Le illusioni della certezza
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Le illusioni della certezza

  1. 288 pagine
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Le illusioni della certezza

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« Le illusioni della certezza è uno dei migliori libri sul problema mente-corpo che abbia mai letto. Siri Hustvedt ci accompagna in un viaggio affascinante al cuore di una domanda troppo spesso rimasta senza risposta: cosa significa essere umani?»
Vittorio Gallese «In questo libro, tanto importante quanto godibile, Hustvedt riesce ad andare oltre il trito dibattito sulle "due culture": mostra i vantaggi di combinare insieme arte e scienza per indagare la condizione umana».
Antonio Damasio

Cosa significa per la mente interrogare se stessa? E cos'è, in fondo, la mente? Sono quesiti classici della filosofia, eppure è difficile dare risposte che non siano solo autorevoli, ma anche definitive. «Una delle poche verità universali quando si parla di idee può essere che le domande sono solitamente migliori delle risposte», suggerisce Siri Hustvedt, da tempo consapevole che la questione è molto piú complessa - e affascinante - di quanto non sembri. Armata dell'accuratezza di una studiosa e della passione di una scrittrice, decide di portare il problema mente-corpo sul banco degli imputati della filosofia. L'indagine si snoda tra questioni teoriche e storiografiche, ripercorre gli eventi essenziali per determinare le coordinate del dibattito contemporaneo, scandaglia i fondali della letteratura, scientifica e non. Ecco quindi chiamati a deporre personaggi solitamente trascurati o poco ascoltati - Margaret Cavendish con il suo strano ibrido di panpsichismo e panorganicismo; il Diderot de Il sogno di d'Alembert; il Vico de La Scienza Nuova; un conoscente qualsiasi colto alla sprovvista - nel tentativo di rendere cristallini alcuni aspetti chiave della condizione umana. Con l'incedere armonioso della narratrice, Siri Hustvedt interpella scienza, natura e cultura per esaminare l'immaginazione, i desideri, le credenze, i sogni che influenzano la coscienza e riempiono di vita gli esseri umani. Quale sarà il verdetto sulla mente, il cervello, il corpo, il pensiero? Impossibile emettere una sentenza: solo attraverso il dubbio si può osservare la realtà e imparare qualcosa in piú su se stessi e sul mondo. Dalle sensazioni del feto alle relazioni intersoggettive che plasmano la nostra persona, dall'esperienza dell'essere vivi ai tentativi di intelligenza artificiale: con Le illusioni della certezza Siri Hustvedt affronta coraggiosamente la questione irrisolta del problema mente-corpo che tanto a lungo ha distorto e confuso il pensiero contemporaneo.

«Esperta di neuroscienze e scrittrice, Hustvedt si pone le domande che nessuno ha mai osato fare su immaginazione, identità, epistemologia, diseguaglianze di genere, mortalità. Con sapienza e coraggio sfida tutte le certezze acquisite. Questo libro, in fondo, nasce dalla libertà».
Rita Charon

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858429273

Entrare e uscire

Nonostante le continue, entusiastiche previsioni di uteri artificiali e vite eterne, tutto grazie all’innovazione tecnologica, a oggi valgono ancora i principî secondo i quali ogni essere umano nasce dal corpo di una madre ed è destinato a morire. Nessuno sceglie di nascere e, sebbene qualcuno decida di morire, molti di noi preferirebbero evitarlo. Inizio e fine, vita e morte non sono concetti semplici. La questione di quando abbia avuto inizio la «vita» è da sempre oggetto di un acceso dibattito politico, oltre che un problema filosofico. Cosa si intenda per «morte» è altrettanto poco chiaro ma, appena un cadavere comincia ad andare in putrefazione, ogni dubbio svanisce. In ogni caso, tutti i mammiferi hanno origine da uno spazio materno. Eppure il fatto che un feto, quell’entità che ciascuno di noi un tempo è stato, sia legato fisicamente alla propria madre e non possa sopravvivere senza di lei ha giocato un ruolo relativamente modesto nel modo in cui il pensiero filosofico e scientifico dominante si è posto la questione su cosa sia in realtà l’essere umano.
Sono stati scritti innumerevoli libri sul perché e sul come, nella storia dell’Occidente, si sia fatta strada l’idea dell’uomo come essere autonomo, autosufficiente, libero, capace di forgiare il proprio destino. Molti di essi si sono concentrati su come alcune idee storicamente determinate abbiano potuto plasmare la coscienza di intere popolazioni e arrivare fino a noi; ci si è chiesti se l’ideale umanista – che si crede sia emerso nel Rinascimento (denominazione attribuita ovviamente a posteriori) e abbia raggiunto l’apice durante l’Illuminismo – sia un modello buono o cattivo, oppure entrambe le cose. In genere questi libri non tengono conto della biologia. Pur dando per scontata l’esistenza di realtà biologiche – come si può essere influenzati da un’idea senza una mente e un corpo disposti ad accoglierla? – la complessità materiale degli organismi viventi rimane spesso ai margini del discorso.
Anche la biologia, però, si basa sui concetti di vita e morte, di inizio e fine, di confine delle creature. La pelle, per esempio, rappresenta un confine che ricopre per intero un essere umano, che è formato da miliardi di cellule. Un batterio, d’altro canto, è un organismo microscopico, solitamente unicellulare, che consuma sostanze nutritive, si moltiplica e diventa una colonia con una sua morfologia (forma e struttura) ed è dotato di movimento. La scienza consiste nel creare modelli validi e nello stabilire confini con i quali suddividere la natura in unità comprensibili, che possano poi essere classificate, denominate e sperimentate. A volte classificazioni e nomi perdono di rilevanza e gli scienziati sono portati a adottare un modello con nuove denominazioni, piú adatto alle loro necessità. È essenziale, in ogni caso, distinguere una cosa dall’altra. Isolare un’entità può talvolta risultare difficile perché i suoi confini possono essere tutt’altro che evidenti. In questo senso, è interessante scoprire che gli scienziati sanno davvero poco della placenta, che negli ultimi anni è stata definita organo incompreso, sottovalutato e addirittura «l’organo neuroendocrino perduto»1. Naturalmente, nel momento in cui a una persona, a una cosa o a un organo corporeo si attribuisce lo status di entità «ingiustamente ignorata», di solito si tratta del segnale che i tempi sono cambiati. La placenta è un organo di confine, posto fra la madre e il feto. È una struttura composita, a volte descritta come organo feto-materno, perché si sviluppa dai tessuti di entrambi, sia della madre sia dell’embrione. Occupa insomma una posizione intermedia nello spazio materno.
La placenta fornisce sostanze nutritive e ossigeno al feto, rimuove le sue escrezioni, gli offre una protezione immunitaria, produce l’ormone chiamato «progesterone» ed è dotata di due diversi sistemi circolatori sanguigni, uno per la madre e uno per il feto. Le sue molteplici funzioni giustificano la definizione, data da un embriologo, di «terzo cervello» in gestazione2. Le viscere umane, o sistema nervoso enterico – stomaco, esofago, intestino tenue e colon –, si sono invece guadagnate l’appellativo di «secondo cervello»: pare sia diventato di moda trovare cervelli in diverse parti del corpo. La placenta si forma solo nelle donne e solo con la gravidanza, ed è un organo transitorio: una volta terminata la sua funzione, viene espulsa dal corpo femminile soltanto dopo la nascita del bambino, dunque per seconda. Da qui il termine «secondamento».
Sin dai tempi della rivoluzione scientifica il principio del divide et impera rappresenta un percorso di comprensione, nel quale però molto dipende dalle suddivisioni che vengono introdotte. Alla facoltà di medicina, durante una conferenza sulla fisiologia del travaglio e del parto, mi ero imbattuta in una frase piuttosto intrigante:
Le fasi meccaniche a cui è sottoposto il bambino possono essere suddivise arbitrariamente e, da un punto di vista clinico, sono di solito scomposte, per semplificare il discorso, in ulteriori sei o otto passaggi. Bisogna capire, in ogni caso, che si tratta di distinzioni arbitrarie all’interno di un continuum naturale3.
Il fisiologo ci dice prima di tutto, non senza un certo imbarazzo, che ciò che accade al bambino durante il travaglio e la nascita consiste in una serie di fasi meccaniche, indebolendo però la sua stessa affermazione nel momento in cui sostiene che quelle fasi possono essere a loro volta suddivise arbitrariamente. Se sono arbitrarie e non riproducono esattamente il continuum naturale – che, in quanto continuum, è in contrasto con l’idea stessa di «fase» – allora l’espressione «fase meccanica» non è un buon modo per iniziare la frase. Le «fasi», per dirla piú semplicemente, sono strumenti di comodo usati per segmentare un processo indivisibile e continuo. Spesso può capitare di perdersi tra le ambiguità di una cattiva prosa, ma la mia sensazione è che il linguaggio dell’autore non rivelasse tanto un’ambivalenza riguardo a dove tracciare una linea tra una cosa, o una «fase», e l’altra, quanto il desiderio di assicurarsi che i suoi studenti comprendessero la differenza tra le categorie usate in medicina e i processi dinamici cui fanno riferimento – in questo caso travaglio e nascita.
Il linguaggio conta, e il linguaggio genera continuamente metafore. Per esempio, com’è che la placenta diventa un terzo cervello? Secondo Samuel Yen, che ha coniato l’espressione, la placenta svolge un complesso ruolo di mediazione tra il cervello della madre e il cervello immaturo del feto; è un cervello-ponte temporaneo dotato di sorprendenti e sofisticate capacità di regolazione dell’ambiente fetale. Il linguaggio impiegato per descrivere cosa fa la placenta comprende termini solitamente usati per il «primo cervello», cosí come per altri sistemi corporei: «messaggi», «segnali», «comunicazione» e «informazioni». Non sarebbe assurdo domandarsi dove, in tutti questi rimandi sistemici, entri in gioco l’idea di «mente». Sebbene sia strano pensare alla placenta come a qualcosa di simile a una mente, è meno strano associarla a qualcosa di simile a un cervello – altro organo fisico sofisticato e di enorme complessità, non ancora del tutto compreso. Anche se il cuore continua a pompare e i polmoni sono ancora in attività, nel momento in cui il cervello cessa di funzionare non cessa di funzionare anche la tua mente? Significa che sei morto? Oppure è necessario che tutta la «comunicazione», di ogni natura e genere, e l’intero movimento biologico si arrestino prima che una persona sia davvero morta e inizi a decomporsi?
Che significato ha per la mente – sempre che ne abbia uno – il fatto che nei mammiferi la gestazione avviene all’interno di un corpo altrui? Che nesso c’è tra questo dato biologico e il modo in cui un mammifero si sviluppa nel tempo? Tutti nascono da qualcuno, ma non si muore in coppia. Moriamo da soli, nonostante accada talvolta che un coniuge, un partner o un amico seguano a breve distanza la persona amata nella tomba. L’espressione che una volta descriveva questo fenomeno era «morire di dolore». Noi esseri umani veniamo al mondo uscendo dal corpo delle nostre madri e lasciamo lo stesso identico mondo nel momento in cui il nostro corpo, in un modo o nell’altro, si spegne. La mente, e la coscienza che la accompagna, ha inizio con la nascita e termina con la morte? Dov’è localizzata, esattamente, nel corpo? È soltanto il cervello a pensare, oppure anche altri organi, in un certo senso, pensano? E cosa significa pensare? Perché alcuni scienziati contemporanei sono convinti che, grazie alla mente artificiale, sia possibile sconfiggere la morte, non in paradiso, ma qui, sulla terra? Sono tutte domande alle quali non è facile dare una risposta, ma che mi riportano indietro nel tempo fino al Seicento, quando filosofi noti e meno noti si dedicavano con acribia a cercare di comprendere cos’è la mente e che relazione ha con il nostro corpo.

Vestaglie, triangoli, macchine, menti incarnate e giganti.

Da quando ho letto le Meditazioni di Cartesio per la prima volta, quasi quarant’anni fa, è rimasta nella mia mente un’immagine del filosofo seduto su una morbida poltrona, con indosso una vestaglia di velluto e una berretta da notte, le pantofole e un paio di occhiali sul naso. Forse non portava davvero gli occhiali, ma molte erano state le sue scoperte nel campo dell’ottica, e questo potrebbe spiegare perché essi compaiono nella mia immagine mentale. Mi appare non come una persona in carne e ossa, ma come un disegno, simile a quelli fatti due secoli dopo dall’illustratore di Dickens, «Phiz». Questa immagine di Cartesio è un disegno stilizzato che mi torna in mente ogni volta che penso al dubbio radicale. Nella Prima Meditazione (1641) Cartesio si chiede se esiste qualcosa di cui si possa essere certi. Sicuramente, scrive, non posso dubitare del fatto «che io ora sto qui, seduto accanto al fuoco con addosso una vestaglia da inverno, maneggio questo foglio di carta su cui vado scrivendo»4. Ma il filosofo non è del tutto certo di essere lí accanto al fuoco. Non ha forse fatto sogni molto simili, non gli è forse capitato di sognare, si chiede, di essere seduto accanto al fuoco in vestaglia, e di essere certo che quei sogni fossero reali? Come Platone prima di lui, Cartesio diffidava del tipo di conoscenza che giunge dai sensi.
Dopo aver assunto questa posizione di dubbio assoluto sulla propria esistenza e su tutto ciò che lo circonda, Cartesio guida il lettore in una serie di argomentazioni tramite le quali raggiunge la certezza, una verità che ha ottenuto mediante un processo di pensiero puramente razionale. Anche la certezza di Cartesio ha impresso un’immagine nella mia mente, che mi ha fornito il filosofo medesimo: un triangolo, la stessa figura geometrica che Platone usava per argomentare a favore della sua teoria delle forme. Il mio triangolo è immobile, evanescente, sospeso.
Senza dubbio è proprio quello che ho visualizzato la prima volta che mi sono imbattuta nel triangolo del filosofo, che gioca un ruolo decisivo nel validare la prova ontologica dell’esistenza di Dio.
Quando immagino un triangolo, per esempio, io non mi limito a quel che intendo anche con l’intelletto solo, e cioè che è la figura racchiusa da tre linee, perché allora anche le vedo, le tre linee, come se fossero presenti allo sguardo della mia mente; ed è questo vedere che chiamo immaginare5.
Per Cartesio la matematica, la logica e la metafisica sono universali, immutabili e quindi incorporee. La mente, o anima, possiede idee a priori o innate, che non sono un suo prodotto. Si può dire che per il filosofo seicentesco il ragionamento e Dio sono intrecciati. La matematica esiste in uno spazio trascendente, non contaminato dal corpo mortale, sensibile, quello che indossa la vestaglia e si scalda i piedi davanti al fuoco. Nel mio catalogo di immagini mentali ricorrenti penso al triangolo quando voglio evocare l’immagine di una verità statica, senza tempo, incorporea. L’idea che il numero sia verità è piú vecchia di Cartesio e di Platone: nel V secolo a.C. i Pitagorici erano convinti che il numero governasse l’universo.
La percezione e l’immaginazione trovano entrambe posto nella filosofia di Cartesio, ma è solo con l’aiuto della mente che vedere, sentire, toccare, gustare, udire, annusare e immaginare possono condurre alla conoscenza. Il corpo, con i suoi ricordi, passioni e fantasie, interagisce con la mente, ma le due cose sono fatte di una sostanza diversa. La separazione di anima e corpo rimane un luogo comune nella cultura contemporanea. «È tutto nella tua mente» è una comoda scorciatoia per dire a un amico che il suo problema è «psichico» o «mentale». Una gamba rotta, invece, è un problema «fisico» e può richiedere il ricorso a trazioni o gessi. Ma di cosa sono fatti i pensieri? E, se non vengono dal corpo, da dove arrivano? Quando ero piccola i pensieri sui pensieri a volte mi sorprendevano in momenti in cui il mondo all’improvviso mi sembrava irreale e io stessa mi sentivo irreale. E se non fossi davvero Siri? E se fossi una persona all’interno del sogno di un’altra persona? E se il mondo fosse un mondo dentro un altro mondo che è dentro a un altro mondo? Cosa sono di preciso gli esseri umani e come possiamo saperlo? Come mai possiamo parlare a noi stessi all’interno della nostra testa? Cosa sono le parole?
Per Cartesio la verità del Cogito ergo sum – penso dunque sono – può appartenere solo agli esseri umani. Gli animali non pensano. Sono creature senz’anima e quindi fatte di mera materia, come le macchine. Secondo il filosofo tutta la materia è dotata di estensione, cosa che non vale per i pensieri. La materia occupa spazio ed è fatta di minuscoli «corpuscoli», particelle essenziali simili agli atomi ma che non sono atomi. Come molti pensatori del suo tempo, Cartesio era influenzato dall’antico atomismo di Epicuro e Democrito, per i quali il mondo era composto di atomi, corpuscoli duri di materia che si muovono nel vuoto. Cartesio doveva prendere le distanze dall’antico atomismo perché questo non poteva dar conto del dio cristiano o di un’eterna anima-mente, e comunque non aveva mai accettato l’idea del vuoto. In una lettera a padre Mersenne del 1630 Cartesio descrisse cosí i corpuscoli: «Non è necessario immaginarli simili ad atomi e nemmeno con una certa durezza. Immaginateli come una sostanza estremamente fluida e sottile»6. A differenza degli antichi atomi, i corpuscoli sono morbidi. Gli atomi rimangono con noi, ovviamente in altra forma, ma è interessante notare che anche l’immagine degli atomi moderni ha cambiato forma da quando a scuola guardavo i modellini degli atomi con i loro neutroni e gli elettroni intorno, che tanto mi ricordavano quell’altro modellino che avevo studiato, il sistema solare.
Molti pensatori continuano a lavorare nella lunga scia del lascito cartesiano. Le domande che pose sulla sostanza di cui sono fatti gli esseri umani, sulla nostra relazione con il mondo, su cosa sia innato e cosa, invece, acquisito tramite l’esperienza vissuta e sensoriale, e se esistono immutabili verità senza tempo, sono ancora di grande interesse per la cultura occidentale. La maggior parte delle persone crede intuitivamente che i pensieri siano entità separate dal corpo. In ogni tipo di scritto, che sia accademico o divulgativo, il dominio dello psicologico è sempre separato da quello del fisiologico. Ma sono davvero due domini diversi? O sono la stessa cosa? Come si relaziona un pensiero con i neuroni nel cervello? La forma del triangolo era già nell’universo in attesa che qualcuno la scoprisse? Al giorno d’oggi alcuni credono nella verità del triangolo, difendono l’idea che la logica e la matematica trascendono la mente umana; altri non la pensano cosí.
Thomas Hobbes, un filosofo contemporaneo di Cartesio, propose un modello dell’essere umano e della natura puramente atomistico, materialistico e meccanicistico. Noi, e tutto l’universo, siamo fatti della stessa sostanza atomica naturale e obbediamo alle stesse leggi del movimento, il che significa che il mondo ci si presenta solo grazie ai nostri sensi. Il materialismo di Hobbes presupponeva un primo motore – Dio metteva in moto il rumoroso marchingegno della natura –, ma cosa fosse esattamente quella divinità non gli era molto chiaro. Per lui il corpo umano era una macchina, e tutti i pensieri e le sensazioni erano movimenti del cervello simili a quelli di una macchina. Nel quinto capitolo del Leviatano, Ragione e scienza, Hobbes parla della ragione umana nei termini di una serie di calcoli: «Insomma, in qualsiasi materia ci sia posto per l’addizione e la sottrazione, allora c’è posto anche per l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le illusioni della certezza
  4. Entrare e uscire
  5. Note
  6. Il libro
  7. L’autrice
  8. Della stessa autrice
  9. Copyright