La politica senza politica
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La politica senza politica

Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite

  1. 304 pagine
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La politica senza politica

Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite

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Prima c'è stata la crisi economica. Una crisi tanto dura da far pensare agli anni della Grande Depressione. In America trenta milioni di persone hanno perso la casa. In Italia interi distretti industriali sono svaniti nel nulla. Cosí è iniziato il rancore. La rabbia di chi non ha piú niente da perdere o di chi vuole difendere quanto gli è rimasto. La paura che si prova quando non si capisce cosa sta succedendo. A questa paura, talvolta irrazionale, ma comunque rea-le, la politica ha opposto un assordante silenzio. Sentendosi ignorati molti hanno perso ogni fiducia in quei partiti dai quali in passato si erano sentiti rappresentati. E si sono rivolti a forze nuove, che alle loro preoccupazioni hanno saputo dare risposte facili e perlopiú reazionarie. Queste pagine sono la riscrittura di tre saggi profetici, che diventano ora tre capitoli di un medesimo racconto: Populismo 2.0, Finale di partito e Poveri, noi. È il racconto di come siamo arrivati fino a qui, di come il populismo non sia un mostro apparso all'improvviso dall'oscurità, ma l'effetto di un deficit di rappresentanza che non possiamo fingere di ignorare, se vogliamo costruire una vera alternativa politica ai nuovi fascismi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858430194
Parte seconda

Finale di partito

Capitolo primo

All’origine della psicosi sociale contemporanea

Psicopolitica.

La domanda a questo punto è: «Vuoto perché?» O anche: «Vuoto di cosa?»
Le interpretazioni piú sofisticate del nuovo populismo – lo si è visto –, sottolineano la presenza di un certo grado di nevrosi, implicita strutturalmente nell’operazione di costruzione linguistica del popolo (sempre in qualche modo inconclusa e inconcludente). Cosí come evidenziano la tendenza in alcuni casi, non rari, a generare una serie di atteggiamenti e comportamenti che hanno la struttura della vera e propria psicosi: cioè di un disturbo della personalità consistente in una qualche sconnessione tra rappresentazioni mentali e piano della realtà, di tale portata da determinare alterazioni dei nessi interpretativi o dispercezioni, assenza di insight1 e infine forme deliranti o allucinatorie.
La psicanalisi ha tematizzato la psicosi come una piú o meno radicale rottura del rapporto tra l’Io e il mondo esterno. Freud, come è noto, la considerava come una forma di cedimento dell’Io all’Es con la relativa regressione del primo all’indifferenziato e il successivo tentativo di recupero dell’oggetto attraverso la produzione di pseudo-realtà deliranti. Jung la vedeva invece come una sorta di ipertrofia dei complessi autonomi inconsci a danno di un Io sommerso e colonizzato («inflazionato») da questi. È stato Lacan però a elaborarne forse la teoria piú complessa2, particolarmente utile – come già si è visto – per tematizzare la natura del populismo in termini psicopolitici, e per comprenderne le dinamiche genetiche. Nel suo dispositivo analitico le esperienze psicotiche sono lette come la conseguenza di un incidente occorso nel processo di identificazione del soggetto al livello del «registro simbolico»3. Una sorta di «buco» – di assenza – nel luogo in cui dovrebbe avvenire la delicata operazione del riconoscimento da parte del «piccolo Io» – non ancora compiutamente separatosi dall’indifferenziato materno – in un «Io» integrato socialmente (cioè che agisce in rapporto con gli altri). Si tratta del buco, o della falla, aperto per via della mancata iscrizione metaforica del «Nome-del-Padre» in quella scatola magica che Lacan chiama il «grande Altro», e che funziona come medium indispensabile perché il soggetto possa sperare di aver risposta alla domanda fondante «Chi sono Io?» nel momento in cui si rispecchia in un ordine simbolico che restituisce un qualche senso al suo agire.
Il «grande Altro» è appunto quell’ordine simbolico: è la «costituzione non scritta della società», come lo definisce Žižek4, la «seconda natura di ogni essere parlante» acquisita nel corso del processo di identificazione, e costituita dalle regole con cui giochiamo il gioco della vita. Esso può essere personificato o, come scrive ancora Žižek, «reificato in un solo agente: per esempio il “Dio” che, dall’aldilà , veglia su di me e su tutti gli individui reali, o anche l’Ideale in cui credo (la Libertà, il Comunismo, la Nazione) e per il quale sono pronto a dare la vita»5. È grazie alla sua onnipresenza tra me e me e tra me e gli altri se «mentre parlo, non sono mai solamente un “piccolo altro” (individuo) che interagisce con altri “piccoli altri”»6 ma un soggetto ben identificato appartenente a pieno titolo al medesimo universo di senso. Si tratta dunque di una presenza potentissima, ma insieme fragilissima, perché sopravvive – esattamente come «il Dio» – solo finché viene creduta. Finché regge l’ultimo punto di sutura al suo cuore – «punto di capitone» direbbe Lacan, cioè il punto con cui il materassaio unisce le due facce del materasso – che tiene insieme «il piccolo Je» e il «grande Io», anzi «Super-Io» che parla con la voce del «Tutto». Quel punto di congiunzione è ciò che Lacan chiama «il Nome-del-Padre» in forza del quale è stabilita, insieme all’identità, la Legge.
Il «Nome-del-Padre» entra in gioco, nello schema analitico lacaniano, nella fase dell’identificazione edipica, quando il bambino conosce l’interdetto del corpo della madre. È l’ordine perentorio che nega al desiderio il suo oggetto originario sotto pena della castrazione. La primordiale Grundnorm, la legge fondamentale che istituisce il sistema normativo in quanto tale nel momento in cui impone di separarsi e di crescere, di identificarsi e di integrarsi: gli ingredienti della «soggettivazione». Ma esso non è soltanto minaccia e autorità. È anche – a questo rinvia il suo significato letterale e paradigmatico – ciò che nomina. «Cioè che ci dà il nome». Come è stato scritto: «questo nome è il nostro nome, il nome che ciascuno di noi eredita e porta (è, per essere davvero precisi, il nostro cognome, il nostro nom de famille in francese, il nostro nome di famiglia)»7, la cui funzione è quella di significare il soggetto. Ossia di nominare e battezzare «i soggetti che noi siamo, determinando la nostra identificazione sociale o culturale»8. Ci permette dunque di inscrivere il nostro lessico particolare nel registro simbolico che struttura il linguaggio condiviso. O, detto in altre parole, costituisce «il punto in cui vengono ad annodarsi il significato e il significante»9 grazie all’imporsi di un significante primo, di un «simbolo della simbolicità stessa», che arresta la caduta a cascata delle possibili immaginazioni e neutralizza il rischio di quell’esperienza tipicamente psicotica che accade quando «il significato e il significante si presentano in una forma completamente divisa»10. Lacan ammette di non saperlo calcolare, ma ritiene non impossibile «che si arrivi a determinare il numero minimo dei punti di giuntura fondamentali tra il significante e il significato che sono necessari perché un essere umano sia detto normale, e che, quando non sono costituiti o si sciolgono, fanno lo psicotico»11. Ed è certo che ciò avvenga quando manca quel «punto di capitone» che è appunto il «Nome-del-Padre»: quando cioè si consuma la catastrofe dell’Io che precipita nel marasma delle metafore deliranti quando quel simbolo dei simboli, a cui è stato precluso l’accesso al luogo dell’«altro», si presenta in forma allucinatoria nel reale. Catastrofe tanto piú devastante e frequente quanto piú il padre abbia «realmente la funzione di legislatore o se ne valga, ch’egli sia effettivamente di quelli che fanno le leggi o che si ponga come pilastro della fede, come pietra di paragone dell’integrità o qualsiasi oggetto della devozione, come uomo di virtú o come virtuoso, come servitore di un’opera di salvezza, di nazione o di natalità, di salvaguardia o di salubrità, di legato o di legalità, del puro, del pire o dell’Empire: ideali tutti questi – conclude Lacan – che gli offrono fin troppe occasioni per essere in posizione di demerito, di insufficienza o persino di frode, e, per dirla fino in fondo, tale da escludere il ”Nome-del-Padre” dalla sua posizione di significante»12.
Questo vale nella clinica individuale, ma uno schema non diverso può essere applicato ai fenomeni collettivi, al mentale delle comunità e ai loro processi di significazione e di identificazione. Alle loro nevrosi (inevitabili, in qualche misura strutturali) e alle loro possibili psicosi (patologiche). Anche una comunità, un’aggregazione collettiva – un popolo o una parte consistente di esso – può precipitare nella psicosi, subendo cioè l’accidente della lesione di quel qualcosa, all’interno del registro del proprio simbolico, che struttura il sistema dei significanti. E vivendo l’esperienza catastrofica della perdita del centro organizzatore del discorso condiviso, di ciò che àncora lo sciame dei significanti a un qualche significato, quando nel luogo in cui era insediato il Nome-del-Padre si manifesta invece una qualche defezione, un’implosione, una falla. O un vuoto. Al livello delle dinamiche collettive, quel ruolo baricentrico era stato assunto, per secoli (nei «secoli dei secoli»), dalla Chiesa, dal piú titolato ministro del Padre, che poteva parlare quantomeno nel «Nome-del-Figlio» – del surrogato del «Dio-Padre» fattosi uomo. E poi, nell’epoca della secolarizzazione compiuta, per lo meno in Occidente, da quel «novello principe» che era il partito politico. Non piú una personificazione antropomorfa, ma una forma. La forma partito, appunto: una Gestalt nel senso letterale del termine, un’entità aggregata la cui qualità totale supera la somma matematica dei suoi componenti, che insediandosi nel posto del «Padre» si faceva garante dell’ordine del discorso, dando un senso alla catena dei significanti (del linguaggio condiviso), strutturando il registro del simbolico, e assicurando nel contempo l’ordine longitudinale delle generazioni (la genealogia del comune) e l’interlocuzione orizzontale tra i «fedeli» (l’identità del gruppo). Tutto ciò – questa funzione strutturante di un «grande Noi» da parte della macchina partito e la sua collocazione nello spazio normativo del «grande Altro» – è particolarmente evidente osservando le fasi embrionali dei partiti di massa (è relativamente normale in scienza sociale che la «verità» di un fenomeno si riveli con particolare salienza nel suo stato nascente): nel passaggio quindi tra Otto e Novecento, quando emersero nella loro forma compiuta.

Genealogia del «comune»: la funzione mentale del «moderno principe».

Solitamente è a Robert Michels, e alla sua Sociologia del partito politico, che ci si rivolge quando si vuole cogliere l’essenza del nuovo soggetto della politica nella modernità fotografata nel suo costituirsi. E a Michels infatti ritorneremo piú avanti, perché è lui che piú di ogni altro ha colto l’inevitabile torsione oligarchica – come patologia genetica di quella forma di organizzazione – di qualsiasi partito politico, anche di quello che, come la Spd tedesca, aveva la parola democrazia nel suo stesso nome. Ma se si vuole comprendere il segreto della transustanziazione della serialità dei «piccoli Io» nella forma sovrana di un «Noi» operante – e dunque la natura costituente del soggetto collettivo nella democrazia moderna svolta dal partito-macchina – è prima di tutti Moisei Ostrogorsky che bisogna interpellare. È leggendo la sua monumentale opera, La démocratie et les partis politiques13 – sostanzialmente terminata quasi un decennio prima del lavoro capitale di Michels (nel 1903) ma pubblicata un anno dopo quello (nel 1912) – che si può cogliere con precisione il vero profilo di un protagonista delle forme della politica, quale è appunto il partito, che è entrato in campo quasi in incognito (in modo «extra-costituzionale»), senza alcuna regolazione normativa, per semplice pressione dei fatti e per la necessità di risolvere il problema della presenza sovrana del popolo nei nascenti regimi democratici.
Ostrogorsky è stato infatti – come si legge nella Prefazione dell’ultima riedizione del libro, firmata da Pierre Avril – «il primo a descrivere l’invenzione del partito moderno, a mostrare perché e come questo strumento politico nuovo si è irresistibilmente imposto man mano che il regime rappresentativo si democratizzava; il primo anche ad analizzare con metodo le ragioni per cui le nostre democrazie non possono funzionare senza partiti»14. E nel contempo è stato quello che ne ha rilevato, al momento stesso del suo nascere, le ambivalenze, le zone d’ombra (come ci sono in ogni operatore mentale), i fattori di «manipolazione della volontà popolare»15, di simulazione e falsa coscienza. La forza del suo approccio – ciò che lo rende particolarmente interessante rispetto al filo di discorso che qui si sta seguendo – è l’intuizione che l’ha portato a collocare la genesi del moderno partito politico in rapporto (e a ridosso) del gigantesco fenomeno di metamorfosi dell’ordine sociale costituito dalla crisi dell’ancien régime e delle tradizionali società organiche, e del radicale processo di individualizzazione che ne era seguito: con la rottura delle antiche solidarietà di ceto, degli ordini gerarchici chiusi e delle appartenenze ascrittive. In questa crisi per la prima volta si pone la questione di quella che egli chiama «intronisation du nombre dans l’État»16. Ovvero la questione di «come la folla degli uomini vecchi e giovani, colti e ignoranti, ricchi e proletari, proclamati tutti in blocco arbitri dei loro destini politici, potessero, riuniti alla rinfusa, ricoprire la loro nuova funzione di “sovrano”»17.
Al centro – anzi, all’origine – del monumentale lavoro di Ostrogorsky c’era il problema di come riempire...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Politica senza politica
  4. La politica senza politica
  5. Parte prima. I nuovi populismi
  6. Parte seconda. Finale di partito
  7. Parte terza. Poveri, noi
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright