sua voce è bassa, aspra. Quando si irrita, è meglio stargli alla larga.
Appoggio la «Gazzetta dello Sport» su una cesta per il bucato. – A leggere il giornale. Perché?
Il suo naso affilato annusa l’aria per un attimo, è il suo tic. – Mio nipote Driss si è messo in un casino.
– Che tipo di casino?
– Prestiti con albanesi per delle scommesse. Gli deve parecchi soldi –. Viene a sedersi.
– Quanti?
– Sui settemila.
Emetto un breve fischio. – Corse di cavalli?
Alza le spalle. – Non lo so con precisione. È un debito che è cresciuto nell’ultimo periodo –. Si accende un cigarillo lungo quattro dita. È un uomo sui cinquanta, alto e secco, la pelle chiazzata di macchie piú scure, i denti bianchissimi. – Ma adesso quelli hanno detto basta, o paghi o t’ammazziamo –. Il fumo gli esce dal naso, creando un curioso arabesco attorno ai capelli radi.
– E io cosa t’aspetti che faccia?
– Potresti andare a parlare con loro.
– Con gli albanesi?
Annuisce.
– Per dirgli che?
– Di avere pazienza ancora un po’, intanto che lui mette insieme i soldi.
Gli albanesi che prestano a strozzo non sono gente con cui sia possibile ragionare. Ho sentito storie poco simpatiche, in merito.
– Non credo che accetterebbero, – ipotizzo. – Soprattutto chiederanno delle garanzie. Driss ha qualcosa, che so, una macchina da vendere da cui potrebbe ricavare in fretta dei soldi?
– Non ha niente, non lavora da un anno. Prima aiutava Pavarà, l’idraulico, che l’aveva assunto in pianta stabile. Ma si è licenziato. Stiamo facendo una colletta per aiutarlo.
– Stiamo?
– Io e gli altri della comunità di Barriera.
– E quanto siete riusciti a mettere insieme?
– Mille –. Cava fuori dalla tasca dei calzoni le banconote trattenute da un fermaglio. Me le passa.
– Non ho detto che accetto. E poi perché non glieli porti tu, questi soldi?
– Mi stanno sul cazzo –. Tira fuori dall’altra tasca un coltello a scatto, preme il pulsante. – Capace che mi metto a tagliare la faccia a qualcuno.
– Con quell’affare non combineresti niente. Quelli ti sparano appena muovi un muscolo.
– Per questo mi sono rivolto a te.
– Già. Cosí ammazzano me. Non te, non tuo nipote. Me.
– Eri un poliziotto, Contrera. La gente lo sa. Lo sapranno pure loro.
– E con questo?
– Magari ci pensano due volte prima di ucciderti.
– Magari meno.
Questo caso potrebbe rivelarsi una rogna. Ma sfiga vuole che non lavori da un po’ e due soldi mi tornerebbero utili. D’altro canto, avere a che fare con una banda di albanesi è una prospettiva che non mi elettrizza.
Mi alzo e vado ad aprire il mio personale frigobar, dove tengo le birre. Mohamed mi ha concesso quell’angolo e non mi chiede niente in cambio. Devo dire che come padrone di casa mi ha sempre lasciato parecchia libertà. E molti suoi amici, nel corso del tempo, sono venuti da me su suo suggerimento. Perciò stappo la Corona e torno a sedermi. A lui non la offro perché è astemio e disprezza l’alcol. Il frigobar è davvero una grossa concessione, da parte sua.
Entrano un paio di clienti, che lo salutano. Due donne intabarrate, col velo a coprire parte del volto, che reggono ceste piene di indumenti da lavare. Mohamed ricambia il saluto con un cenno. Ma aspetta che io parli.
Guardo le due donne, che discutono in arabo e aprono i cestelli delle lavatrici con dimestichezza. Non ho idea del perché non lavino la propria roba a casa loro. Una volta o l’altra glielo chiedo. Bevo un lungo sorso.
– Parlami di Driss, – concedo alla fine.
– Driss Bouda. È figlio di un mio caro amico morto.
– Quanti anni ha? – Ormai ho sfilato il taccuino e la penna dalla giacca e sto prendendo appunti.
– Venti. Ma non te lo ricordi, Driss?
– Vagamente. Sposato? Figli?
– Una fidanzata, Naima. Driss vive con sua madre, Hafida. Che non sa niente, e niente deve sapere.
– Chiaro. Oltre a giocarsi i soldi degli altri, che fa nella vita?
Mohamed guarda le due donne, che da un minuto buono hanno smesso di conversare e ci stanno osservando. Appena incontrano i suoi occhi, si voltano e riprendono a parlare indicando i cestelli delle lavatrici. A dirla tutta, Mohamed ha uno sguardo terribile, di quelli che non si dimenticano.
Annusa l’aria un attimo, e torna a dedicarsi a me. – Niente, te l’ho detto. Vive con i soldi che gli ha lasciato suo padre, terreni che aveva venduto a Rabat per pochi spiccioli, e la pensione di reversibilità. Il padre, Hamid, era operaio alla Magneti Marelli, ci ha lavorato vent’anni. Poi è morto.
– Come?
– Un infarto. Mentre giocava a bocce coi colleghi. Sei anni fa –. La voce gli si è incrinata.
Do un’altra sorsata. La Corona mi risale dallo stomaco alla testa, è già la terza da quando sono arrivato. La birra mi fa sembrare il mondo meno brutto, tutto qui.
– Ci posso parlare, con Driss?
– No, rifiuterebbe il nostro aiuto. Vorrei che te ne occupassi senza che lui lo venga a sapere. Gli parlerò solo se gli albanesi accettano la proroga.
– D’accordo. E per il mio compenso?
Questa volta i soldi li prende dal portafogli. Tre biglietti da cento che sembrano appena usciti dalla zecca. Non li prendo subito. – Ti bastano? Devi solo andare da loro e accordarti.
– E se mi spaccano un braccio o una gamba?
Sorride. – Ti curiamo noi.
Prendo i trecento e lui si alza. Le macchie sul suo viso sembrano essersi decolorate.
– Ti aggiorno io, – gli dico.
– Bevi di meno, Contrera –. E se ne va.
Resto a fissare le due donne che fingono disinteresse e parlano fitto tra loro. Sto per decidermi a chiedere perché non lavino a casa quei panni, ma mi squilla il telefono e sono costretto a rispondere.
È Anna, la mia ex moglie. Non mi telefona da un bel po’, nonostante io abbia degli obblighi di carattere economico nei confronti di nostra figlia Valentina, che ultimamente non ho tanto onorato. Perciò sono tentato di non rispondere, ma alla fine prevale il buonsenso. O la paura di ritorsioni legali.
– Eccomi, ciao.
– Tua figlia si è messa nei guai, – esordisce col tono di voce che usa da quando me ne sono andato.
Mi corre un brivido sulla nuca. – Che guai? È incinta?
Fa un brutto verso gutturale, come se stesse trattenendo una risata o un conato di vomito. – Ma che cazzo dici?
Sospiro, liberato dal terrore di diventare nonno a quarant’anni. – Allora?
– Si è fatta beccare a rubare.
– E quando?
– Stamattina. Invece di andare a scuola è andata con un’amica in un negozio di profumi e trucchi –. Mi riferisce il nome del negozio, mai sentito. – Si erano infilate delle trousse negli zaini, quando hanno raggiunto la porta l’allarme ha suonato. Sono sc...