«Il Resto del Carlino», sabato 24 luglio 1943, XXI, Italia, impero e colonie cent. 30.
RILEVANTI FORZE AVVERSARIE RESPINTE NELLA PIANA DI CATANIA. Nella zona occidentale le forze dell’Asse si spostano su posizioni arretrate - IL RICHIAMO ALLE ARMI DELLE CLASSI DAL 1907 AL 1922.
Cronaca di Bologna: IL CENSIMENTO DEGLI SFOLLATI - NON UNA ZOLLA INCOLTA, estensione degli orti di guerra - NOTIZIE ANNONARIE: il burro in distribuzione, lunedí le patate. I prenotati potranno acquistare g. 80 di pollo o coniglio.
Radio: ore 20:30, Il signor Bruschino (farsa giocosa di G. Foppa).
Se non fosse inciampato sarebbe morto, perché il proiettile spaccò il vetro con lo schianto secco di un colpo di tosse e gli passò tra i capelli sulla nuca, di traverso, lasciandogli sulla pelle una ditata lucida e rossa come una scottatura.
De Luca piombò a terra senza neanche avere il tempo di mettere avanti le mani e affondò la faccia in un fagotto gonfio che piú che un sacco, morbido com’era, sembrava un cuscino.
Era la casa sbagliata. Si era perso nel buio senza luna di quella notte di fine luglio, attento piú a non finire nel canale che a distinguere le sagome scure dei casolari di quella parte di periferia che era già quasi campagna. L’oscuramento, e ancora di piú il bombardamento di quella mattina, anche se lontano, avevano spento i pochi lampioni e quando De Luca si era trovato davanti quel muro nero e dritto aveva semplicemente seguito il piano di Rassetto, che prevedeva per lui l’ingresso da dietro, mentre gli altri facevano irruzione dal davanti.
La porta non era chiusa, e già avrebbe dovuto capirlo da quello che non era la casa del Borsaro, ma la parte militare delle operazioni non era mai stata il suo forte, era sempre troppo teso. Cosí andò avanti lo stesso, e siccome oltre la porta c’era una scala la fece a quattro zampe, come un gatto, perché la pila della sua torcia tascabile lo aveva lasciato già da un pezzo, e non si vedeva davvero niente.
Quando era arrivato in cima alla scala, distratto da un ronzio intenso di mosche che ribolliva nel caldo soffocante, non aveva fatto in tempo ad abituarsi al buio che qualcosa, tra i piedi, lo aveva fatto inciampare.
Poi, lo schianto del vetro dell’unica finestrella sotto il tetto spiovente, il bruciore sulla nuca, la stoffa morbida e gonfia che gli riempiva la faccia, neanche si era accorto che gli avessero sparato, convinto da quella roba vischiosa che gli faceva scivolare le mani mentre cercava di rialzarsi di aver spaccato lui un vaso di melassa, cadendo. Perché ne aveva sentito il vetro rotolare sulle assi del pavimento, perché ne aveva il naso pieno del suo odore dolce e perché era ancora sicuro che quello fosse un magazzino di generi alimentari di contrabbando.
Fuori, intanto, avevano cominciato tutti a urlare, e questa volta lo sentí, lo sparo, e capí che veniva da un’altra parte, e allora tirò fuori la pistola dalla tasca della giacca, a fatica, perché gli scivolava tra le dita gommose.
Tornò alla scala e scese piú in fretta, un po’ per l’adrenalina e un po’ perché il primo proiettile aveva infranto la tendina di polvere secca incrostata sul vetro della finestra e ci si vedeva un po’ di piú.
Girò attorno alla casa guidato dal rumore delle voci e uscí nel cortile buio dove c’era un ragazzo, una macchia bianca in mutande e canottiera, schiacciato a terra da Massaron, piú scuro e massiccio. Si sentiva dal tintinnare delle catenelle che gli stava mettendo le manette.
– Complimenti, commissario! – gli disse Massaron, entusiasta, dopo che l’ebbe riconosciuto mentre si avvicinava nell’oscurità. – Avevate ragione, stavano proprio qui! E dovete vedere che roba!
– Chi ha sparato? – chiese De Luca. – Lui? – e indicò il ragazzo.
– No, io. Due colpi in aria, a scopo intimidatorio.
Bravo coglione, pensò De Luca, e nemmeno lui avrebbe saputo dire se si riferiva alla guardia scelta Massaron o a sé stesso. Allentò il nodo della cravatta, sbottonando il colletto della camicia perché non gli sfregasse contro la bruciatura sulla nuca, e attraversò il cortile orientandosi con lo spicchio di luce che filtrava dalla massa nera dell’altro casolare, quello giusto. C’era Rassetto, sulla porta, teneva scostata la stoffa pesante di una tenda e gli faceva cenno con una mano.
– E bravo De Luca! – Con la l appena raddoppiata da un leggero accento cagliaritano e i baffetti dritti sulle labbra in un sorriso che ancora non si riusciva a vedere ma che c’era sempre a scoprirgli i denti da lupo, felice o arrabbiato che fosse. – Abbiamo beccato il Borsaro! Ma da dove sbuchi? Non dovevi essere di sopra?
– È una storia lunga, – disse De Luca, ed entrò nella casa, inghiottito dalla tenda spessa e dai vetri dipinti di nero delle finestre.
– Mi sa che avevano piú paura dei ficcanaso che delle multe per l’oscuramento, – disse Rassetto.
C’erano solo due lampadine appese al soffitto che illuminavano il centro della stanza lasciando i bordi nel buio, ma era abbastanza. Salami lunghi e nodosi come dita impiccati alle travi assieme a piccoli prosciutti che saturavano l’aria con un odore che faceva gorgogliare lo stomaco. Sacchetti di sale e di zucchero. Panetti di lardo. Mortadelle sovrapposte come proiettili da mortaio. Damigiane che dalla paglia unta attorno al vetro robusto si intuivano piene d’olio. Sapone impilato in barre tozze e gialle come lingotti. Doveva anche esserci della benzina, da qualche parte nel buio, perché se ne indovinava l’odore, una screziatura aspra in mezzo a quello dolce, salato e unto della carne, quello pungente del sapone, e anche quello del caffè, che si sentiva forte. C’era un motivo se lo chiamavano il Borsaro, Saccani Egisto, con l’articolo davanti e maiuscolo, anche a voce.
– Qui dentro c’è una fortuna, – disse Corradini, che aveva preso in mano un pezzo di lardo e stringeva le dita nel grasso, per tenerlo. Lo mise sotto il naso di Egisto, che se ne stava in ginocchio con le mani sulla testa, calvo, tozzo e insaccato in una tuta impolverata e unta che faceva sembrare anche lui un prosciutto, caduto da una trave sul pavimento. – Quanto lo fai al chilo? Cento lire? Sarebbero diciassette con la tessera, ma chi se ne frega se la gente muore di fame!
Glielo sfregò sui baffi da tricheco ed Egisto rispose con un fremito delle narici, gli occhi chiusi e quel mezzo sorriso che aveva mantenuto immobile sulle labbra anche quando avevano fatto irruzione gridando fermi tutti! e polizia!
Massaron spinse nella stanza il ragazzo in mutande e canottiera, che cosí ammanettato perse l’equilibrio e finí in ginocchio davanti a Egisto.
– Negroni Gianfranco, anni 14, senza fissa dimora, – disse Massaron, burocratico.
– Borsaro nero e pederasta, – ringhiò Rassetto. – E magari pure giudeo!
– No, – disse De Luca, che stava ancora nell’ombra e nessuno avrebbe potuto vederlo indicare la catenina con la croce che spuntava dalla tuta di Egisto, ma Rassetto se ne era già accorto da solo. Gliela strappò con un colpo secco, cambiandogli per un attimo il mezzo sorriso in una smorfia di dolore.
– È cosí che dài l’oro alla Patria? – ringhiò, e poi, visto che il sorriso era già tornato piú strafottente di prima gli sferrò un calcio nella pancia che lo piegò in due. Il ragazzo cominciò a piangere per la paura, silenziosamente.
De Luca fece un passo in avanti, perché sapeva che tipo fosse, il maresciallo Rassetto, e anche se gli aveva lasciato la parte militare dell’operazione, l’indagine sul re del contrabbando di generi alimentari era sua.
Ma appena uscí dal buio per entrare nel primo cono di luce al maresciallo Corradini scappò un urlo soffocato, e anche il Borsaro perse il suo mezzo sorriso. Massaron afferrò il commissario per un braccio, come per sostenerlo.
– Merda, De Luca! – disse Rassetto, – ma sei ferito!
De Luca abbassò lo sguardo e vide la macchia scura che gli inzuppava la camicia e anche le maniche della giacca bianca, sugli avambracci.
– No, no, – disse, – tranquilli… è melassa. Ho sbagliato casa, sono caduto e ho rotto un vaso.
Mostrò i palmi rossastri e rise assieme agli altri, dicendosi che imbecille, da solo, ma Massaron, che si stava sfregando insieme i polpastrelli delle dita tozze, da peso massimo, e rideva piú sguaiato di tutti, smise di colpo e tornò ad afferrarlo per il braccio.
– Cristo, commissario! Non è melassa, questa, è sangue!
– Sangue? – mormorò De Luca. – Sangue? Ma io non ho… – si toccò la bruciatura sulla nuca, bagnata solo di sudore, – non… non è il mio.
Aveva addosso gli sguardi di tutti, che avevano tutti la stessa domanda. E lui la anticipò soltanto, facendosela da solo.
– Se questo sangue non è il mio, allora, di chi è?
Due torce elettriche da tasca e tre grosse candele, piú una vecchia lucerna militare che sfrigolava nella penombra rovente, ronzante di mosche. Si accanivano tutte sul corpo steso sulle tavole di legno della soffitta e De Luca strinse le labbra in un conato acido pensando che dopo esserne inciampato sui piedi era finito con la faccia dritto sulla pancia del cadavere, affondato in quel cuscino di stoffa e carne gonfia.
Era un uomo, imponente, ben vestito e morto, e non era facile dire di piú perché gli mancava la testa.
Doveva essere venuto da lí quel lago di sangue spesso e coagulato che gli circondava il corpo, da quel taglio netto che troncava il collo appena un dito sopra il colletto rigido, con ancora il nodo della cravatta.
– La scheggia di una bomba? – disse Corradini, senza convinzione, e anche De Luca stava scuotendo la testa. A parte che il bombardamento della mattina era arrivato soltanto al limitare di quella zona, e non c’era traccia dell’ingresso di una scheggia nella soffitta, la testa era stata troncata da un colpo secco, con una grossa mannaia o una piccola ascia.
– Un’ascia, – confermò De Luca a sé stesso, svuotando con la punta di un indice un solco netto e profondo che tagliava il pavimento proprio in corrispondenza di quel dito sopra il colletto. La voglia di vomitare era durata soltanto una frazione di secondo, l’orrore e il disgusto sopraffatti da quella curiosità che lo prendeva con l’eccitazione di una febbre improvvisa, sempre, nei casi come quello.
Fece cenno a Corradini di avvicinarsi con la lucerna, poi a Rassetto, che camminava piano, come sul ghiaccio, attento a non scivolare sul sangue rappreso. Massaron, inutile in quelle circostanze, era rimasto di sotto, con il Borsaro e il ragazzino in mutande.
Già sporco da prima e sicuro di non rovinare tracce che non avesse già cancellato cadendoci sopra, De Luca si era inginocchiato accanto al corpo, agitando le mani per scacciare le mosche. Infilò le dita nel taschino del panciotto, grattò dentro le tasche davanti dei calzoni, poi afferrò la cintura e sollevò il bacino de...