1. La trance.
1.1. La parola «trance».
Quale senso daremo a questo termine? Diremo che si tratta di uno stato di coscienza che presenta due componenti, una psicologica e l’altra culturale. L’universalità1 della trance indica che essa corrisponde a una disposizione psicofisiologica innata della natura umana, piú o meno sviluppata, beninteso, secondo gli individui, mentre la variabilità delle sue manifestazioni deriva dalla diversità delle culture attraverso le quali essa trova una forma. In quanto stato di coscienza, essa consiste per il soggetto in una certa esperienza vissuta, costituita da un insieme di avvenimenti che occorre aver sperimentato personalmente per poterli descrivere. Sebbene essa rappresenti in fin dei conti l’essenza del fenomeno che ci interessa, per svariati motivi non faremo appello a tale esperienza vissuta per delimitare la nozione di trance. Sarà delle sue manifestazioni esteriori come del contesto nel quale esse vengono osservate nonché delle rappresentazioni di cui sono oggetto che ci serviremo per individuarne i caratteri peculiari. Ma già i termini utilizzati da coloro che ne hanno parlato per designare presso popolazioni differenti le stesse manifestazioni, legate a contesti e a rappresentazioni similari, non sono sempre stati gli stessi. È anche accaduto che talvolta uno stesso autore abbia usato per denominarle due o tre vocaboli differenti. È quindi essenziale adottare un’unica terminologia, altrimenti non sapremo esattamente a che cosa ci riferiamo. Il primo punto da precisare riguarda l’uso dei termini «estasi» e «trance». Affronteremo in seguito il significato della parola «crisi».
1.2. Trance o estasi?
In francese, in effetti, «transe» è spesso utilizzato nella letteratura etnologica come sinonimo di «estasi»; ne daremo alcuni esempi. Ora, nell’uso corrente, queste due parole designano fenomeni ben diversi. Lo stesso si verifica in inglese, con la differenza che, se ecstasy e trance definiscono all’incirca la stessa opposizione, tanto in campo medico quanto nell’uso corrente le accezioni rispettive sono invertite rispetto al francese. Lo attestano due citazioni, tratte sia l’una che l’altra da dizionari medici. Il dizionario inglese2 definisce la trance: «Uno stato simile al sonno, paragonabile a quello della ipnosi profonda – che si manifesta anche nell’isteria e in alcuni medium spiritici – che comporta una limitazione sensoriale e delle funzioni motorie, seguito da amnesia quanto ai fatti avvenuti durante lo stato di trance»; il dizionario francese3 definisce l’estasi: «Stato mentale caratterizzato da una profonda contemplazione, con perdita della sensibilità e della motilità». Appare chiaro che quello che il primo dizionario chiama «trance», il secondo lo chiama «estasi». Se passiamo ora dalla medicina all’antropologia sociale partendo dall’inglese, notiamo che la parola «estasi» non compare nell’indice dell’opera di Jane Belo del 1960, Trance in Bali. In compenso, «estasi» e «trance» figurano entrambe in Estatic Religions di J. M. Lewis, che si apre con un capitolo intitolato Towards a Sociology of Ecstasy. Ci si aspetterebbe che l’autore vi definisse l’estasi. Niente di tutto ciò. È invece della trance4, parola che utilizzerà, scrive Lewis, nel suo «senso medico generico», che dà una definizione tratta dal Penguin Dictionary of Psychology, molto simile a quella del Taber’s citata prima. Nel suo libro si servirà il piú delle volte di trance, ma ciò non gli impedirà di utilizzare trance ed ecstasy come se si trattasse di perfetti sinonimi5. Nella raccolta di studi sulla possessione e sulla medianità in Africa, pubblicata nel 1969 da Beattie e Middleton con il titolo di Spirit Mediumship and Society in Africa, si cercherebbe invano la parola «estasi», che non compare del resto nell’indice, mentre vi si parla sempre e solo di trance. In compenso, la parola araba wajd, la quale designa presso i sufi uno stato che gli etnologi inglesi e francesi si troverebbero senza alcun dubbio d’accordo nel chiamare «transe» o trance, Macdonald, nella edizione inglese del 1901 del celebre testo di Ghazzâlî6 da lui curata, l’ha sempre tradotta ecstasy. Nella sua opera sugli ordini sufi, Trimingham si mantiene perfettamente fedele a questa tradizione, fuorché per un’eccezione molto significativa. Quando si tratta di precisare in cosa consista di fatto per lui il wajd7, egli introduce la parola «trance» e utilizza i termini ecstatic trance oppure ecstasy or trance-like «state». Quanto a Erika Bourguignon8 poi, ai cui studi sulla possessione faremo spesso riferimento, si serve costantemente della parola trance. Ma quando le capita – anche se raramente – di parlare di estasi, è per designare in tal caso il parossismo della trance9. È chiaro che il senso da attribuire alle parole «trance» e «estasi» costituisce un vero e proprio problema. Segnaliamo, per concludere, la voce generale sulla possessione, pubblicata nel 1918 nell’Encyclopaedia of Religions and Ethics (forse il primo lavoro di questo genere) dove non figurano né la parola «trance» né la parola «estasi» mentre l’espressione «crisi di nervi» vi è menzionata piú volte. In compenso, «estasi» compare negli studi riguardanti la possessione presso i Greci, i musulmani e i cristiani.
In francese, la situazione è altrettanto poco chiara. Quando tratta la possessione presso gli Etiopi di Gondar, Michel Leiris usa il piú delle volte la parola «crisi», ma gli capita anche di utilizzare «trance» – in particolar modo quando parla della danza come di un «procedimento classico per far cadere in trance» – nonché di parlare, all’occorrenza, di «tecniche estatiche»10. Stessa terminologia in Andras Zempléni che, per descrivere le sedute di possessione presso i Wolof di Dakar, parla anch’egli soprattutto di «crisi»; ma che, riferendosi alla danza, utilizza «trance» e rimanda altrove alla «trance estatica»11. Nel suo contributo allo studio del bori haussa nel Niger, Jacqueline Monfouga-Nicolas12 si serve viceversa costantemente della parola «trance», non parla mai, salvo errore, di estasi e ricorre alla parola «crisi» solo per designare un caso particolarissimo di possessione profana causata dalla droga13. Per fare un ultimo esempio se non africano, almeno d’origine africana, come quello del candomblé di Bahia, in Brasile, Roger Bastide nella sua descrizione utilizza praticamente «estasi» e «trance» come sinonimi. Se il capitolo dedicato a questo aspetto del culto s’intitola La struttura dell’estasi14, d’altro lato è con il titolo La trance che verranno trattati gli stessi fatti in Le rêve, la transe et la folie15, una raccolta pubblicata successivamente. È evidente che i quattro culti appena menzionati, il candomblé del Brasile, il bori del Niger, il culto dei rab del Senegal, e quello degli zar dell’Etiopia, presentano un certo numero di differenze. Ma sono tutti e quattro dei culti di possessione e, a parte le violenze, presentano caratteristiche paragonabili tanto per le loro manifestazioni quanto per le condizioni nelle quali si verificano nonché per le rappresentazioni alle quali danno origine. È quello che un autore chiama «crisi» – già lo abbiamo osservato –, un altro lo chiama «trance» e un terzo «estasi».
Passiamo ora a due opere altrettanto celebri ma molto diverse dalle precedenti, il Dionysos di Jeanmaire e Le chamanisme di Mircea Eliade, pubblicate entrambe lo stesso anno, il 1951. Sebbene il secondo presenti come sottotitolo Le tecniche dell’estasi, le parole «trance» ed «estasi» sono utilizzate quasi con la stessa frequenza16. Vi si può leggere, ad esempio, che presso i Samoiedi «certi grandi sciamani intraprendono in stato di trance il viaggio estatico». Quanto a Jeanmaire, questi utilizza molto piú frequentemente la parola «trance» della parola «estasi» ma parla, a proposito del ditirambo ad esempio, di «estasi collettiva» e ricorre molto spesso all’aggettivo «estatico», in particolar modo nell’espressione «trance estatica»17. Stesso uso dell’aggettivo «estatico» in Luc de Heusch18, nelle espressioni «religioni estatiche», «crisi estatica», «teatro estatico», accanto alla parola «trance», da lui molto piú utilizzata di «estasi». (Sia detto per inciso, se la parola «estatico» trova un uso piú frequente in tanti autori, ciò è chiaramente dovuto alla sua qualità di aggettivo. Se ne esistesse uno derivato da «trance», in molti casi gli autori che abbiamo citato lo avrebbero indubbiamente preferito al primo). Ultimo esempio dell’intercambiabilità delle parole «estasi» e «trance»: nella raccolta intitolata Les dames sacrées, pubblicata nel 1963 da un gruppo di orientalisti, troviamo numerosi passi dedicati espressamente alla trance: nell’indice, la parola «trance» rimanda a «estasi»19.
Questa breve panoramica dell’uso dei termini «trance» e «estasi» in etnologia mostra chiaramente quanto esso sia incerto20. Queste due parole non sono mai utilizzate per opporre due stati molto diversi l’uno dall’altro, mentre tale opposizione esiste e sarebbe importante riuscire a definirla. Nella prospettiva specifica di questo studio è tanto piú importante precisarla in quanto la trance e l’estasi si trovano con la musica in rapporti per nulla identici. Occorre quindi indicare in maniera netta ciò che le distingue per porre fine alla confusione esistente fra questi termini e definire ciò che chiameremo d’ora in avanti estasi e trance.
Tutti concorderanno nel dire che in francese è la parola estasi a venire in mente quando si pensa all’esperienza mistica descritta da santa Teresa d’Ávila, ed è questa la parola (in spagnolo éxtasis) che lei stessa uti...