Figura 8.
Angelo Morbelli, Le mondine, olio su tela, 1898-1901.
Il tentativo del ministro dell’Interno con la circolare Cavallini non raggiunse l’obiettivo. Fosse scarsa efficacia della circolare o piuttosto il sopravvenire di altre e piú urgenti cure col trasferimento della capitale da Firenze a Roma, sta di fatto che nelle biblioteche comunali si è trovato un solo esempio di topografia scritta in obbedienza all’invito. Ne parleremo piú avanti. Ma né all’Archivio centrale dello Stato né fra i documenti dell’Istat è dato reperire traccia alcuna delle relazioni richieste con tanta urgenza1. La cosa non stupisce: abbiamo già visto l’esito di progetti analoghi, come quello di Lombroso rivolto ai medici militari e quello di Paolo Mantegazza sui caratteri fisici della popolazione nazionale. È facile immaginare che la distrazione o la mala volontà diventassero una difesa istintiva contro il diluvio di circolari e di questionari che piombavano sulla testa dei sindaci o direttamente su quelle di medici e maestri di scuola. Non sappiamo quanti medici condotti abbiano reagito in qualche modo a quell’appello oltre quell’unico di cui parleremo. Ma una cosa è certa: se fallimento ci fu, non dipese da scarsa disponibilità o mancanza di convinzione da parte dei medici condotti. Quanto fosse urgente il problema delle condizioni di vita dei lavoratori dei campi e come lo si vivesse da parte dei medici lo mostrano le pagine appassionate del libro pubblicato nel 1874 da Antonio Maria Gemma citato sopra a proposito del dibattito sulla pellagra2. Ma qui è necessario riprenderlo in esame nel contesto degli anni in cui uscí perché si tratta di uno scritto animato da forte passione, una denunzia delle condizioni dei contadini. Quella che vedeva nelle marcite del milanese e nelle risaie lombarde e venete era una «popolazione dei villaggi, giallognola, sparuta, idroemica, sfiaccolata, cascante», obbligata a vivere un’esistenza miserabile. L’empito della passione non gli impediva di distinguere con precisione i problemi dei mezzadri da quelli dei bifolchi e nello stesso tempo di segnalare l’incipiente declassamento che portava il mezzadro, sempre piú indebitato col padrone, a diventare bracciante. Ma dove le sue pagine si fanno particolarmente vive e acute è nell’analisi scientifica unita all’esperienza dal vivo di pratiche antiche e nuove del mondo contadino, dalla vita notturna nelle stalle fino agli atteggiamenti davanti alla malattia e alla morte. Chi entra nelle stalle vede uomini «sdraiati sopra umida paglia, o sul letame, che putre e fermenta, delle loro bestie […] bimbi, cenciosi, seminudi, mocciosi, mondezzai viventi […] Là insieme cogli uomini vivono e respirano, le vacche, i buoi, l’asino, il mulo, e talvolta anche il maiale». Qui, tra i giovani si formano legami amorosi, cresciuti fra l’incenso delle messe domenicali e il letamaio del bestiame: o, come meglio scrive il dottor Gemma, «arrota e avventa nei loro corpacci i suoi strali un amore nato nella greppia e in sagrestia, dal puzzo dello sterco e dall’incenso dei turiboli». Vi si svolge un teatro vivente che dura dal crepuscolo alla notte alta, con discorsi e commenti che riguardano spesso «le prediche udite dal lor prete, sull’inferno, sulla vita avvenire, sui demoni, sulle streghe»: temi che impressionano e agitano i presenti e riecheggiano nei loro pensieri e nelle loro emozioni quando dalla stalla illuminata e calda escono fuori all’aperto nelle notti buie e fredde. Passando a parlare del lavoro diurno, il dottor Gemma denuncia come piú gravoso il «rondolare», cioè l’estirpazione delle erbe selvatiche dalle risaie. Questo, che è per i contadini «il piú ingrato e faticoso», va sommato poi a tanti altri: zappare, vangare, mietere, battere, per non parlare di allevare i bachi da seta, estirpare gli steli del lino e cosí via. Su questi corpi devastati dalla fatica e denutriti si esercita poi una violenza speciale, quella dei salassi. Il dottor Gemma ne indica dati statistici ma si sofferma anche su casi individuali: c’era per esempio Lucia Piccolboni, contadina ventisettenne di Erbé nel Veronese, che aveva subíto ben 27 salassi pur avendo sofferto solo di una forma di polmonite. E Maria Ronchini, pure di Erbé, era stata salassata 50 volte, senza avere avuto alcuna malattia.
Sono pagine in cui l’attenta analisi dei dati scientifici – quantità d’aria disponibile in una stalla, temperatura interna e temperatura esterna, perfino l’analisi chimica del sudicio untume sparso su porte, finestre e mura delle stalle – si unisce a statistiche dettagliate sul cibo che appare sulla tavola dei contadini delle varie categorie – poveri, di mediocre condizione, agiati –, non dimenticando di accertare le differenze tra uomini e donne3. Ma l’osservazione del dottor Gemma scende nel profondo della costituzione morale delle persone quando ne analizza gli affetti interni alla famiglia: legami intensi e antichi, ma sui quali il peggiorare delle condizioni economiche aveva causato pesanti alterazioni. Perché, ad esempio, le contadine «troppo facilmente» si rassegnano alla morte dei neonati e spesso maledicono «la troppa prolificità delle loro viscere»? Ecco una bella domanda. Al fenomeno, consueto all’epoca, della morte perinatale corrispondeva un rito funebre rovesciato rispetto ai funerali degli adulti: non un lutto ma quasi una festa per il ritorno nell’aldilà dei piccoli «angeli» biancovestiti da poco discesi sulla terra (e a lungo ci fu nelle campagne un «suonare ad angelo» delle campane per quei funerali). E che dire poi dei mercati di figli come quella che in Lombardia si chiamava «fiera di San Giovanni»? Mercato singolarissimo: qui si recavano
i piú poveri genitori tra i contadini […] Prendono con loro uno o due dei loro ragazzi che hanno raggiunto gli otto o dieci anni e li conducono nel viciniore paese di mandamento. Colà li dispongono in una piazza come tanti bruti, e là vanno li acquirenti ad assumerli in qualità di famigli […] Ecco, o umanitari d’Italia che vi commovete alla pittura della schiavitú dei negri, eccovi un nuovo genere di schiavitú […] Prima di piangere su tant’altre sventure pensate alla fiera di san Giovanni, che tutti gli anni si rinnova in uno dei piú civili paesi, la Lombardia4.
Va detto che da tempo si era scoperto che i bambini dei contadini erano in vendita in Italia: nel 1868 in un romanzo strappalacrime di un Giuseppe Guerzoni era stata narrata la «tratta dei bianchi» praticata da genitori delle montagne calabresi, proprio mentre il fenomeno veniva denunziato da una «società italiana di beneficenza» e si prendevano misure sulle compagnie di bambini musicanti, come quelli di Viggiano5.
Va detto che di rado la denunzia dei medici ebbe toni cosí veementi come quelli del dottor Gemma. Quando le loro osservazioni venivano calate dentro il genere letterario della statistica sanitaria assumevano l’asciutta severità della scienza. Tuttavia, il senso dell’urgenza di quel tipo di inchieste era condiviso nel loro ambiente. La loro cultura positivista unita a una vocazione professionale a lottare contro le cause di malattie e di morte li predisponeva a quel tipo di indagine6. L’igiene pubblica e la scienza dei medici avevano trovato lo strumento operativo necessario nella statistica combinata con la topografia come scienza dei luoghi: bisognava raccogliere tutte le informazioni possibili sulla diffusione delle malattie e sulle condizioni di vita della popolazione locale. C’erano dei nessi tra l’ambiente di lavoro e di vita e la presenza di determinate malattie. Lo strumento si chiamava statistica: una scienza recente ma già diventata da tempo una branca fondamentale del rapporto tra governanti e governati.
Fu proprio intorno alla cerniera degli anni Settanta che la statistica ottenne un riconoscimento decisivo da parte del governo e trovò l’uomo adatto per guidarne gli sviluppi: accadde quando nel 1872 l’onorevole Luzzatti suggerí il nome del professor Luigi Bodio (1840-1920) come segretario della Giunta centrale di statistica7. Di formazione giuridica, Bodio aveva già lavorato nell’elaborazione delle istruzioni per il censimento del 1871 e aveva proposto la sua concezione di un sapere statistico come strumento di conoscenza scientifica indispensabile nel governo del paese. Asceso in pochi anni, dal 1883, alla carica di direttore generale della Statistica, dette all’istituto un impulso straordinario potendo contare sull’ampia disponibilità delle strutture statali grazie all’appoggio del potere politico.
Fu in questo decennio che si ebbe lo sviluppo parallelo di due forme di indagine sulle condizioni di vita degli italiani e specialmente sulla realtà del mondo contadino: da un lato quella organizzata centralisticamente dalla Direzione di statistica, dall’altro quella sviluppata luogo per luogo da volenterosi medici condotti con le loro topografie sanitarie.
Quanto fosse desiderata l’iniziativa dal centro per promuovere e saldare le esplorazioni delle realtà locali lo mostra una lettera aperta indirizzata nel 1875 a Luigi Bodio dal medico napoletano Eugenio Fazio8. Lo scritto riassumeva lo stato della questione e avanzava la proposta di sottoporre a tutti i medici un modello unico di questionario. Secondo Fazio, quello era il solo modo per uscire dal disordine e dall’incertezza delle definizioni di malattie e cause di morte circolanti negli attestati sanitari in uso nelle varie località italiane. Il dottor Fazio dichiarava di avere le carte in regola per fare questa proposta: nei suoi studi sulla prostituzione e sull’alcolismo aveva dimostrato quante malattie e quante cause di morte avessero la loro origine in alcune diffuse piaghe sociali e come si dovesse intervenire per eliminarle9. Negli anni successivi doveva pubblicare resoconti sulle epidemie nel Sud Italia, oggetto principale dei suoi interessi. In quella lettera aperta del 1875 si appellava al modello di statistica sanitaria proposto al Reichstag di Berlino per sostenere che anche in Italia si doveva procedere con altrettanta decisione politica in quella materia. Il suo fu dunque uno dei tanti riflessi del trionfo tedesco di Sedan nella cultura italiana. Il dottor Fazio aveva ammirato in quel modello la scelta di uno schema rigido da proporre ai medici, per evitare la confusione di linguaggi e la varietà di termini che rendevano inutilizzabili le informazioni accolte. Secondo lui, soltanto seguendo quella procedura si potevano ottenere dati corretti e comprensibili da una inchiesta per ricavarne un colpo d’occhio complessivo su diffusione di malattie e carenze di assistenza. Ricordava poi che in Italia da molto tempo si progettava una statistica medica: c’era stato un preciso articolo della legge sulla sanità pubblica del 20 marzo 1865 che aveva affidato ai Consigli provinciali e circondariali di sanità la raccolta di dati in collegamento con la Giunta centrale di statistica. Ma solo in pochi grandi Comuni la cosa aveva avuto seguito. Poi c’erano stati i frutti di indagini statistiche di singoli studiosi. Fazio citava Andrea Verga sull’alienazione mentale, Pietro Castiglioni sulla prostituzione e la diffusione della sifilide, Cesare Lombroso sulla pellagra, sui delitti, sull’antropometria di delinquenti; e naturalmente «il popolarissimo Paolo Mantegazza». Ma secondo il dottor Fazio era mancato sino ad allora un riconoscimento politico dell’importanza della questione. Finalmente, pochi mesi prima c’era stato un fatto nuovo: l’allora ministro dell’A...