Non difenderò dunque un’identità culturale francese o europea, come se la si potesse definire per differenza e fissarla nella sua essenza. O come se si potesse trattare la cultura in termini di appartenenza. Come se io possedessi la «mia» cultura. Difendo invece le fecondità culturali francesi, europee, cosí come si sono dispiegate in Francia e in Europa, attraverso scarti inventivi. Le difendo perché sono loro debitore per quanto riguarda la mia educazione e, di conseguenza, ne sono responsabile, nella loro manifestazione cosí come nella loro trasmissione. Ma non per questo le possiederò. Non è infatti evidente che le persone piú attente a queste risorse o fecondità sono molto spesso degli Stranieri? Costoro forse non sono spesso piú attenti alle risorse della lingua francese e alla sua correttezza di quanto non lo siano tanti francesi detti «nativi»? È anche vero, però, che una cultura nasce e si sviluppa sempre in una certa area e in un certo ambito, come ha pensato Nietzsche. La cultura compare sempre localmente, in una prossimità e in un contesto: in una lingua e in un ambiente, creando pregnanza. O, per meglio dire, non localmente ma focalmente; dal momento che la cultura si sviluppa sempre come un «focolare». E dunque attraverso il singolare – perché soltanto il singolare è creativo. Il dispiegamento della cultura è circostanziale: nella Firenze dei Medici o nella Vienna ebraica della fine del XIX secolo; ma anche alla corte letterata dei Wei e dei Jin, nel III e IV secolo, nella Baghdad degli Abbasidi, tra l’VIII e il X secolo, o nell’Andalusia illuminata del XII secolo, nel luogo e nel momento in cui per indicare la «filosofia» in arabo si usava il termine falsafa. In seguito, e tornerò sull’argomento, queste risorse sono diventate disponibili a tutti.
Difendo ancor piú queste risorse oggi che sono minacciate, oggi che bisogna resistere, e sui due fronti che ho già tracciato: da una parte, quello in cui l’uniforme funge da sembianza e da simulacro dell’universale; dall’altra quello in cui il comune, non piú supportato dall’universale, si tramuta nel suo contrario (il «comunitarismo»). Bisogna infatti resistere da un lato all’impoverimento delle culture, al loro appiattimento generato dall’uniformazione mondiale e commerciale. Perché questo è il mercato che «fa mondo». Pile e pile dello stesso Harry Potter si trovano contemporaneamente in tutti gli angoli del pianeta e formattano nello stesso identico modo l’immaginario dei giovani – e ciò avviene sempre di piú, nello stesso globish. Questa è dunque innanzitutto una resistenza delle lingue, perché se noi parliamo tutti un unico idioma, se gli scarti fecondi tra le lingue vanno perduti, esse non potranno piú riflettersi l’una nell’altra: non lasceranno piú scorgere le loro rispettive risorse. Presto non potremo piú pensare se non con gli stessi concetti standardizzati che ci porteranno a scambiare per universale quelli che non saranno altro che stereotipi del pensiero. «Babele», in effetti, è proprio l’opportunità del pensiero. In altre parole, con il pretesto di una comunicazione piú facile ci lasceremo privare, con una trasformazione silenziosa, delle risorse di pensiero che sono innanzitutto in lingua: nella diversità delle lingue e nei loro scarti inventivi. Non tradurremo piú. Non saremo piú immersi in questo tra cosí fecondo che si trova tra una lingua e l’altra in cui i possibili di una lingua si mettono alla prova e si scoprono nell’altra, reciprocamente. In questo tra in cui il traduttore può riaprire una lingua a partire dall’altra, farla uscire dal suo conformismo, sollecitarne le capacità. Nel momento in cui ci si allarma per l’esaurimento delle risorse naturali del pianeta e della sua «biodiversità», perché non ci si dovrebbe preoccupare altrettanto dell’esaurimento delle risorse culturali?
Dall’altra parte, bisogna resistere alla minaccia che grava sul comune – quale che sia la scala di questo comune: un paese, un continente, il mondo – consistente nello scivolamento del comune stesso nel suo contrario: il comunitarismo. È evidente che, se si oltrepassa una certa soglia, se l’integrazione nella comunità non avviene piú, la condivisione che crea il comune si trasforma nel suo contrario: diventa settarismo e ripiegamento identitario oppure, in una modalità aggressiva, si tramuta in volontà di esclusione o di distruzione. Ma questi due fronti su cui bisogna resistere sono comprensibilmente collegati: la rivendicazione identitaria è l’espressione del rimosso prodotto dall’uniformazione del mondo e dal suo falso universale – processo di uniformazione che sappiamo essere innanzitutto economico e finanziario. La mancanza di integrazione si rovescia dunque in integralismo. Lo constatiamo in modo violento, in Francia, con l’islamismo: il risultato è che il comune culturale condiviso in questo paese (ma potrebbe anche essere in un altro), e che fa questo paese, si sta incrinando sempre di piú, fino a spezzarsi. Se non ci organizziamo per difendere il comune verrà un giorno, forse non cosí lontano, in cui in Francia non potremo piú studiare a scuola Molière o Pascal per timore di turbare delle convinzioni e anche, a livello piú elementare, perché la conoscenza della lingua comune – il francese, compreso il francese classico – non sarà piú sufficiente. Ma che cosa significa allora «difendere»? Anziché intendere questo «difendere» solo in modo timoroso e difensivo, difendere delle risorse significa innanzitutto attivarle. Perché è proprio sviluppando – attivando – la conoscenza del francese come risorsa elementare, comune, di tutti i francesi, o la lettura di Molière (o di Rimbaud) come risorsa d’intelligenza condivisa, che si dispiegherà effettivamente il comune culturale della Francia, e a partire dalla diversità delle sue risorse, invece di restare aggrappati a una fantomatica identità. E naturalmente questo principio è valido per qualsiasi paese al mondo.
È necessario infatti fermarsi un attimo sul plurale consustanziale a questo concetto di «risorse». Un’identità culturale francese o europea non esiste, ma esistono risorse (francesi, europee, e anche di altre culture). Un’identità si definisce, le risorse si enumerano. Vengono esplorate e sfruttate – ed è questo che io chiamo attivare. L’esigenza di universale è essa stessa una risorsa (anche se il suo pensiero è, rendiamocene conto, non universale, ma singolare) e questo lo vediamo grazie a quella capacità che abbiamo chiamato «regolatrice»: la capacità di promuovere indefinitamente il comune nella Storia e di mantenerlo aperto, benché abbia sempre la tendenza a rinchiudersi e murarsi in essa. La specificità della risorsa è la sua capacità di promozione. Un’altra risorsa europea correlata all’universale mi pare sia, per cominciare a indicarla in modo globale, la promozione del Soggetto: non dell’individuo (e dell’individualismo ripiegato sulla ristrettezza del suo io), ma del soggetto come un «Io» che si enuncia e, in questo modo, introduce la sua iniziativa nel mondo, vi porta un progetto che forza gli sbarramenti che chiudono il mondo: cosí facendo consente all’io di «starsene fuori», di non essere confinato in un mondo e, propriamente, di «esistere» (ex-sistere). Il che si traduce, dal punto di vista politico, in quella risorsa, sempre da liberare, che è la libertà del soggetto; e da cui la democrazia trae – anche se fatica sempre a trovare la sua costituzione – la sua ragione e la sua legittimità. Infatti la democrazia consiste innanzitutto nel trattare gli altri come soggetti o, meglio, nel promuovere una comunità di soggetti. È per questo che la sua grande forza, a partire dai Greci, è la capacità di convincere l’altro tramite la parola (peithein), rivolgendosi a lui come a un soggetto di iniziativa e libertà e, in quanto tale, di considerarlo uguale a sé, invece di volerlo porre sotto la propria influenza o sottometterlo con la violenza. Infatti soltanto la persuasione, come sapeva Platone, può essere un’alternativa alla forza bruta.
Se volessimo, dunque, non definire l’Europa, ma tracciare un campo di eredità e coerenze che «fa» Europa, campo che è sempre da rivangare e lavorare, si potrebbe cominciare interessandosi a tutti quei termini il cui contenuto semantico è comune alla grande lingua europea. Il termine «paesaggio», nato in pittura, è un termine europeo (paesaggio, paisaje, ma anche Land-schaft, landscape… –, compreso il russo). Esprime la promozione di un «paese» a «paesaggio» – e in questo anche il paesaggio è una risorsa. La Cina, che è l’altra grande cultura del paesaggio, apre uno scarto rispetto a questo significato semantico dicendo «montagna/e - acqua/e», shan-shui, la correlazione di Alto e Basso (o di mobile e immobile, di ciò che ha forma e ciò che non ha forma, ecc.). La Cina propone cosí un’altra risorsa: altrettanto coerente e potente, ma che non è stata pensata, e neppure immaginata, all’interno dell’Europa, offrendo cosí un diverso tramite per entrare nel concetto di ciò che chiamiamo «paesaggio». Un altro esempio può essere «ideale», una parola che ritroviamo in tutte le lingue europee (compreso, credo, l’ungherese, una lingua che non è indoeuropea). Il termine «ideale» esprime questa risorsa essenziale: noi possiamo produrre una rappresentazione ideale (astratta) e promuoverla a «ideale» facendone l’oggetto della nostra aspirazione (in Platone, il desiderio, eros, che si innesta sulla forma-modello, eidos). Tale risorsa dell’ideale, erigendosi a vocazione, ha portato lo sviluppo dell’Europa, e questo fino a giungere all’idea di rivoluzione, in arte come in politica. Tale risorsa dell’ideale si è oggi esaurita? In ogni caso notiamo che una lingua-pensiero come quella cinese non ha separato questo piano dall’idealità: il neologismo li-xiang in cinese contemporaneo non è altro che un prestito dall’europeo, l’innesto di un nuovo significato. In effetti le risorse culturali, e prima di tutto quelle della lingua, si prendono a prestito, si importano e non costituiscono una proprietà.
Bisogne...