La verità al potere
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La verità al potere

Sei diritti aletici

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La verità al potere

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Per il pensiero liberale una «politica della verità» è un'assurdità e un pericolo, il principio di una società dogmatica, paralizzata da un potere totalitario e ingiusto. È davvero cosí? La teoria sviluppata in questo libro rovescia l'ipotesi. Uno sguardo piú attento al ruolo del vero e del falso nelle nostre vite ci fa capire che oggi il destino della libertà e della giustizia è inestricabilmente legato al concetto di verità. Ma si tratta di guardare alla verità in un modo diverso: considerando anzitutto il suo speciale potere in democrazia, in cui le credenze (vere, false, incomplete o distorte) dei cittadini orientano le stesse condizioni della vita pubblica. Contro la proliferazione del falso e dell'insensato, una nuova politica della verità deve tutelare, per tutti noi, il diritto alla verità non soltanto in relazione al bisogno di sapere, ma anche al bisogno di essere garantiti in quei beni e valori critici che si legano a un uso razionale delle conoscenze.

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Informazioni

Parte prima

Diritti aletici

Capitolo primo

Avventure della verità

1. La verità e i suoi amici.

Nel secondo Novecento, e con evidente accelerazione a partire dall’ultimo decennio del secolo, il concetto di verità è entrato in una nuova fase della sua storia, e ha guadagnato una centralità del tutto inaspettata nei discorsi pubblici. Per citare solo i casi piú significativi, è apparso nel quadro della transitional justice, il passaggio dai regimi dittatoriali alla democrazia: contro le «menzogne organizzate» dei totalitarismi, contro il negazionismo relativo alla Shoah, piú tardi con la creazione delle «commissioni della verità» in Sudafrica e in Sudamerica. Dopo la guerra fredda, il declino degli Stati nazionali ha posto in primo piano il ruolo dei valori fondamentali marginalizzati dalla politica statalista tardo-moderna, e la ricerca di verità sovra-culturali condivise è diventata politicamente e giuridicamente plausibile. La nascita della nozione di diritti umani ha lasciato spazio all’affermarsi del «diritto alla verità», di cui si parla con frequenza almeno dal 2000 (cfr. § 2). I casi piú noti sono legati all’informatizzazione. Nel 2010 Julian Assange, attivista informatico editor responsabile di Wikileaks, diffonde documenti riservati della diplomazia americana, comprovanti fra l’altro attività di spionaggio di leader europei, l’uccisione di civili, particolari inquietanti sui metodi di Guantánamo. Edward Snowden, tecnico informatico della Cia e consulente della NSA, rivela al «Guardian» un programma di sorveglianza di massa dei governi americano e inglese. Assange rivela notizie riservate, Snowden rivela che la riservatezza è minacciata.
Ciò di cui soprattutto si è parlato in questi ultimi anni è la riscoperta dell’espressione «post-verità» o «politica della post-verità», già presente nella pubblicistica di lingua inglese1, rilanciata in occasione della campagna elettorale di Donald Trump e in seguito planetariamente ripresa a indicare i successi delle varie forme di populismo antisistema, e il diffondersi epidemico delle fake news sul web. L’idea che si tratti di una grande novità è da rivedere. Se con «post-truth politics» si intende politica indifferente alla verità, è difficile negare che sia sempre stato cosí, visto che l’inimicizia tra verità e politica è nota almeno a partire da Machiavelli. Ma l’insistenza con cui la formula è stata ripresa ci dice che in essa si esprime un’importante vicenda del linguaggio pubblico.
Dal 2016 a oggi, le pagine dei quotidiani, il web, l’editoria sono stati invasi da un’ondata di teorie, ipotesi, programmi provenienti dalle piú diverse discipline e prospettive, tutte mirate a “difendere” la verità e i valori e le virtú che vi si collegano: a denunciare menzogne e inganni, a lamentare la disinformazione degli elettori, a ipotizzare nuove forme di democrazia, in cui siano salvaguardati i valori delle «competenze» (è l’ipotesi cosiddetta «epistocratica» che contrappone all’universalismo democratico il governo dei competenti, selezionati da elettori a loro volta selezionati, in quanto adeguatamente informati)2.
È utile notare subito la diversa ottica in cui si valuta il problema. In una prima fase, il bisogno di verità si manifesta nel quadro di una rivendicazione popolare e civile contro le falsità di Stato o di polizia; in una seconda fase, esprime la preoccupazione delle élite intellettuali e politiche nei confronti dell’anarchia cognitiva che sta pervadendo il dibattito pubblico. Il secondo punto di vista sembra al centro delle discussioni attuali, ma la prima questione è ancora attiva, anche nel caso di governi democratici o almeno nominalmente tali3. Il problema non muta, semplicemente si intensifica e si amplia: dalla richiesta di verità “dal basso verso l’alto” si è passati anche al movimento opposto, e a un bisogno generalizzato di non-menzogna, che coinvolge le istituzioni come qualsiasi individuo.
L’emergenza-verità non riguarda solo le falsità, le diversioni e i silenzi del potere politico, e neppure soltanto il fatto che i cittadini sono disinformati o distratti, e possono venire ingannati o ingannare se stessi in molti modi diversi. Riguarda anche – circostanza piú preoccupante – le istituzioni create per correggere queste eventualità: la legge, la scienza, l’editoria, i giornali, l’organizzazione del sapere e della cultura in generale sembrano coinvolte in difficoltà molto simili. E (almeno in molti casi) l’inganno non dipende dalla volontà di ingannare, o dalla cattiva fede dei parlanti, ma, piú semplicemente: dalla grande e multiforme quantità delle informazioni di cui occorre tenere conto, dalla difficoltà di selezionarle, e dalla conseguente crisi di credibilità e di affidabilità dei saperi e delle istituzioni che li promuovono e li salvaguardano4.
Nella letteratura su questi temi, si tende spesso a interpretare il problema in termini di disinformazione e ignoranza. Ma in questo modo si rinvia indefinitamente la soluzione. Perché allora il vero e il falso diventeranno parti politiche: vero delle élite, o dell’establishment intellettuale, contro il falso del «popolo». E ciò non farà altro che rilanciare la formula opposta: vero del popolo contro il falso dell’establishment. Una strategia suggerita in questi ultimi anni è l’ipotesi già accennata di sostituire la democrazia con l’«epistocrazia», il governo dei competenti, eletti da cittadini informati e selezionati. Ma informati e selezionati da chi? E come? E in che modo questa selezione potrebbe bloccare l’avanzata inarrestabile delle tendenze e opinioni contrarie? Lo stesso discorso vale per tutte quelle ipotesi terapeutiche che oppongono come arma di resistenza la diffusione della cultura o della scienza. Nell’arte, nella filosofia, nelle scienze ci sono certamente importanti risorse contro l’errore e l’inganno. Ma il problema non muta: quale “cultura”, posto che ogni settore del sapere sembra sperimentare le stesse difficoltà5?

Democratizzazione.

È possibile suggerire una diversa diagnosi, che inaugura una diversa terapia. Il primo passo da compiere è riconoscere che l’apparente declino, o piuttosto il «decadimento», della verità (cap. 4, § 2) non è una colpa di qualche parte sociale, o politica, o anche filosofica (per esempio il relativismo postmodernista, oggi spauracchio universale per tutti i difensori della verità). È piuttosto il frutto naturale della progressiva e sempre piú rapida democratizzazione dei processi sociali, e piú precisamente del progressivo democratizzarsi della conoscenza, dell’informazione, della comunicazione, della cultura, dell’arte, della filosofia, della scienza, della religione, ecc. La democratizzazione non è forse in sé una buona cosa, ma è un fatto caratteristico dell’evoluzione degli animali umani, avvertibile a vari livelli di sviluppo, in ogni cultura. Inutile cercare di fermarla. Per le società da tempo democratiche, il processo ha subito un’accelerazione a partire dagli ultimi decenni del Novecento, proprio nell’epoca che ha segnato le prime fortune del concetto di verità. E si è avvantaggiato tanto degli eventi politici (la fine del regime sovietico, la nascita di istituzioni sovranazionali) quanto di quelli tecnologici (la rivoluzione digitale).
Si tratta dunque anzitutto di guardare alla democratizzazione come a un fenomeno naturale, come la grandine o il terremoto, o meglio come la pioggia: che non è sempre dannosa, anzi d’estate può essere benefica.
Il secondo passo da compiere è riconoscere che per l’umanità democratizzata il concetto di verità ha un ruolo del tutto nuovo. Esagerando un po’ i termini della questione si può dire che la democrazia, come situazione socio-culturale prima che come idealità o programma politico, è verità al potere: non evidentemente il potere della “verità” come tale ma del creduto vero, e dunque del concetto di verità, di come lo usiamo per ragionare, credere, decidere. Se il diritto di parlare, discutere, obiettare, e su questa base decidere in funzione del bene proprio e altrui, è esteso idealmente a tutti, allora il vero potere non è del popolo, o dei suoi rappresentanti, ma di ciò che l’uno e gli altri credono, pensano, sperano, di come ragionano, cioè derivano da premesse che ritengono essere vere, conclusioni che ritengono vere, e a ciò che dicono sulla base (o no) di quel che pensano e credono.
La scoperta dei sofisti, all’epoca della prima sperimentazione democratica, è che in democrazia l’origine del potere non sta in questa o quella ideologia o sistema di valori, ma nel pensiero e nel linguaggio degli esseri umani. I filosofi in seguito hanno perfezionato l’idea, notando che i difetti della democrazia risiedono nel modo in cui usiamo i concetti di “verità” (to alethes), “bene” (to agathon) “bello” (to kalon): questi «concetti primi» ci guidano nella gestione e nella difesa di qualunque valore o interesse o diritto, o nell’assumere una parte politica di qualche tipo, spesso li usiamo in modo sbagliato, e in generale ne trascuriamo l’importanza.
Come si vedrà meglio nella seconda parte del libro, il primo (benché non l’unico) potere con cui la politica deve oggi fare i conti è quello dell’alethes. Si potrà dire che è il concetto di verità l’autentico sovrano: è a lui, ai suoi usi deviati e distorti, alle violazioni sistematiche dell’esigenza che esprime, che dobbiamo le prime (anche se non le uniche) difficoltà della vita pubblica.

L’epoca della post-post-verità.

In questa prospettiva, “l’emergenza aletica” che pervade non soltanto il mondo digitale ma anche le istituzioni della politica, della cultura, della scienza, assume un aspetto forse meno drammatico, e piú interessante. La prima evidenza degna di nota è che a preoccuparsi del problema non sono piú soltanto i filosofi, o i religiosi, ma tutti, o perlomeno una quantità notevole di osservatori del mondo contemporaneo. Riconoscere di avere un “problema di verità” è già una vittoria per la verità. Dunque non bisognerebbe parlare di «era della post-truth»6 ma piuttosto della post-post-truth, visto che l’insidiosa importanza del concetto ha guadagnato l’attenzione pubblica. Se nel 2004, come osservava Michael Lynch, l’indifferenza o il «cinismo» circa il valore della verità era «la posizione filosofica semiufficiale», non soltanto della politica, ma anche di molti autorevoli studiosi e intellettuali pubblici7, oggi sembra che tutti o quasi tutti siano diventati «amici della verità», come Aristotele8.
Ma non si tratta soltanto di un’amicizia nominale. A partire da qui possiamo notare almeno tre circostanze incoraggianti.
La prima è che la progressiva e sempre piú rapida democratizzazione della conoscenza e piú in generale dei processi sociali dà idealmente il diritto di parlare pubblicamente, di obiettare, discutere, rivendicare, esprimersi, a un sempre maggiore numero di persone, e il risultato è senza dubbio una caduta di qualità e una crescita del rumore, ma anche una diminuzione di fatto della probabilità che si verifichi il fenomeno piú dannoso politicamente: «l’organizzazione della menzogna», tipica malattia delle democrazie totalitarie, e in generale di qualsiasi gruppo sociale.
In secondo luogo, è vero che il web è teatro di un fenomeno forse piú insidioso: la menzogna disorganizzata. Ma il successo della menzogna richiede calcolo, e la disorganizzazione non è mai un vantaggio per i mentitori. In effetti nella cultura digitalizzata aumenta la dose di falsificazione e inganno, ma aumentano anche le risorse per smascherare gli inganni. Nei tre quintilioni di byte informativi diffusi ogni giorno nel mondo (un quintilione è un miliardo di miliardi) crescono il falso e il mezzo-vero fuorviante, ma cresce anche il semplicemente vero, crescono le opportunità di farne uso in modo veridico, e di distinguere il vero dal falso. Dunque non c’è da scoraggiarsi: nella guerra tra il vero e il falso forse si finisce ancora in pari.
La terza circostanza degna di nota è che l’epoca della «post-post-verità» potrebbe configurarsi come un’epoca in cui la filosofia, non come disciplina o settore di ricerca e insegnamento, ma come prospettiva, punto di vista sulla realtà, avrebbe maggior voce in capitolo9. Già soltanto spostando l’attenzione sul concetto di verità si avvia infatti un’analisi che non ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. La verità al potere
  5. Parte prima. Diritti aletici
  6. Parte seconda. Una nuova politica della verità
  7. Conclusioni
  8. Il libro
  9. Gli autori
  10. Degli stessi autori
  11. Copyright