Veleno
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Una storia vera

  1. 296 pagine
  2. Italian
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Una storia vera

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Anche i bambini mentono. E una loro bugia può evocare l'inferno.Alla fine degli anni Novanta, in due paesi della Bassa Modenese separati da una manciata di chilometri di campi, cascine e banchi di nebbia, sedici bambini vengono tolti alle loro famiglie e trasferiti in località protette. I genitori sono sospettati di appartenere a una setta di pedofili satanisti che compie rituali notturni nei cimiteri sotto la guida di un prete molto conosciuto nella zona. Sono gli stessi bambini che narrano a psicologi e assistenti sociali veri e propri racconti dell'orrore. La rete dei mostri che descrivono pare sterminata, e coinvolge padri, madri, fratelli, zii, conoscenti. Solo che non ci sono testimoni adulti. Nessuno ha mai visto né sentito nulla. Possibile che in quell'angolo di Emilia viga un'omertà tanto profonda da risultare inscalfibile? Quando la realtà dei fatti emergerà sotto una luce nuova, spaventosa almeno quanto la precedente, per molti sarà ormai troppo tardi. Ma qualcuno, forse, avrà una nuova occasione.

Nota: niente di quello che è scritto in questo libro è stato in alcun modo romanzato dall'autore.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858430781
Categoria
Criminologia
Parte quarta

Una notte lunga vent’anni

14.

Trovare il bambino zero. Trovare Dario. Era il primo obiettivo che Alessia e io ci eravamo prefissati appena abbiamo iniziato a indagare su questa storia. Tutto era cominciato con lui. Eppure di lui, tra quelle carte, avevamo trovato solo pochissime frasi trascritte nel corso di un colloquio davanti al giudice per le indagini preliminari. Il resto delle sue dichiarazioni era riportato per bocca di Valeria Donati e della mamma affidataria nei verbali e nelle testimonianze rese a processo. Il bambino sembrava un fantasma. Un ologramma senza voce, senza una sua versione dei fatti. Non c’era da nessuna parte una storia autentica raccontata in prima persona da lui, senza filtri ed esaustiva. Cosa ricordava di quei mesi drammatici? Che idea si era fatto di tutta quella vicenda cosí contorta, cosí assurda? Avrei tanto voluto saperlo. Ma l’idea di mettermi sulle sue tracce mi aveva anche posto di fronte a un grande dilemma etico. Che diritto avevo io, che per lui non ero nessuno e che in questa storia non c’entravo nulla, di bussare alla sua porta e fargli rivivere quel dramma? Cosa ne sapevo di com’era stato negli anni successivi, o di quale percorso di psicoterapia aveva dovuto intraprendere per superare i traumi e gli incubi che crescendo aveva dovuto imparare a gestire? Potevo davvero permettermi di entrare a gamba tesa nella sua vita senza pensare di fargli male?
Dopo le rivelazioni sugli abusi, sui cimiteri e sui rituali di omicidio che aveva fatto progressivamente tra il febbraio del ’97 e l’ottobre del ’98, il mondo di quel bambino si era trasformato in una stanza di specchi che qualcuno sembrava aver frantumato in mille piccoli pezzi, alterando ogni sua percezione. I concetti di reale e immaginario si erano irreversibilmente fusi in un unico, grande calderone di incubi, ansie e manie di persecuzione che lo avevano reso ancora piú instabile. Ancora piú insicuro. E, forse, ancora piú solo.
Quando la signora Tonini aveva saputo che Giorgio 1 e 2 erano andati a prelevarlo alla scuola di Pegognaga, con la presunta complicità della maestra Rita Spinardi, era stata presa dal panico. La voce si era sparsa tra i genitori, creando un clima di sospetto che aveva investito gli stessi alunni della Vittorino da Feltre. Anche loro erano stati rapiti, Dario li aveva visti al cimitero. La Tonini non ne poteva piú. Se l’avesse lasciato ancora in quella scuola, avrebbe messo a rischio la vita di tutti i suoi familiari.
E cosí, tramite i servizi sociali, lo aveva iscritto in un altro istituto, a Gonzaga, non troppo lontano da lí. Appena Dario era entrato nella nuova classe, la direttrice didattica, Ines Monti, era stata avvicinata dai carabinieri: – Siete sicuri di rispettare le norme di sicurezza? – le avevano chiesto. – Il bambino non deve vedere nessuno –. La Monti non capiva il perché di tutte quelle precauzioni e perché le assistenti sociali di Mirandola che seguivano il neoarrivato fossero cosí ossessionate dalla questione della sua incolumità, mettendo in guardia lei e tutto il personale scolastico sul fatto che le porte e i cancelli dovessero sempre essere ben chiusi. Qualche giorno dopo, era entrata a fare una visita nell’aula di Dario. – Come sta il bambino? Come si è inserito da noi? – aveva chiesto alla maestra Marinella, prendendola in disparte. La collega le aveva risposto che Dario era un po’ particolare, aveva dei momenti «di incantamento, di malinconia», e ogni tanto bisognava richiamarlo alla realtà. Poi, inaspettatamente, la responsabile del plesso si era sentita tirare per la giacca da dietro. Era Dario, che la guardava con curiosità: – Tu chi sei? – La Monti era sorpresa. – Sono la direttrice della scuola –. Ma a lui non bastava. Voleva sapere cosa facesse esattamente, dove si trovasse il suo ufficio.
– Perché non ti vedo mai? Come ti chiami?
– Monti.
– E di nome? Come ti chiami di nome?
– Ines.
Poco tempo dopo, Dario aveva accusato anche lei. L’aveva vista nei cimiteri a Massa Finalese. Anzi, quella donna una volta l’aveva minacciato. C’era anche un uomo con i capelli un po’ lunghi brizzolati e il pizzetto che aveva inquietato il piccolo in maniera particolare. Un conte che conduceva i riti satanici nel cimitero di Gonzaga. Dario sembrava conoscere bene quel posto, lí aveva raccontato di aver visto una «porta per terra con delle scale» e i resti di un bambino ucciso. Il conte era il padre di un suo compagno di classe. Sul cofano della sua macchina, la polizia scientifica aveva rinvenuto una piccola traccia di sangue, prontamente fatto analizzare: era di origine animale. L’uomo era stato convocato a processo a Modena. Gli fu chiesto di dire con esattezza quanto distasse la sua abitazione dal cimitero e dovette spiegare a pm e giudici il perché di quella traccia ematica sulla vettura:
– Sarà stato un gatto, presumo, essendo sangue animale.
– Ma lei se n’era accorto, prima che arrivasse la polizia, di questa macchia?
– Sí.
– Già l’aveva notata?
– Sí.
– Com’è che non l’aveva pulita?
– Perché avrei dovuto passare in un lavaggio.
Un giorno, sempre a Gonzaga, Dario aveva poi detto alla Tonini di essere stato avvicinato da un uomo «con una pistola» all’uscita da scuola. Era troppo. La madre era spossata. Dovevano andarsene da lí. Tutti. Dario, lei e gli altri due figli affidatari. Ne parlò con il marito. Non potevano piú stare nemmeno in quella zona. Era diventato pericoloso.
Perciò la Tonini si era rivolta a un’amica stretta che aveva dei familiari a Crema, in provincia di Cremona. Nel loro stabile c’era un’abitazione libera. Vi si erano trasferiti subito, iscrivendo il bambino in una scuola pubblica. L’inserimento sembrava essere andato bene. Chissà che finalmente la lontananza da quei luoghi non restituisse a tutti un po’ di serenità. Ma poi, anche nella scuola di Crema, Dario aveva dato segni di insofferenza. Giovanna, la nuova maestra di matematica, gli diceva che non era capace di fare niente, lo riempiva di punizioni, lo umiliava. La Tonini era andata a colloquio con l’insegnante, che aveva negato di aver mai detto o fatto nulla al bambino. A quel punto lui aveva aggiunto un dettaglio inquietante: Giovanna un giorno lo aveva chiamato fuori dalla classe, perché c’era qualcuno che voleva parlargli al telefono della scuola. Dall’altra parte della cornetta c’era la maestra di Pegognaga, Rita, che nel frattempo era finita sotto processo, e ora gli intimava di non dire nulla e di non parlare con nessuno. Non era l’unica a rifarsi viva dal passato. Davanti alla scuola di Crema aveva rivisto anche la direttrice dell’istituto di Gonzaga, Ines Monti, che evidentemente li aveva pedinati fino a lí. La rete sterminata delle maestre cattive, amiche dei satanisti, lo aveva rintracciato anche stavolta, a piú di 120 chilometri da casa. Traslocare non era servito a nulla.
La madre affidataria era disperata. Furiosa. «Era stato raggiunto anche in questa scuola, da questa telefonata, e… ancora una volta lui non era stato tutelato», aveva commentato la donna nel corso del processo a chi le chiedeva come mai avesse deciso di toglierlo in fretta e furia anche da quella scuola, per iscriverlo a un quarto istituto in meno di un anno.
Stavolta si trattava di una scuola elementare privata, sempre a Crema, dove il bambino sarebbe stato sicuramente piú vigilato rispetto alle scuole pubbliche. E invece no. Perché pochi giorni dopo il suo inserimento il vescovo di Crema, monsignor Angelo Paravisi, era andato a trovare i bambini per gli auguri di Pasqua. Appena entrato in aula, Dario lo aveva riconosciuto. L’aveva visto nel cimitero di Massa Finalese nel corso dei rituali. Anzi, poco dopo il breve incontro, un assistente dello stesso vescovo si era avvicinato per minacciarlo. Monsignor Paravisi finí tra gli imputati del processo Pedofili-2, ritrovandosi interrogato dai pm Claudiani e Marzella, prima che la sua posizione fosse archiviata. E non era finita lí. Perché come era accaduto nella scuola di Pegognaga mesi prima, Giorgio 1 si era introdotto un pomeriggio anche in quella privata di Crema, dopo essere riuscito a farsi ancora una volta amica una delle maestre, che l’aveva aiutato a entrare.
La Tonini si era arresa di nuovo. E senza sapere piú dove nascondere quel figlio affidatario che gli orchi erano capaci di scovare fino in capo al mondo, nella primavera del 1999, due anni dopo l’arresto della famiglia Galliera, lo aveva rispedito temporaneamente nell’unico luogo in cui forse sarebbe stato protetto. L’unico luogo davvero sorvegliato, con un ingresso sempre chiuso, un cancello alto coperto da una rete e delle suore attente e coraggiose che vigilavano su tutto e tutti. Il luogo dove l’odissea del bambino era cominciata in quel lontano 26 dicembre del 1993, quando a tre anni aveva lasciato tra le lacrime la casa della vicina di Massa Finalese, Oddina Paltrinieri: il Cenacolo Francescano di Reggio Emilia.
Quella era in assoluto l’ultima notizia scritta che avevamo di lui.
Diciassette anni dopo, mi ritrovavo a digitare il suo nome ovunque sui motori di ricerca e sui social network, nella speranza di individuare qualche traccia. Con Alessia ne avevamo parlato a lungo. Dopodiché ci eravamo convinti che la cosa migliore da fare fosse dare sia a lui che a tutti gli altri bambini allontanati la possibilità di guardare questa storia da un’altra prospettiva. Quella di adulti con i mezzi e le capacità di leggere la documentazione di quel caso con occhio critico. Poteva far male, questo era sicuro. Ma forse si sarebbe fatta un po’ di chiarezza. Ci saremmo mossi in punta di piedi, ripromettendoci che al primo segnale di disagio lo avremmo lasciato in pace.
Dario, però, non si trovava da nessuna parte. Non ero certo nemmeno di quale aspetto avesse. Mi ero imbattuto in due omonimi che vivevano in Emilia Romagna, ma che per età anagrafica non corrispondevano a lui. Poi il nulla. Se volevo scoprire dove viveva, dovevo ripercorrere tutte le tappe della sua vita dall’inizio e incontrare chi l’aveva conosciuto. A cominciare dalla sua famiglia naturale.
La casa di via Abba Motto, a Massa Finalese, era l’ultima residenza nota della famiglia Galliera. Ci si arriva percorrendo una deviazione sterrata che dalla strada principale punta verso una campagna senza alberi, in direzione della località Macchioni. L’edificio giallo fatiscente si trova nel punto in cui il vialetto fa una curva a gomito. Oggi è vuoto e abbandonato, avvolto dalla nebbia, circondato da erbacce. Quando ci sono entrato, camminando su cocci di piastrelle e vetri rotti, ho provato a immaginare come vivesse quella famiglia disgraziata, che campava di stenti e quando non aveva i soldi per le sigarette fumava i mozziconi raccolti dalla strada.
Chissà in quale di quelle stanze gelide e prive di termosifoni aveva dormito Dario, quando rientrava ogni tanto il weekend da Romano e Adriana. Chissà cosa aveva visto o sentito o subito, tra quelle mura. Chissà chi erano davvero i Galliera, e in quali condizioni di povertà economica e culturale vivevano, se anche solo metà di quello che avevo letto nei documenti e sentito dai massesi in piazza era vero. Voci che raccontavano di rapporti incestuosi tra Igor e Barbara. Voci su Romano che per pagare i debiti offriva ai creditori qualche forma di pagamento in natura da parte di Adriana. Voci secondo le quali Adriana e Barbara, madre e figlia, si prostituivano dietro il parco. Voci su Romano che caricava Dario e un televisore in macchina, per poi andare da quel bandito di Fredone. «Che casso ci andava a fare, fin là?» Voci di paese. Dicerie in cui però la verità saltando da una bocca all’altra rischia sempre di precipitare e in un attimo un termine come deprivazione si trasforma in depravazione.
E comunque chi poteva dire se al loro terzo figlio, dentro o fuori da quella casa, fosse davvero accaduto qualcosa? Il medico che l’aveva visitato subito dopo i primissimi racconti di abusi aveva detto di no. Niente di anormale. Poi non gli era stato piú portato nessun altro bambino. Ed era subentrata la Maggioni. Ma ormai sembrava chiaro quanto in ambito giudiziario potesse essere relativo il concetto di «parere di un medico». O di uno psicologo. O di sentenza di condanna. O di assoluzione. Vista da qualche decina di metri di distanza, tra la nebbia, la casa di via Abba Motto, cadente e consumata dal tempo, sembrava l’icona perfetta di quella storia cosí assurda. Lontana da tutto e da tutti. Con un cartello rosso di Stop appoggiato lí, sulla facciata, in mezzo al niente. Con le finestre murate o disposte in maniera asimmetrica. Come se fosse stata disegnata da un bambino.
L’ultimo a viverci era stato Romano Galliera, vedovo di Adriana. Nel 2009 una macchina della penitenziaria l’aveva riportata lí dalla casa circondariale di San Quirico, a Monza. Aveva i capelli ingrigiti, era piena di metastasi, pesava poco piú di trenta chili ed era cosí debole da non reggersi in piedi. L’avevano scarcerata in anticipo per pietà, nonostante lei si lamentasse di essere stata fino all’ultimo oggetto di pressioni a oltre dieci anni dalle dichiarazioni di suo figlio. «Volevano che confessassi che ho bruciato i bambini nella stufa!» ripeteva a tutti.
Romano l’avrebbe seguita cinque anni piú tardi, stroncato da un tumore all’unico polmone rimastogli funzionante. Impietosa persino dopo la morte, la miseria lo ha seguito fin dentro il cimitero di Massa Finalese, dove oggi tra le lapidi di marmo dei defunti spicca una semplice croce di legno senza valore, impregnata di umidità, con al centro la foto plastificata di un settantaseienne che fissa l’obiettivo con occhi di un azzurro intenso:
Romano Galliera
18-7-1937 17-1-2014
Dove fossero gli altri due figli, Igor e Barbara, nessuno sembrava saperlo piú. Di Igor avevo sentito che si era fatto poco piú di un anno di carcere e poi era uscito. Di Barbara avevo trovato quello che poteva essere il suo profilo Facebook, anche se c’erano solo foto di fiori. E comunque un messaggio su internet, specie quando si tratta di storie cosí delicate, non è mai il miglior modo di approcciare una persona. Meglio dal vivo, o al massimo per telefono.
Cosí ho cercato la casa dei vicini che li avevano aiutati dopo lo sfratto del settembre del ’93. Oddina Paltrinieri se n’era andata l’anno prima, a seguito di una lunga malattia, lasciando il marito e le due figlie, Giulia e Claudia, entrambe adulte. Quando mi sono presentato sono state subito molto accoglienti, anche se all’inizio credo che mi guardassero con un po’ di diffidenza. Non capivano perché un giornalista di Milano fosse cosí interessato a quella storia, tanto da scendere apposta fino a lí, cosí tanto tempo dopo che si era conclusa. Ma anche se non conoscevano o non ricordavano tanti aspetti di questa vicenda, avevano vissuto da vicino l’ossessione della madre, che come don Ettore Rovatti del caso dei Pedofili della Bassa sapeva tutto, aveva conservato gli articoli di giornale e non perdeva mai occasione di parlarne con chiunque potesse aiutarla a diffondere questa storia.
Oddina era stata, a detta di tutti, una donna guidata da un forte senso di giustizia sociale, sempre in prima linea ad aiutare chi aveva bisogno di una mano. Da quando, il 26 dicembre del 1993, un’assistente sociale aveva bussato alla sua porta con un decreto che s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Veleno
  4. Parte prima. Il contagio
  5. Parte seconda. Il mondo sommerso
  6. Parte terza. Un esercito di fantasmi
  7. Parte quarta Una notte lunga vent’anni
  8. Ringraziamenti
  9. Fonti bibliografiche
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Copyright