Il gioco degli dèi
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Il gioco degli dèi

  1. 152 pagine
  2. Italian
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Il gioco degli dèi

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Chi è Malik Mir Sultan Khan? L'uomo misterioso di cui parla tutta New York, lo scacchista col turbante che ha battuto Capablanca, rimane un enigma per chiunque lo incontri. Si sa che è nato nella foresta del Punjab, dove ha imparato l'antica arte del chaturanga, si sa che una tigre lo insegue da sempre e che Mrs Abbott gli ha lasciato in eredità la sua Rolls-Royce. In bilico fra Oriente e Occidente, talento e strategia, karma e destino, la storia vera e immaginaria dell'umile servo che per un istante divenne re.Il chaturanga è l'antenato indiano degli scacchi. Si dice che quando gli uomini sono concentrati su quelle pedine dalle strane forme animali dimentichino tutto, come se dalle loro mosse potesse dipendere la distruzione o la salvezza dell'intero universo. Apprenderne l'arte è un percorso impervio, ma non per Malik Mir Sultan Khan. Gli dèi, o il caso, gli hanno donato un talento naturale che lo porterà in breve tempo a diventare il piú imbattibile scacchista degli anni Trenta. Ma un dono divino può essere duro da sopportare, soprattutto per chi sa di essere destinato ad attraversare l'esistenza soltanto da spettatore. Nei suoi sogni di bambino è apparsa una tigre, che poi si è fatta reale portandogli via entrambi i genitori. Ma sarà quella stessa tigre a permettergli di entrare alla corte del maharaja che - notando la sua abilità nel gioco - lo condurrà in Europa a gareggiare nei piú importanti tornei di scacchi. Cosí il giovane servo, da molti considerato un idiot savant, arriverà ad affermarsi fino a battere l'ex campione del mondo Capablanca, intrecciando la propria storia con quella di un'Europa lacerata, ormai sull'orlo della Seconda guerra mondiale. Paolo Maurensig torna a muovere i suoi personaggi nell'universo affascinante e ricco di storie degli scacchi, regalandoci il ritratto sorprendente di un personaggio che ribalta continuamente l'immagine del campione, e i nostri pregiudizi occidentali.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858430644

Dai taccuini di Norman La Motta

1.

Nel 1965 mi trovavo nel Punjab, inviato dal «Washington Post» per seguire gli sviluppi di una difficile trattativa diplomatica che stava trascinando India e Pakistan verso il baratro di un sanguinoso conflitto. Al momento, però, la situazione sembrava stazionaria, le notizie erano scarse e nessuno poteva prevedere per quanto tempo ancora sarebbe durata la tregua. Da qualche settimana ero alloggiato in un albergo di Delhi, assieme a una trentina di colleghi provenienti da altri paesi. L’aria era pesante, elettrica – prossima era la stagione dei monsoni –, e noi cronisti trascorrevamo le giornate formulando ipotesi, bevendo birra e giocando a carte.
L’attesa si faceva di giorno in giorno piú snervante, e io ero arrivato ormai al punto di non sopportare piú quello stato di abbrutimento. Per fortuna, trovai il modo di uscirne. A spingermi in un’impresa che sembrava senza speranza fu una frase colta al volo mentre eravamo a tavola. Stava parlando un giornalista belga, un veterano, conosciuto per la sua pluriennale esperienza in «questioni orientali».
– Il punto debole, – disse, – quello che subirà la maggiore ripercussione da questo conflitto, sarà la linea di confine che passa attraverso Mittha Tawana.
E fu proprio il nome di questa località, distante una sessantina di miglia da Delhi, a farmi prendere la decisione di mettermi alla ricerca di una certa persona che una decina di anni prima, a New York, era stata al centro di uno scandalo. Trovare in un territorio vasto e popoloso come l’India un uomo scomparso da anni è già di per sé un’impresa difficile; diventa disperata alla vigilia di una guerra. Eppure mi sentivo fiducioso.
Per mettere a fuoco la vicenda, però, è necessario tornare indietro nel tempo. L’uomo che stavo cercando era un indiano che a metà degli anni Cinquanta era balzato, suo malgrado, ai tristi onori della cronaca mondana perché sospettato di aver plagiato un’anziana miliardaria americana, per giunta cieca, con l’intento di entrare in possesso dei suoi beni. Ad attirare la mia attenzione su quella grottesca vicenda era stato allora il prestigioso nome dell’indagato: Malik Mir Sultan Khan.
«Non può che essere una coincidenza», mi dicevo. Cosí si chiamava, infatti, anche l’idolo della mia giovinezza. Da ragazzo, come tanti coetanei, ero stato un appassionato di scacchi e avevo i miei beniamini; Sultan Khan era tra tutti il preferito. Il fatto che provenisse dall’India misteriosa, viaggiando sotto la protezione di un autentico maharaja, non aveva fatto che alimentare la mia fantasia di adolescente.
Infine, la sorpresa: si trattava proprio della stessa persona! Non c’era alcun dubbio. La conferma mi fu data da un breve comunicato di agenzia: quel Sultan Khan messo alla gogna dalla stampa scandalistica era stato in gioventú un grande campione di scacchi. Ma per i lettori avidi di particolari scabrosi la notizia era passata inosservata.
Già all’università e poi negli anni a venire avevo tentato di ricostruire la vita di quel personaggio, con l’intento di scriverne la biografia. Con quella storia in pectore, avevo in seguito persino accarezzato l’idea di vincere un Pulitzer. Ma le sue tracce si erano perse del tutto, e per quanto avessi spedito decine e decine di lettere alle redazioni di varie riviste scacchistiche, nulla avevo avuto in cambio. Scomparso da Londra ancora prima del conflitto mondiale, eccolo riapparire dopo dieci anni, a piú di tremila miglia di distanza, nella città di New York.
Dentro di me esultavo. Non mi sembrava vero di averlo ritrovato dopo tanto tempo. Mi sarebbe bastato aspettare che il clamore attorno al suo caso si quietasse per poterlo andare a trovare e farmi raccontare da lui medesimo per filo e per segno la sua vita. Ma le cose non ebbero poi il seguito che avevo sperato, perché, una volta calato il sipario sulla tragicomica vicenda che l’aveva visto protagonista, Sultan Khan era nuovamente sparito.
E ora che mi trovavo a sole sessanta miglia da Mittha Tawana, il paese che gli aveva dato i natali, pensai che non si sarebbe piú ripresentata un’occasione simile per poterlo contattare di persona, o quantomeno per trovare chi potesse mettermi sulle sue tracce. Avvertii quindi i colleghi che mi sarei assentato per qualche giorno, e li incaricai di raccogliere tutti i messaggi a mio nome. Questi tentarono in ogni modo di dissuadermi dal lasciare l’albergo; non era per niente ragionevole, infatti, mettersi a girovagare per un territorio che era letteralmente una polveriera prossima a scoppiare. Ma ormai ero preda del fascino che l’India esercita sugli occidentali. Sentivo che tutto era possibile e che non avevo nulla da temere. La parola «karma» – termine fino ad allora negletto – prendeva significato nella mia mente, e già mi stavo convincendo che se mi trovavo lí era al solo scopo di rintracciare quell’uomo. Eppure, non avevo mai sopportato i fanatici delle filosofie orientali; mi aveva sempre procurato un leggero fastidio sentir parlare qualcuno di chakra, di nirvana, di karma… Qui, però, mi trovavo in una diversa dimensione, con i suoi precisi parametri: la parola karma sostituiva egregiamente termini occidentali come destino, fato, nemesi o quant’altro. Era come il sapore di un vino autoctono che si conserva intatto solo nel luogo in cui cresce la vite che l’ha prodotto.
Su Sultan Khan avevo già raccolto in passato parecchio materiale: foto e articoli ricavati dai giornali che risalivano agli anni Trenta, quando era sbarcato in Europa al seguito del maharaja Sir Malik Umar Hayat Khan. Dopo quattro anni di successi, però, la sua carriera si era interrotta improvvisamente, e una volta uscito dal circuito dei grandi tornei internazionali, era stato ben presto dimenticato. Nessuno sapeva che cosa avesse fatto nel frattempo, e se non fosse stato per lo «scandalo» relativo all’eredità di Cecilia Abbott, una delle donne piú ricche d’America, morta in «circostanze misteriose», di lui non si sarebbe saputo piú nulla. A quel tempo, infatti, riviste scandalistiche come «Confidential», «Hush-Hush» e «Whisper» si erano accanite sul personaggio descrivendolo alla stregua di un impostore, un avventuriero senza scrupoli che avrebbe indotto un’ingenua vedova ottantenne a sposarlo, per poter mettere le mani sull’ingente patrimonio. Attorno al caso si erano costruite le ipotesi piú azzardate; persino quella che ad affrettare la dipartita dell’anziana donna sarebbe stato proprio lui, sostituendo i farmaci prescritti dal medico personale, curandola con l’imposizione delle mani, o con chissà quale diabolica pozione. Va ricordato che in quel periodo la nazione stava attraversando un momento estremamente delicato: dopo aver salvato il mondo dal tallone nazista, gli americani sembravano in preda alla schizofrenia, vedevano dappertutto pericoli di ogni sorta. Appena attenuatosi lo spauracchio del comunismo, che aveva dato il via alla funesta inquisizione maccartista, già cominciava a profilarsi all’orizzonte una nuova e piú subdola minaccia al perbenismo americano. Una minaccia ancora senza nome, ma ravvisabile nei discorsi della gente: non c’era luogo di aggregazione dove l’argomento non fosse il libero amore, lo yoga, i cosmetici naturali e le diete dimagranti. I giovani appartenenti alla ricca borghesia già si lasciavano affascinare dai primissimi figli dei fiori. In breve tempo rampolli di miliardari avrebbero rinnegato i genitori e le loro ricchezze per indossare sottane arancioni e andare in giro inneggiando a Krishna. Ma questa apparentemente innocua follia era prossima a contagiare anche persone anziane che, a dispetto degli eredi, avrebbero elargito somme generose a qualche setta dagli ideali non sempre specchiati, dichiarandosi pronte a rinunciare ai loro patrimoni per seguire il santone di turno che le avrebbe condotte al nirvana. Erano ancora casi sporadici, avvisaglie, ma per i perbenisti il pericolo per antonomasia era l’indiano, il guru capace di abbindolare le masse e di far perdere la devozione per il dio denaro. Cosí, questo piccolo indiano, scuro di pelle, divenne subito il capro espiatorio di un’America bigotta e intransigente. E per la stampa scandalistica il caso in cui venne coinvolto Sultan Khan fu un boccone troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire facilmente.
Non avevo grandi indizi per trovare quell’uomo – ammesso che fosse ancora vivo –, ma sentivo di dover accantonare ogni atteggiamento di sfiducia, e lasciarmi guidare. Da chi? Da una delle tante divinità di cui l’India era zeppa? Dall’istinto? O dall’essenza stessa della persona che stavo cercando? L’importante era mantenere un’attitudine aperta e disponibile. Si trattava di assumere una mentalità prettamente orientale, procedendo a tentoni nella speranza di trovare qualcuno che mi indirizzasse sulla strada giusta. Del resto, non sapevo neppure quale fosse al momento il suo aspetto: avrei potuto benissimo imbattermi in lui senza riconoscerlo.
Cominciai la mia ricerca dal suo luogo di nascita, ma se all’inizio del secolo Mittha Tawana poteva essere ancora un insediamento rurale abitato da qualche migliaio di anime, adesso faceva parte di un distretto che contava una popolazione cento volte superiore. Ne ricavai poco o niente ma, tutto sommato, il karma non mi fu ostile: dopo aver viaggiato per piú di trecento miglia su una vecchia jeep presa a nolo, ripercorrendo piú e piú volte gli stessi itinerari, spesso in coda a interminabili colonne di automezzi militari, quando stavo già per rinunciare, incontrai una persona che mi rimise in carreggiata. Era un’anziana dottoressa indiana che, dalla descrizione che le avevo fatto, era convinta di averlo incontrato poco tempo prima a Sargodha, nell’ospedale di una missione di preti comboniani.
La mia ricerca sembrava ricondurmi non lontano dal punto in cui era iniziata.
Non ebbi alcuna difficoltà a trovare la missione, che era conosciuta da tutti in un raggio di parecchie miglia. Costituita da un fabbricato di colore rosso granata che sorgeva vicino alla strada, era stata edificata a ridosso di un secolare banyan, albero sacro per gli indiani, una pianta gigantesca che, a giudicare dalla circonferenza del tronco e dalle centinaia di radici mostruosamente aggrovigliate, doveva essere molto piú antica della missione stessa.
Non feci in tempo a chiudere lo sportello della macchina, che dalle fronde dell’albero già cominciavano a calarsi con fare circospetto decine e decine di scimmie. Altrettanto circospetta mi sembrò la suora che venne ad aprirmi. Quando sentí che stavo cercando Sultan Khan mi chiuse gentilmente la porta in faccia senza dire nulla. Dovetti aspettare un quarto d’ora prima che l’uscio si riaprisse. Il priore venuto ad accogliermi non sembrò contento di questa visita inattesa, e alla mia rinnovata richiesta di poter parlare con Sultan Khan pretese di conoscere il motivo di tanto interesse. C’era il pericolo di passare per il solito cronista senza scrupoli. Cosí me la cavai con una mezza bugia: dissi che stavo scrivendo un articolo sulla condizione di coloro che, nati e cresciuti lungo il confine indopakistano, rischiavano di ritrovarsi dall’oggi al domani in un territorio di religione mussulmana. L’aggiunta di una banconota da dieci dollari convinse il priore a farmi da tramite. Restava il fatto che la decisione finale spettava solo a Sultan Khan, il quale sulle prime rifiutò categoricamente di ricevermi. Avevo fatto, però, troppa strada per tornare indietro a mani vuote; cosí mi insediai nella sala d’aspetto, risoluto a non andarmene prima di avergli parlato.
A mano a mano che il tempo passava mi tornavano in mente i particolari della vicenda che l’aveva coinvolto.
Tutto aveva avuto inizio all’apertura del testamento di Cecilia Abbott, una delle donne piú ricche d’America, dal quale risultava che, prima di morire, la miliardaria aveva concesso a un illustre sconosciuto l’usufrutto, vita natural durante, del lussuoso attico con vista sul Central Park, lasciandogli per giunta in eredità – oltre a un appannaggio mensile – una Rolls-Royce Silver Dawn convertibile. L’unica richiesta in cambio, quella di accudire alle due bestiole di casa: la gatta persiana e il pappagallo indiano.
Da un punto di vista prettamente legale non c’erano stati appigli di sorta per poter impugnare il testamento. Il giudice stabilí che il beneficiario poteva godere dell’usufrutto dell’attico purché ci abitasse in pianta stabile e accudisse ai due animali, o meglio, solo al pappagallo, perché la gatta dopo pochi giorni aveva pensato di seguire la sua padrona. Non c’erano invece condizioni di sorta sul lascito della Rolls convertibile. Lo attestava una lettera autografa di Mrs Abbott, con allegato il documento del passaggio di proprietà su cui bastava solo che lui apponesse la firma.
Dopo un’ora Sultan Khan cedette alle mie richieste e acconsentí a ricevermi. Era una piccola vittoria che non andava sprecata. Ora avrei dovuto muovermi con cautela, evitare passi falsi; di certo lui non vedeva di buon occhio i giornalisti, e una sola domanda sbagliata rischiava di riaprire antiche ferite. Con queste premesse, indurlo a parlare di sé poteva rivelarsi un’impresa difficile.
Fui accompagnato al primo piano, nel reparto riservato alle malattie infettive. Un nauseante odore di brodaglia, frammisto a quello dei medicinali, permeava gli ambienti. L’infermiera mi indicò la porta e mi raccomandò di non stancarlo troppo.
Quando entrai nella sua stanza, lo trovai seduto sulla sponda del letto, con indosso un pigiama a righe. Macilento, ossuto, il volto scavato, ricoperto dalla barba incolta, e i lunghi capelli candidi che spiccavano sulla carnagione scura, Sultan Khan era un uomo dall’apparente età di settant’anni. In realtà ne aveva dieci di meno, ma a debilitarlo a quel modo era stata la malattia di cui soffriva da lungo tempo e che ultimamente si era aggravata. Mi fu consigliato, infatti, di tenere un fazzoletto davanti alla bocca se gli stavo troppo vicino, poiché la tubercolosi allo stadio avanzato diventa contagiosa al massimo. Mi accolse con cordialità, evitando tuttavia di stringere la mano che gli tendevo. Sembrava dispiaciuto per avermi fatto aspettare cosí a lungo.
– Come ha fatto a trovarmi? – mi chiese con una punta di rassegnazione nella voce. – Credevo di aver fatto perdere del tutto le mie tracce.
A differenza di come l’avevano descritto i giornali, si esprimeva in un buon inglese, dalla pronuncia tipica della classe media indiana.
– Non è stato facile, – dissi. – Ho avuto la fortuna di incontrare qualcuno che mi ha messo sulla strada giusta.
– Per quale rivista lavora?
– Mi trovo qui come inviato di guerra. Lavoro per il «Washington Post». Ho approfittato dell’occasione per poterla incontrare. In passato le ho anche scritto delle lettere.
– Ci sono delle persone che mi perseguitano perché convinte che io abbia dei poteri paranormali. Ho già avuto a che fare con loro subito dopo la guerra e le assicuro che non hanno mai smesso di cercarmi… L’avranno informata sulle mie condizioni di salute, immagino.
Risposi di sí.
– Ebbene vorrei evitare di passare quel poco tempo che mi rimane chiuso in un bunker a fare da cavia con degli elettrodi nel cervello, e con montagne di quiz da risolvere.
Mise subito in chiaro che un’intervista era fuori discussione. Come dargli torto? Cercai di convincerlo promettendogli solennemente che la nostra sarebbe stata una semplice conversazione, e che non avrei indagato su fatti di cui non voleva parlare. Inoltre, nulla sarebbe trapelato se non previo il suo consenso. Ma, nonostante ogni tentativo, restava irremovibile. Cambiò atteggiamento solo quando gli confessai che da giovane ero stato un suo grande estimatore, e che avrei voluto raccogliere le sue memorie in un libro, destinando a sua scelta i proventi.
La mia proposta sembrò risvegliare in lui un certo interesse.
– Sicché da giovane lei era un appassionato di scacchi…
– Seguivo tutte le sue partite.
– Davvero?
– A quel tempo lei era il mio idolo, – rincalzai.
Lui mi rivolse un’occhiata in tralice per accertarsi che dicessi il vero.
– Potrei accettare di parlarle solo ad alcune condizioni... – disse con aria incerta, come combattuto.
– Qualsiasi cosa.
Capii che non era stata la prospettiva di un guadagno a convincerlo, ma piuttosto l’idea che la sua vita potesse essere narrata in un «libro», come se solo i libri potessero riportare la verità.
– Ormai i giornali hanno detto di me tutto quello che c’era da dire, fuorché la verità. La prima condizione che le pongo, quindi, è che lei possa colmare questa lacuna. Se mi promette di essere sincero potrò raccontarle ogni particolare della mia vita, e di come il karma abbia agito in essa sin dalla mia infanzia. La seconda condizione è quella di non far sapere a nessuno dove mi trovo, almeno finché sarò in vita.
– Glielo prometto.
Sultan Khan si levò dalla sponda del letto e si diresse verso un tavolo che si trovava sotto le pigre pale rotanti di un ventilatore fissato al soffitto. Con un gesto mi invitò a sedere. A dividerci c’era il tavolo in tutta la sua lunghezza. Quando, assieme al mio taccuino, estrassi dalla borsa che portavo a tracolla anche un minuscolo magnetofono, notai in lui un moto di sorpresa. Sulle prime temetti che non volesse essere registrato, e invece era solo incuriosito.
Rivolsi il microfono verso di lui e gli feci pronunciare qualche frase. Nel riascoltare la propria voce spalancò gli occhi e scoppiò a ridere come un bambino. Fui colpito nel vedere quell’espressione infantile delinearsi sul volto di un vecchio. Denotava in lui un animo privo di doppiezza, incapace di mentire o di nascondere i propri sentimenti, fino a rendersi massimamente vulnerabile.
– Malik Mir Sultan Khan… è questo il suo vero nome?
Annuí.
– A che cosa si deve un nome cosí altisonante?
Un sorriso incerto gli sfiorò le labbra.
– È una scelta dei miei genitori. La nostra era una famiglia di agricoltori, di servi della terra: perlopiú coltivavamo la canna da zucchero, e lavoravamo tutti per il maharaja Sir Malik Umar Hayat Khan, che era l’uomo piú ricco e potente del Punjab. È una tradizione diffusa ancora adesso dare al nascituro uno dei tanti nomi del proprio padrone. Non pretende di essere un segno di distinzione, anzi, al contrario, vuole dimostrare la propria sottomissione: portando il suo nome gli si appartiene, come un oggetto che reca incisa la firma del proprietario.
– Il suo nome, seppure per motivi diversi, ha avuto due periodi di notorietà: la prima volta a Londra, all’inizio degli anni Trenta, quando si trovava al seguito del maharaja. E poi a New York, al servizio di Mrs Abbott.
– Non si può dire che fossi al servizio di Mrs Abbott. Ero semplicemente un amico, un accompagnatore. A casa sua ero ospite.
– Per quanti anni lo è stato?
– Per sette anni, circa.
– È stata una perdita dolorosa?
– Il maestro ci insegna che la vita è come una goccia di rugiada in equilibrio su una foglia di loto, ci insegna a non temere la morte, poiché fino a quando abbiamo la possibilità di pensarci siamo ancora in vita, e quando essa sopravviene, noi non ci siamo piú. In India si teme molto di piú la nascita, poiché ci porta inevitabilmente verso il dolore. Ogni nascita è salutata da una lacrima, ogni morte con un filo di gaudio nel cuore. Noi indiani abbiamo un’altra concezione della morte, possiamo lasciarci andare al dolore solo per la perdita prematura di un bambino, perché cosí gli viene a mancare un’occasione per riscattarsi dal ciclo delle rinascite, ma non certo per un anziano che ha già percorso l’intero arco della propria esistenza; e Mrs Abbott, o meglio, Maharani, come la ch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il gioco degli dèi
  4. Dai taccuini di Norman La Motta
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright