Amore e anarchia
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Amore e anarchia

La vita urgente di Soledad Rosas 1974-1998

  1. 400 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Amore e anarchia

La vita urgente di Soledad Rosas 1974-1998

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Informazioni sul libro

Soledad Rosas nasce a Buenos Aires nel 1974. Nel 1997, quando lascia l'Argentina, è una semplice ragazza di ventitre anni. Un anno dopo, quando fu ritrovata impiccata, era finita a Torino in una vicenda per cui l'accusavano di essere la terrorista piú pericolosa d'Italia. La sua è una storia di amore e anarchia, ma anche del modo in cui uno Stato può inventarsi i suoi peggiori nemici. Una storia che l'Italia conosce come la storia di «Sole e Baleno»: sullo sfondo di una Val di Susa che comincia a entrare in fibrillazione, di una città ostile, di alcuni centri sociali legati all'anarchia, Baleno, un anarchico torinese, e Soledad, una ragazza argentina finita per caso a dormire in una casa occupata, si innamorano. Indagini e intercettazioni della polizia li condurranno in prigione con accuse molto gravi. Baleno si toglie la vita e, qualche mese dopo, anche Sole. Entrambi diventeranno un simbolo dell'anarchia italiana, in una vicenda alquanto oscura.

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Informazioni

La vita italiana

1. Europa.

Quando il suo aereo atterrò all’aeroporto di Milano, María Soledad Rosas scottava per la febbre. Aveva male dappertutto e non riusciva quasi a muoversi: non appena superati i controlli, Silvia Gramático la convinse a infilarsi a letto. Soledad trascorse i suoi primi due giorni «in Europa» dentro il letto di una pensione milanese, prendendo analgesici mentre la sua amica le massaggiava i piedi. Si sentiva molto sfortunata: come aveva fatto ad ammalarsi proprio adesso, all’inizio del viaggio. Anche se a momenti sospettava che non si trattasse solo di sfortuna: probabilmente era una reazione allo spavento, all’agitazione per essersi lasciata il suo mondo alle spalle.
Quando Soledad riuscí ad alzarsi, uscirono a fare un giro in città. Milano non la colpí in modo particolare: a prima vista non sembrava poi cosí diversa da Buenos Aires. Nella mitologia della classe media argentina, il viaggio in Europa è un punto forte. Tanto per iniziare esiste l’«Europa»: un concetto fumoso che soltanto alcune agenzie di viaggio e i trattati commerciali insistono a voler sostenere e che gli argentini, in generale, cercano di percorrere – «hacer» – in pochi giorni. E, soprattutto, il viaggio in Europa – «el viaje» – è una cerimonia iniziatica che segna chiaramente un prima e un dopo, da cui ci si aspetta cambiamenti che di solito non avvengono: qualsiasi ermeneuta da bar parlerebbe del ritorno alle mitiche origini di questo popolo di europei espulsi. Ma adesso Soledad era «in Europa» e non succedeva niente: la città era forse un po’ piú ricca e piú pulita, ma non molto diversa. O almeno era quello che voleva credere: Soledad oscillava tra la disinvoltura e la paura, tra l’eccitazione e il timore di non sapere dove si stava andando a cacciare. «A Milano ci scattammo una foto», dirà Silvia Gramático, la sua compagna di viaggio. «Io ero appoggiata a un arco e lei era di fianco a me, con l’aria spaventata. Poi la sviluppammo e Soledad ci scrisse dietro:“Sembravo una ranocchia su una pietra”: spaventata. Come chi non sa ancora chi è, credo».
Il giorno dopo presero un treno fino a Domodossola, un paio d’ore piú a nord: lí le aspettavano i loro datori di lavoro per portarle fino al rifugio di Alpe Devero.
− Vedrete, qui la vita è davvero tranquilla, uno splendore…
Alpe Devero è un paese quasi inesistente nelle viscere delle Alpi piemontesi, a due chilometri scarsi dalla frontiera svizzera e a mille metri di altitudine. Il paese vive dei turisti amanti delle gite in montagna e dei pescatori con la mosca: il paesaggio è di una classica e convincente bellezza montana. Il rifugio alpino in cui Soledad e Silvia avrebbero lavorato, il bar pensione Fattorini, era un classico rifugio alpino con il tetto spiovente, poche camere e un ristorante senza grandi pretese. Era gestito da una coppia di trentenni: Luca era del posto; sua moglie, Cecilia, era nata a Buenos Aires ma viveva lí da parecchio tempo. Era una coppia gentile che mostrò subito loro la camera e spiegò cosa avrebbero dovuto fare:
− Bene, come vedete qui siamo davvero in pochi, quindi facciamo tutti un po’ di tutto. Voi dovrete servire ai tavoli, lavare i piatti, pulire, tutto.
− Io ho anche un titolo come amministratrice alberghiera, magari potrebbe servire per…
− Ah sí? Bene. Be’, poi vedremo come possiamo fare con quello.
A giugno il rifugio era quasi vuoto e Soledad si annoiava a morte. Era deludente: non erano andate cosí lontano per restarsene rinchiuse in un paesello, sebbene garantissero loro 700 dollari al mese. Sole era sorpresa: credeva che in Europa gli stipendi fossero piú alti. Dopo qualche giorno, Soledad e Silvia dissero ai loro titolari che, siccome non c’era ancora tanto lavoro, magari potevano accordarsi in altro modo: avrebbero viaggiato un po’ per l’Italia e sarebbero tornate dopo una decina di giorni, non appena fosse arrivata piú gente. E poi magari avrebbero potuto lavorare nel weekend e viaggiare in settimana. «Come potrete immaginare non sono stata io a proporlo», scrisse Soledad ai suoi genitori; «è stata Silvia a imporsi e io sto imparando da lei».
«Lei adorava stare lontano da casa», dirà Silvia Gramático. «A casa sua era tutto tenuto sotto controllo: era tutto cosí perfetto, cosí pulito, cosí organizzato che non c’era spazio per la follia, per nessuna deviazione. Quando iniziammo a viaggiare la conobbi piú a fondo. Io me ne prendevo cura come fosse una figlia, credimi. Sole era una bimba, una new hippy, voleva soltanto fumarsi il suo spinellino tranquilla, rilassata, serena. Non aveva un’idea precisa. Erano delle vacanze in cui lavorare anche un po’, magari fermarsi, se ci andava. Quando arrivammo, percepii subito il suo bisogno di libertà. Faceva cose decisamente piú strane rispetto a quelle che di solito fa la gente. Per esempio, in un paesino di montagna, si salta subito all’occhio se si trasgredisce. Alpe Devero è un posto fatto per gli amanti della montagna, è piccolino, non succede mai niente e la gente non fa altro che parlare della pioggia o del tempo che cambia di continuo. Ma noi salivamo sull’autobus, lei si toglieva le scarpe e metteva i piedi sul sedile. O si spogliava a casa di qualcuno per farsi fare un massaggio… Finalmente si era liberata della sua famiglia, era lontana. Ma certi giorni si alzava e scoppiava a piangere, apparentemente senza motivo, non c’era vestito che le piacesse, e io la dovevo aiutare in questo, era triste».
Quei giorni arrivavano senza preavviso, senza che nemmeno sapesse il perché, ed era dura: «Certi giorni non sto bene», scrisse Soledad a Ezequiel Gramático, il figlio di Silvia. «È come se arrivasse una nuvola nera che mi stringe con forza il petto e mi chiudo e non riesco a comunicare con nessuno. Immagino sia un po’ di insicurezza e un po’ di paura di dire quello che penso, ma ogni giorno provo ad allontanarlo un pochino. Comunque, oggi mi sento bene».
Il 1° luglio, Silvia e Soledad tornarono a Milano per prendere un treno per Firenze: adesso, forse, il viaggio avrebbe davvero avuto inizio.
«Ciao, bella: come stai? L’inverno è tanto freddo o lo stai passando a letto come piace a te e come manca a me?», scriveva cosí Soledad, il 4 luglio, due settimane dopo il suo arrivo, alla sua amica Soledad Echagüe, Sole Vieja. «Qui è tutto molto bello, ma ti confesso che sento parecchia nostalgia, il fatto è che qui sono davvero lontana. Adesso sono a Firenze da quattro giorni, è la città piú bella che abbia mai visto. Ma dopo qualche giorno mi sento soffocare, le strade sono molto anguste e non c’è un albero. Nei primi due giorni non è stato cosí, ero affascinata dalla bellezza. Ma adesso sono già stanca dei turisti e del gas di scarico delle macchine. Ieri, in piazza, ho conosciuto una brasiliana che vive qui, lei canta. Questa ragazza ci ha presentato uno scultore argentino, anche lui vive qui. Il tipo è molto gentile e oggi ho posato per lui».
Il ragazzo si chiamava Erman, era di Mendoza e offrí a Soledad la prima delle avventure che lei stava cercando: posare nuda per un artista era una cosa che avrebbe potuto raccontare agli amici. «Quel ragazzo è scultore e mi ha proposto di lavorare per lui», scrisse poco dopo a Fabián Serruyo. «Ho posato un giorno per lui, mi ha scattato delle foto ed è andato tutto bene, il tipo è stato super professionale e non ha mai provato ad andare oltre, anzi al contrario». Il contrario è sempre difficile da capire.
A Firenze trascorse quattro giorni facendo lunghe camminate, comprando focaccia da mangiare in una piazza, continuando a camminare, ammirando le novità, camminando, ammirando le antichità, bevendosi una gazzosa, cercando altre possibili cose da ammirare: il duro lavoro del turista. Quando si stancarono, partirono verso Roma per continuare con questo lavoro. «Quando ci stufiamo di una città, ce ne andiamo», scrisse a Fabián. «Qui va tutto bene, davvero, vediamo belle cose e mi è abbastanza facile muovermi in Italia. E tu come stai? Non sai quanto mi manchi. Il fatto è che da cosí lontano la mancanza si sente un po’ di piú, soprattutto degli amici del cuore come te».
Soledad faceva continue scoperte, ma l’eccitazione per queste scoperte non le impediva di continuare a pensare a ciò che aveva lasciato a Buenos Aires: «Sai, bella, sto davvero bene, questo viaggio non è paragonabile a niente e non ho problemi che mi facciano venire voglia di tornare», scriveva a Soledad Echagüe. «Oh, bella, il mio cuoricino è lí a Bs.As. con tutti quelli a cui voglio tanto bene, come te. Ti penso sempre e tu stai viaggiando da queste parti con me perché sei nel mio cuore. […] Dài, bella, abbi cura di te e cerca di essere il piú possibile felice perché la vita è una sola ed è molto breve. E fumati uno spinello alla mia salute, che quel fumo ci possa unire da lontano. Senti, bella, quando riceverai la mia lettera, chiama Gaby, dille che sto benone e che le voglio molto bene.
Per favore, se hai voglia scrivimi. Calcola che le lettere ci impiegano 15 giorni e io resto a questo indirizzo fino a fine agosto.
Ti voglio bene. Ti mando un bacio sulle gengive, sull’esofago, tra le dita dei piedi, sotto l’ascella, sull’ombelico, dietro il ginocchio, la riga del culo, sulla cuticola etc. etc. Con affetto e amore, la Sole piccolina alla Sole vecchia!!!»
Soledad e Silvia rimasero tre giorni a Roma. Soledad vide una città che le parve insolente e troppo monumentale: non riuscí a scoprirne gli angolini.
− Ehi, qui ci sono troppe rovine e poco movimento. Secondo me ce la potremmo svignare.
«Silvia è la migliore, è un’ottima compagna di viaggio», scriveva a Fabián Serruyo. «Ti manda un grande bacio. Dice che le sei stato simpatico, che si vede che sei una brava persona.
Fabi mi auguro che tu ti stia prendendo cura di te e non stia spendendo soldi in sciocchezze, piuttosto tienili per venire qui. Ho calcolato che a fine agosto smetterò di lavorare, quindi a settembre sarò in Spagna. Fá, vieni da queste parti, dài che mi manchi. Ucciderei perché ci venissi con Gaby.
Hai rottamato la mia macchina? Mi auguro di no perché in estate voglio fare la pensione per cani. Be’, se non c’è la mia macchina possiamo usare la tua e cosí tiriamo su dei bei soldoni.
Oh, Fabi, se inizio a scrivere quello che mi piacerebbe fare a Buenos Aires è segno che ho una grande nostalgia.
Non so, Roma mi fa provare un sapore amaro. Oggi, quando ho visto il Colosseo ho percepito il dolore degli animali e delle torture che ci facevano dentro. E poi oggi è anche domenica».
Il viaggio continuava a non essere un vero viaggio. Arrivate a Napoli, per le due amiche si fece un po’ piú movimentato. Per un certo tipo di mitologia di viaggio, conoscere una città presuppone girare le sue zone marginali. Signori che non parlerebbero mai con il proprio verduriere vanno in estasi se possono scambiare quattro parole con una panettiera parigina: contatto con gli aborigeni. Ma è anche vero che il viaggio presuppone una certa libertà: quella data dalla mancanza di abitudini. Uno, a casa propria, ha un determinato percorso con fermate già fissate; fuori da casa propria, le perde e ne deve scoprire altre. Ed è cosí che si incontrano con quelli che vivono fuori da quei percorsi che loro stessi, nelle proprie città, frequentano.
«A Napoli l’avventura ha avuto inizio», scrisse Soledad ai suoi genitori. «Quando siamo arrivate, la stazione sembrava Constitución e siamo andate in un alberghetto lí vicino. C’erano tipo 30° e io non ce la facevo piú, ma le ore passavano e abbiamo iniziato a prendere confidenza con il posto. Siamo salite su un tram e siamo andate in spiaggia. Mamma mia! Parlavano tutti in dialetto ed erano cosí grezzi che sembravano cavernicoli. E colmo dei colmi, l’acqua lurida e la sabbia nera. Evviva il primo mondo! Silvia ha dormito tutte le due ore che siamo state lí e io mi sono messa a pensare al Brasile. Ce ne siamo andate e abbiamo preso un pullman per fare il giro della città. È il modo migliore per conoscerla e poi non si paga. Alla fine abbiamo raggiunto il punto della movida napoletana».
In piazza Santo Domenico, Silvia e Soledad conobbero un gruppetto di punk: Silvia, piú diretta, intavolava conversazioni, e Soledad, timida, si accodava. «Io a volte – quasi sempre – all’inizio sono molto timida e faccio fatica a ingranare, ma la Gringa, con la sua chiacchierata sciolta, ingrana in fretta e insieme facciamo una bella coppia», scrisse Soledad a Ezequiel, il figlio della Gringa Silvia. «Il fatto è che siamo in sintonia, tua madre brilla di luce propria, ci divertiamo molto insieme, ridiamo persino di noi. È come se tua madre non abbia età. Per me è come una madre spirituale, ma anche una sorella e un’amica».
Nei due o tre giorni seguenti, i punk della piazza si occuparono di loro. C’era un po’ di tutto in quel gruppo: «Un ex combattente delle Falkland (inglese), un vecchio olandese di quelli che vanno su quelle moto tipo Harley, un paio di ragazzi e ragazze della mia età e poi eccoti don Nino, il vecchio della banda», scrisse Soledad ai suoi genitori. «Era un regista che ha girato un film in una fabbrica abbandonata nella periferia di Napoli. Il film: Napoli in Decadenza. Era una specie di guida per noi, ci portava in giro, ci faceva vedere la città. Fin quando non siamo arrivati in questa fabbrica abbandonata, era allucinante, proprio da film. Era una fabbrica di barche per cui avevamo la nostra spiaggia privata. E come sfondo paesaggistico c’era quel vulcano cosí famoso di cui adesso non ricordo il nome».
«Ci restammo qualche ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione all’edizione italiana. Amore & anarchia & tanti anni
  4. Nota all’edizione italiana
  5. Amore e anarchia
  6. L’irruzione
  7. Una vita argentina
  8. La vita italiana
  9. Prigione
  10. Amor se fue
  11. Gli ultimi giorni
  12. Un epilogo
  13. Ringraziamenti
  14. Appendice all’edizione italiana
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Dello stesso autore
  18. Copyright