I racconti delle donne
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I racconti delle donne

  1. 256 pagine
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I racconti delle donne

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L'amicizia, l'invidia, l'amore, lo smarrimento, il sesso, la paura, l'ambizione, i figli, gli uomini, le risate, il coraggio. E la libertà: conquistarla, gettarla via, riprendersela in un istante di grazia. Raccontare le donne significa raccontare una forza che all'improvviso squarcia tutto, oppure si nasconde, o cammina piano e prepara la strada a chi verrà dopo. Che cosa pensano le donne, a che cosa credono, quante vittorie, sconfitte, speranze e segreti hanno dentro di sé? Quanta rabbia e quanto divertimento? Fuori dal solito affresco di eroine affrante, abbandonate, sottomesse, oppure impossibili e ribelli, c'è un mondo vivissimo, sorprendente e complesso che chiede di essere raccontato, e c'è il movimento mai stanco della scrittura e dell'esistenza. È la festa della società sovversiva delle ragazze. Annalena Benini è andata a cercare, fra i racconti piú belli della narrativa mondiale, i luoghi in cui le donne dicono chi sono davvero, dentro il semplice e inesauribile groviglio dell'essere vive. Dal valzer con un imbranato di Dorothy Parker all'invidia di Kathryn Chetkovich per il fidanzato Jonathan Franzen, dal ricordo del tradimento in Alice Munro al pozzo in cui a volte cadono le donne nella visione di Natalia Ginzburg, fino alla vertigine del suicidio di Saffo secondo Marguerite Yourcenar. È un patto con la verità: non nasconderemo niente, ma è anche la scoperta di un'idea concreta, intima e spietata della realtà e della letteratura.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858430408

Alice Munro

Quello che si ricorda
In una stanza d’albergo a Vancouver, Meriel da giovane si infila i guanti bianchi corti che porta d’estate. Indossa un abito di lino beige e un vaporoso foulard bianco sui capelli. Capelli scuri, a quel tempo. Sorride, perché ha ricordato qualcosa che, secondo una rivista, ha detto, o si dice che abbia detto, Sirikit, regina di Thailandia. Citazione di una citazione: la regina Sirikit riferiva parole di Balmain.
«Balmain mi ha insegnato tutto. Mi diceva: Metti sempre i guanti bianchi. È meglio».
È meglio. Perché la fa sorridere? Sembra un consiglio talmente soave, di una saggezza tanto definitiva e assurda. Le sue mani guantate hanno un aspetto solenne, ma soffice come le zampe di un gattino.
Pierre domanda perché sta sorridendo e lei risponde: – Niente, – e poi glielo dice.
E lui: – Chi è Balmain?
Si preparavano per andare a un funerale. Erano arrivati la sera prima in traghetto, da Vancouver Island, dove abitavano, per non rischiare di essere in ritardo alla funzione del mattino. Non erano piú stati in albergo dalla loro prima notte di nozze. Ora, quando andavano in vacanza, c’erano sempre anche i due bambini, e cosí cercavano motel a buon prezzo adatti alle famiglie.
Quello era il loro secondo funerale da quando erano sposati. Il padre di Pierre era morto, e la madre di Meriel anche, ma quelle morti risalivano a prima che Pierre e Meriel si conoscessero. L’anno prima era morto all’improvviso un insegnante della scuola di Pierre, e c’era stata una bella cerimonia, con il coro dei bambini e le parole antiche della Celebrazione delle Esequie del sedicesimo secolo. L’uomo aveva circa sessantacinque anni e la sua scomparsa non era sembrata a Meriel e Pierre né molto sorprendente né molto triste. Dal loro punto di vista non era poi tanto diverso morire a sessantacinque, settantacinque o ottantacinque anni.
Il funerale di oggi era un’altra faccenda. Era Jonas, che stavano seppellendo. Miglior amico di Pierre per anni, e suo coetaneo: un uomo di ventinove anni. Pierre e Jonas erano cresciuti insieme a West Vancouver – la ricordavano prima del Lion’s Gate Bridge, quando sembrava ancora una piccola città. I loro genitori erano amici. All’età di undici o dodici anni si erano costruiti una barca a remi e l’avevano varata al molo Dundarave. All’università si erano separati per un breve periodo: Jonas studiava Ingegneria, mentre Pierre si era iscritto a Lettere classiche, e per tradizione gli studenti di Ingegneria e di Lettere si disprezzavano a vicenda. Ma in seguito la loro amicizia si era abbastanza rinsaldata. Jonas, che non era sposato, veniva a trovare Pierre e Meriel, e certe volte si tratteneva anche un’intera settimana.
Entrambi i giovanotti erano stupefatti di come fossero andate le cose nella loro vita, e ci scherzavano su. Jonas era quello la cui scelta professionale era apparsa tanto rassicurante ai suoi, e aveva suscitato la tacita invidia dei genitori di Pierre; ma poi era stato Pierre a sposarsi, a trovare un lavoro nella scuola e a diventare una persona responsabile, mentre Jonas, dopo gli studi, non si era mai sistemato né con una ragazza né con un mestiere. Viveva in una specie di eterno periodo di prova, che non sfociava mai in assunzione definitiva in qualche ditta, e alle ragazze – almeno secondo la sua versione – era lui a imporre un eterno periodo di prova. L’ultimo impiego da ingegnere l’aveva avuto nella zona settentrionale della provincia, dove era poi rimasto dopo essersi o essere stato licenziato. «Una separazione consensuale», aveva scritto a Pierre, aggiungendo che ora stava in un albergo dove alloggiava l’alta società della zona e non escludeva l’ipotesi di accettare un lavoro presso una squadra di tagliaboschi. Stava anche prendendo il brevetto di volo e aveva una mezza intenzione di diventare pilota e mettersi in proprio. Poi prometteva di scendere a trovarli non appena le attuali difficoltà finanziarie si fossero risolte.
Meriel aveva sperato che non succedesse. Jonas dormiva sul divano del salotto, e la mattina lasciava le coperte sul pavimento, da raccogliere. Teneva Pierre alzato metà della notte a parlare di cose che erano successe quando erano ragazzi, per non dire bambini. Pierre, lo chiamava Piss-hair, soprannome che gli aveva affibbiato in quegli anni, e per gli altri vecchi amici si ostinava a riesumare nomignoli come Stinkpool, Doc e Buster, e mai i nomi con i quali Meriel li aveva sempre sentiti chiamare: Stan, Don, Rick. Ricordava con rude pedanteria i dettagli di episodi che a Meriel non parevano né significativi né comici (il sacchetto di merda di cane incendiato sui gradini di casa del maestro, le molestie del vecchio che offriva spiccioli ai ragazzi perché si calassero i pantaloni), e si irritava quando la conversazione si spostava sul presente.
Quando aveva dovuto dire a Pierre che Jonas era morto, Meriel aveva assunto un tono sgomento, colpevole. Colpevole perché Jonas non le era mai piaciuto, e sgomento perché quello era il primo loro coetaneo a morire, la prima morte davvero vicina. Pierre invece non era sembrato particolarmente colpito, né sorpreso.
– Suicidio, – aveva detto.
No, disse lei, un incidente. Era in moto, di sera, sullo sterrato, è uscito di strada. Qualcuno l’ha trovato, o forse era con lui, l’hanno soccorso subito comunque, ma è morto nel giro di un’ora. Lesioni mortali.
Era questo che le aveva detto la madre al telefono. Lesioni mortali. Le era sembrata cosí rassegnata, cosí poco sconvolta. Come Pierre quando aveva detto: «Suicidio».
In seguito, Pierre e Meriel non avevano praticamente piú fatto parola della morte, ma solo del funerale, della stanza d’albergo, del bisogno di trovare una baby-sitter disposta a fermarsi per la notte. C’era il completo da portare in tintoria, ci voleva una camicia bianca. Fu Meriel a organizzare tutto, e Pierre la controllava con coniugale paternalismo. Le fu subito chiaro che la voleva vedere pacata ed efficiente, come era lui, senza concessioni a qualsiasi manifestazione di dolore che – ne era certo – non poteva essere sincera. Gli aveva chiesto come mai avesse pensato al suicidio e lui le aveva risposto: «È la prima cosa che mi è passata per la testa». Il tono sbrigativo le era parso un segnale di avvertimento, se non addirittura un rimprovero. Come se la sospettasse di poter derivare da questa morte – o dalla loro vicinanza all’evento – una sensazione vergognosamente egocentrica. Un’eccitazione morbosa e immodesta.
I giovani mariti erano severi, in quei giorni. Pochissimo tempo prima, erano stati corteggiatori, personaggi quasi comici, titubanti e devastati dalla smania di sesso. Ora però, a letto caldo, si erano fatti risoluti e critici. Uscivano di casa ogni mattina, ben rasati, il giovane collo strizzato dal nodo della cravatta, e ricomparivano la sera, pronti a dispensare occhiate di sufficienza alla cena e a spalancare il giornale, facendone una barriera contro il caos della cucina, i piccoli malesseri, le emozioni, i neonati. Quante cose avevano dovuto imparare, in poco tempo. Come lavorarsi il capo, e come dominare la moglie. Come mostrarsi autorevoli in materia di ipoteche, beni immobili, cura del prato, impianto fognario, politica, come pure riguardo al lavoro destinato a mantenere la famiglia per il successivo quarto di secolo. Solo alle donne dunque era concesso scivolare – durante le ore del giorno e sempre tenendo conto delle strepitose responsabilità scaricate sulle loro spalle dalla presenza dei bambini – in una sorta di seconda adolescenza. Una leggerezza dell’anima quando i mariti se ne andavano. Sognanti ribellioni, raduni sovversivi, accessi di ilarità che riportavano ai tempi del liceo, muffe che fiorivano sui muri a spese dei mariti, nelle ore in cui loro erano fuori.
Dopo il funerale alcuni dei presenti erano stati invitati a casa dei genitori di Jonas, a Dundarave. La siepe di rododendri era in fiore, tutta rossa e rosa e viola. Il padre di Jonas ricevette molti complimenti sul giardino.
– Mah, insomma, – si schermiva. – Abbiamo dovuto sistemarlo un po’ troppo in fretta.
E la madre di Jonas: – Non è un vero e proprio pranzo, purtroppo. Solo uno spuntino –. Quasi tutti bevevano sherry, ma, tra gli uomini, qualcuno aveva preso un whisky. Il cibo era stato apparecchiato sul tavolo estensibile della sala da pranzo – mousse al salmone spalmata sui cracker, tartine ai funghi, sfoglie alla salsiccia, una delicata torta al limone, frutta a pezzi e biscotti alle mandorle, oltre che tramezzini ai gamberi, al prosciutto e al cetriolo e avocado. Pierre ammucchiò ogni cosa sul piattino di porcellana, e Meriel sentí la madre dirgli: – Puoi sempre tornare a prenderne ancora, lo sai, vero?
Sua madre non abitava piú a West Vancouver; era arrivata da White Rock per il funerale. E non era del tutto sicura di poter ancora rivolgere al figlio un rimprovero aperto, ora che Pierre era un insegnante e un uomo sposato.
– Non avrai paura che non avanzi niente, – disse.
Pierre rispose distratto: – Potrebbe finire quello che piace a me.
La madre disse a Meriel: – Che bel vestito.
– Grazie, ma guarda, – disse Meriel, lisciando le pieghe che si erano formate mentre stava seduta durante la funzione.
– È quello il problema, – replicò la madre di Pierre.
– Qual è il problema? – chiese disinvolta la madre di Jonas, facendo scivolare qualche tartina sulla piastra calda.
– Il problema con il lino, – disse la madre di Pierre. – Meriel mi stava appunto dicendo che il suo vestito si è tutto stazzonato, – evitò di aggiungere «durante il servizio funebre», – e io le dicevo che è questo il problema con il lino.
Forse la madre di Jonas non stava piú ascoltando. Con lo sguardo rivolto al fondo della stanza disse: – Quello è il medico che si è occupato di lui. È tornato apposta da Smithers sul suo aereo privato. Ci è sembrato un gesto cosí bello.
La madre di Pierre commentò: – Piuttosto rischioso, oltre tutto.
– Sí. Be’, credo che lo faccia d’abitudine per occuparsi dei pazienti che vivono in località isolate.
L’uomo di cui parlavano stava chiacchierando con Pierre. Non indossava un completo, anche se la giacca, su una maglia a collo alto, era dignitosa.
– Immagino di sí, – disse la madre di Pierre, e: – Infatti, – disse la madre di Jonas, e a Meriel parve che in quel modo le due donne avessero risolto e sistemato qualcosa, che forse riguardava l’abbigliamento del dottore.
Lo sguardo le cadde sui tovaglioli ripiegati in quattro sulla tavola. Non erano grandi come tovaglioli da pranzo e nemmeno piccoli come tovagliolini da cocktail. Li avevano sistemati in fila, sovrapposti in modo che un angolo di ciascuno (l’angolo ricamato con un minuscolo fiore rosa, giallo o azzurro) appoggiasse sull’angolo ripiegato del vicino. Non succedeva che due tovaglioli con ricami dell’identico colore fossero uno di seguito all’altro. Non li aveva toccati nessuno o, in caso contrario – perché in giro per la stanza aveva visto qualche persona con il tovagliolo in mano –, dovevano aver preso sempre l’ultimo della fila avendo ben cura di non turbarne l’ordine.
Durante la funzione, il sacerdote aveva paragonato la vita terrena di Jonas alla permanenza intrauterina di un bebè. Il bambino, aveva detto, non sa nulla di altre forme di vita e abita la sua tiepida, buia grotta d’acqua senza mai sospettare l’esistenza del grande mondo luminoso nel quale sarà presto catapultato. E noi mortali abbiamo una vaga idea, ma siamo assolutamente incapaci di immaginare la luce che ci attende dopo il travaglio della morte. Se il bambino potesse essere informato di ciò che gli accadrà nel prossimo futuro, non sarebbe forse incredulo, oltre che spaventato? Lo stesso accade a noi, per lo piú, ma non dovrebbe essere cosí, avendo ricevuto garanzie. Ciononostante la nostra mente cieca non sa immaginare, non sa concepire il luogo in cui giungeremo. Il bambino è avvolto nella sua ignoranza, nella fede del suo essere inerme e muto. Noi dunque, che non siamo del tutto ignoranti né del tutto consapevoli, dobbiamo aver cura di farci proteggere dalla nostra fede, dalla parola di nostro Signore.
Meriel rivolse uno sguardo al pastore, in piedi sulla soglia con il bicchiere di sherry in mano, intento ad ascoltare le chiacchiere animate di una signora dai capelli biondi cotonati. A Meriel non sembrò che stessero parlando degli spasmi della morte e della luce futura. Come avrebbe reagito se gli si fosse avvicinata e l’avesse affrontato in modo diretto sull’argomento?
Nessuno era abbastanza coraggioso per farlo. O abbastanza maleducato.
Meriel rivolse invece l’attenzione a Pierre e al dottore delle terre isolate. Pierre parlava con una vivacità che non si riscontrava spesso in lui di questi tempi. O per lo meno che Meriel non riscontrava spesso. Finse di vederlo per la prima volta. I capelli ricci, cortissimi e molto scuri che incominciavano a scoprire le tempie su una pelle liscia d’un colore avorio dorato. Le spalle grandi e ossute; i begli arti lunghi, il cranio piccolo di bella fattura. Sorrideva in modo incantevole, mai per ragioni strategiche; dava anzi l’impressione di non fidarsi affatto dei sorrisi, da quando era diventato insegnante di classi maschili. Rughe sottili, prodotto di una latente, perenne irritazione, gli segnavano la fronte.
Le tornò in mente un ricevimento scolastico – piú di un anno prima – durante il quale si erano trovati ai lati opposti della sala, esclusi dalle conversazioni circostanti. Meriel aveva fatto il giro della stanza e gli ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una festa bellissima. di Annalena Benini
  4. Racconti delle donne
  5. VIRGINIA WOOLF. La presentazione
  6. «Non riesco a smettere di scrivere»
  7. DOROTHY PARKER. Il valzer
  8. L’accondiscendenza verso il dolore
  9. MARGUERITE YOURCENAR. Saffo o del suicidio
  10. «E tu te ne vai?»
  11. ELSA MORANTE. Prima della classe
  12. La ragazza con i brutti guanti
  13. NATALIA GINZBURG. Discorso sulle donne
  14. «Noi non possiamo mentire in nessuna delle cose che facciamo»
  15. JOAN DIDION. A letto
  16. Gli anni del fulgore e della paura
  17. EDNA O’BRIEN. Oggetto d’amore
  18. Il sesso è «uno scopo in sé»
  19. MARGARET ATWOOD. Fantasie di stupro
  20. I due desideri piú grandi: diventare madre e scrivere
  21. GRACE PALEY. Amiche
  22. «Abbiamo solo noi stesse»
  23. LYDIA DAVIS. Il calzino
  24. Un inventario dell’esistenza
  25. ALICE MUNRO. Quello che si ricorda
  26. La sovversione e la prudenza
  27. KATHRYN CHETKOVICH. Invidia
  28. «Lui è piú bravo di me»
  29. CHIMAMANDA NGOZI ADICHIE. Domani è troppo lontano
  30. I capelli afro naturali
  31. NORA EPHRON. La parola con la D
  32. «Struccarmi ogni sera»
  33. YASMINA REZA. Robert Toscano
  34. L’arte non si fa con gli scrupoli
  35. VALERIA PARRELLA. Il giorno dopo la festa
  36. Una sfera rovente nella tasca
  37. MARY MILLER. Il 37
  38. La tentazione di non farcela
  39. CLAIRE DEDERER. Quando l’artista è un mostro
  40. Se sei Nabokov, c’è Vera
  41. Nota bibliografica
  42. Fonti
  43. Il libro
  44. L’autrice
  45. Copyright