La musica nascosta dell'universo
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La musica nascosta dell'universo

La mia vita a caccia delle onde gravitazionali

  1. 128 pagine
  2. Italian
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La musica nascosta dell'universo

La mia vita a caccia delle onde gravitazionali

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Il cinguettio dei buchi neri, l'acuto di una supernova, il boato del Big Bang. È questa la colonna sonora dell'universo che le onde gravitazionali da poco scoperte ci permettono di ascoltare, affiancandosi alle immagini dei telescopi per fornirci una nuova e piú completa visione della realtà che ci circonda. Nato a Genova nel 1940, appassionato di musica e di cristalli, Adalberto Giazotto è stato un pioniere di questa recente conquista, il primo a sfidare le enormi difficoltà richieste per ascoltare in particolar modo i bassi della sinfonia cosmica che ci circonda, quando ancora gli altri strumenti erano tarati solo sugli acuti. Le sue intuizioni e la sua tenacia sono state determinanti per le scoperte che hanno portato anche al Nobel per la fisica e che stanno rivoluzionando le nostre conoscenze. In questo libro, ultimato poco prima della sua morte, Giazotto racconta la storia affascinante della sua vita e della sua ricerca, che in molti all'inizio consideravano una vera follia, un'impresa impossibile.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858429235
Capitolo quinto

La profezia

Presto con fuoco
Se ho avuto un momento di vera soddisfazione in trent’anni, è stato quello. L’unico, in una marcia sempre in salita. Quello è stato un trionfo per noi, perché siamo stati i primi a raggiungere un silenzio cosí assoluto sulla Terra. Sentivamo l’obiettivo piú vicino, l’ostacolo principale era stato superato: sapevamo come eliminare ogni vibrazione indesiderata alle basse frequenze. Era il punto che avevamo sperato di raggiungere per anni.
La prima sensazione che ho avuto è stata d’incredulità, poi ho interpellato Hans Kautzky. Dovevamo capire con piú precisione che livello di attenuazione avessimo raggiunto. L’accelerometro artigianale che avevamo costruito, al suo limite di sensibilità, non era in grado di rilevare alcun movimento al termine della cascata di pendoli.
Presi dall’eccitazione e dalla frenesia, avviammo una serie di test per mettere alla prova l’apparato. Aiutandosi con il carroponte che avevamo in laboratorio, Kautzky si arrampicò sulla sommità della campana per il vuoto con una mazza ferrata e cominciò a percuoterla con quanta forza aveva in corpo. Zero. L’accelerometro segnava sempre zero. Come se nulla fosse successo. Come se si trovasse in un mondo parallelo, scollegato dal nostro.
Allora abbiamo costruito un motore che produceva appositamente oscillazioni meccaniche a dieci hertz, e lo abbiamo collegato al primo filo dell’attenuatore. Potevamo cosí provocare un disturbo di ampiezza enorme, per i nostri standard, e vedere che cosa succedeva alla massa di prova in fondo. Risultato: non siamo mai riusciti a rilevare alcunché, segno che l’attenuazione era di almeno 10-9, un miliardo di volte. Qualsiasi vibrazione veniva del tutto eliminata dalla catena di pendoli, fino a essere completamente assorbita dal rumore intrinseco dell’accelerometro. Il nostro obiettivo era di ottenere un’attenuazione di 10-15, cioè un milione di volte superiore. Fino a quel momento era stato considerato un traguardo impossibile, ora risultava d’un tratto a portata di mano. Era il 1987. Ed eravamo gli unici al mondo con una strategia di successo per osservare l’emissione di onde gravitazionali alle basse frequenze. Avevamo in mano le chiavi per accedere ai segreti piú nascosti dell’universo.

Alleati francesi.

Virgo è il nome dell’ammasso di galassie piú vicino, l’Ammasso della Vergine. Si trova a sessanta milioni di anni luce da noi, cioè lo vediamo oggi come era all’epoca in cui sulla Terra si estinsero i dinosauri, o poco dopo. È una distanza enorme, se si considera che la luce impiega piú o meno otto minuti per percorrere i centocinquanta milioni di chilometri che ci separano dal Sole, mentre la stella piú vicina è a quattro anni luce da noi. Nonostante questo, sessanta milioni di anni luce sono poco rispetto a gran parte delle altre galassie, che si trovano a distanze di dieci o cento volte maggiori, se non di piú.
Abbiamo scelto questo nome per il nostro rivelatore, perché è fin lí, fino all’Ammasso della Vergine, che abbiamo deciso di indirizzare la ricerca. Le barre di Weber potevano realisticamente sperare di osservare qualche fenomeno particolarmente vicino e violento all’interno della nostra galassia, il cui centro dista da noi ventiseimila anni luce. Ma, secondo le stime, tra supernove, sistemi binari e pulsar, le sorgenti significative di onde gravitazionali nella Via Lattea sono limitate. Ampliare lo sguardo fino all’Ammasso della Vergine – che di galassie ne comprende piú di mille – significava aumentare di molto la possibilità di trovare qualcosa di interessante. Quello divenne il nostro obiettivo.
Il nome lo abbiamo deciso con Alain Brillet, che è stato il mio compagno piú importante in questa avventura assieme a Carlo Bradaschia. Brillet è stato decisivo, Virgo lo abbiamo realizzato insieme. Lui si è occupato della parte ottica, noi della costruzione e dei superattenuatori.
Alain Brillet era un abile fisico sperimentale, a capo di un gruppo di ricerca sui laser del CNRS (Centre national de la recherche scientifique) a Orsay, vicino a Parigi. All’epoca era noto per le misure di altissima precisione con cui, negli anni Settanta, aveva ripetuto lo storico esperimento di Michelson e Morley alla base della relatività di Einstein: si trattava dell’esperimento che aveva dimostrato – con l’interferenza – che la luce si propaga con la stessa velocità per tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro stato di moto. Brillet ripeté il test con la luce laser, che era stata da poco inventata. E i suoi risultati, che sono rimasti ineguagliati per un quarto di secolo, sono ancora oggi molto citati tra gli esperti.
Dopo aver raggiunto questo traguardo, Brillet cominciò a interessarsi alla possibilità di usare gli interferometri per osservare le onde gravitazionali. Nei primissimi anni Ottanta si recò al MIT di Boston, dove incontrò Rai Weiss e gettò i primi semi di una collaborazione che avrebbe portato molti frutti – in termini di scambio di idee e di ricercatori – negli anni a seguire. Sempre a Orsay, in quegli anni, formò un piccolo gruppo che si dedicò alla ricerca sulle onde gravitazionali. Erano in cinque, tre fisici e due ingegneri, e riuscirono ad andare avanti con l’appoggio dell’astrofisico Philippe Tourrenc, che li accolse nel suo laboratorio di cosmologia e fisica relativistica.

Il campo proibito.

Ho incontrato per la prima volta Alain Brillet nel corso di una conferenza che si svolse a Roma nel 1985. Passeggiavamo intorno alla statua della Minerva, di fronte all’ingresso monumentale della Sapienza, quando gli raccontai quello che avevo in mente e il punto a cui ero arrivato. «Proviamo a farlo insieme», mi disse. Fu l’inizio di un’avventura comune.
Purtroppo non si sono uniti a noi altri gruppi, in particolare quelli tedeschi, inglesi e spagnoli. Penso che allora nessuno credesse veramente che saremmo riusciti nel nostro intento. Soprattutto nessuno sembrava avere fiducia nel fatto che potessimo essere operativi alle basse frequenze. Quello era il campo proibito. C’era la difficoltà di realizzare i superattenuatori, il problema di integrarli con il sistema ottico… a volte i colleghi mi guardavano come se fossi un marziano, ho vissuto momenti di sconforto e di grande solitudine. Ma i francesi no. I francesi mi hanno sempre sostenuto.

Numi tutelari.

All’inizio anche il loro gruppo era molto piccolo. Insieme, arrivavamo a malapena a dieci persone. Ma la nostra alleanza a poco a poco convinse la comunità e si fece contagiosa. Con Brillet, ci presentammo piú volte davanti alla Commissione Scientifica dell’INFN, per dar conto dei nostri progressi. L’idea era giusta, e la gente cominciava a rendersene conto. Cosí il nostro gruppo di Pisa cominciò ad ampliarsi, e presto si aggiunse un gruppo dell’Università di Napoli e uno del CNR di Frascati. Con loro, nel 1987, preparammo un documento che era già una dichiarazione di intenti, sempre piú concreta. Eravamo tutti consapevoli che, con i nostri partner francesi, avevamo tutte le competenze fondamentali per riuscire nell’impresa.
Le cose, però, non filarono lisce. Il problema era che il nostro progetto era del tutto nuovo, e non rientrava nei programmi di finanziamento della fisica delle particelle. Il CNRS, all’inizio, non mostrò alcun interesse, e infatti il documento del 1987 fu scritto in italiano e indirizzato al solo Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Ma anche l’INFN aveva altri progetti da finanziare, e il nostro richiedeva in prospettiva una grande quantità di risorse. Il risultato, dal mio punto di vista, fu un gran dispendio di energie per difendere le nostre buone ragioni, e fu uno sforzo enorme. Naturalmente avevamo sostenitori e oppositori, e alcuni degli oppositori mi hanno reso la vita impossibile. Per fortuna i sostenitori hanno prevalso. Tra tutti, ne ricordo due che non ci sono piú: Emilio Picasso e Nicola Cabibbo. Picasso era un fisico sperimentale, noto per i suoi studi di altissima precisione su alcune particelle elementari dette muoni e per aver diretto la costruzione e il funzionamento nella sua fase iniziale del Large Electron-Positron Collider, o LEP, uno storico acceleratore del CERN. Quando è andato in pensione, è stato chiamato a dirigere la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ed è stato in quel periodo, nella prima metà degli anni Novanta, che l’ho incontrato spesso.
Picasso è stato molto importante per me, sia per le discussioni di fisica che abbiamo avuto, sia per tutto l’appoggio che ha dato a Virgo. Era infatti una persona di grande calibro che aveva molta influenza all’interno dell’INFN e in Francia, dove era stato insignito della Legion d’onore. Il suo ruolo fu, dunque, importante sia per l’approvazione del progetto, sia per la successiva espansione e internazionalizzazione.
Ancora piú determinante è stato il contributo di Nicola Cabibbo, che considero un vero e proprio nume tutelare di Virgo. Cabibbo era una persona estremamente pacata, ma d’ingegno acuto. È stato uno dei padri del Modello Standard, la teoria delle particelle elementari. E avrebbe meritato il Nobel, che invece hanno vinto i suoi piú stretti collaboratori: un fatto che in tanti hanno ritenuto una vera e propria ingiustizia. Per quel che mi riguarda, da lui ho avuto sempre incoraggiamenti e gentilezze. Ma piú di tutto mi ha colpito la profondità con cui sapeva arrivare al cuore dei problemi. Ogni tanto andavo a trovarlo a Roma, nel suo studio alla Sapienza, e gli raccontavo quello che avrei voluto fare. E lui era talmente aperto di mente e intelligente che vedeva subito gli aspetti complessi della questione. Una volta mi disse che il rumore newtoniano sarebbe stato una spina nel fianco di tutti i rivelatori terrestri. Tenete a mente queste considerazioni, ci ritorneremo.

A tu per tu con Rubbia.

Puntare a un risultato ambizioso, addirittura impossibile, può essere molto azzardato. C’è il rischio concreto di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Ci sono, però, anche dei vantaggi. La gente può dire che sei pazzo, che non ce la farai mai. Ma non che non ne valga la pena. E diventa perfino piú difficile, per chi non è convinto, trovare argomentazioni contrarie. Cosí, alla fine, puoi risultare addirittura avvantaggiato. È questa una sensazione che ho provato spesso, nel corso dell’iter di approvazione e sviluppo di Virgo, e sono convinto che sia proprio cosí.
Ricordo un momento significativo, per me particolarmente critico, un convegno per la discussione del piano quinquennale dell’INFN per finanziare la ricerca dal 1994 al 1998. C’erano un migliaio di fisici riuniti nell’aula magna dell’Istituto Superiore di Sanità, in viale Regina Margherita, a Roma. Io presentavo Virgo. E chi c’era che presentava il suo progetto con me? Carlo Rubbia. Chiunque abbia conosciuto Rubbia di persona sa bene che è una persona energica e decisa, un carattere forte. All’epoca era già premio Nobel, dunque nel pieno del suo prestigio, ed era lí per presentare ICARUS, un esperimento sui neutrini che già si preannunciava come un’eccellenza della ricerca italiana. Non era una competizione tra me e lui, in quanto i due progetti non si escludevano a vicenda. Ma… Come sopravvivere al confronto? Virgo sarebbe passato indenne o sarebbe stato seppellito per sempre?
Alla fine entrambi gli esperimenti furono approvati; ma ricordo quell’episodio come uno dei tanti che, nel corso degli anni, avrebbero potuto cancellare Virgo in ogni momento, e che io vissi con grande apprensione.

A portata di mano.

Puntare a un risultato ambizioso implica anche essere disposti a mettersi in gioco. La linea che conduce al traguardo non è necessariamente la piú breve, spesso il percorso procede a zig-zag. E a volte ti riporta dritto al punto di partenza. Bisogna essere pronti a tutto, anche a buttare all’aria anni di lavoro per ricominciare daccapo con un’idea nuova, che magari avremmo potuto avere prima. A volte può sembrare il contrario, ma non si tornerà mai indietro. Bisogna essere flessibili, non irrigidirsi mai. E avere la pazienza di convincere chi ti accompagna e chi ti finanzia a seguire il tuo cammino.
Cosí è successo anche con i superattenuatori, i nostri filtri per le basse frequenze, e in particolare con le molle verticali. Raggiunto il livello di attenuazione di 10-9 a dieci hertz, sembrava fatta. Mancava solo un fattore 106, cioè attutire un milione di volte di piú, per raggiungere l’obiettivo. Forse sarebbe bastato anche meno. Il traguardo era a portata di mano.

Cambio molle.

In realtà un problema c’era, e lo sapevo benissimo. Le molle a gas che tanto avevo voluto, e che ci avevano portato fino a quel punto, non andavano bene. Avevano il difetto di dipendere troppo dalla temperatura. Tutti i materiali si espandono se aumenta la temperatura, ma i gas lo fanno ancora di piú, perché il loro volume non è fissato da alcun vincolo se non dal contenitore in cui si trovano. Nel nostro caso, un grado centigrado creava un’espansione di due centimetri. Speravamo di cavarcela con un sistema elettronico di controllo della temperatura, ma dopo un po’ fu chiaro che avevamo imboccato un vicolo cieco.
Ricordo la mattina in cui mi sono svegliato e ho mandato un messaggio a tutti i miei collaboratori: «Signori, le molle a gas non si possono utilizzare. Abbiamo visto che raggiungono un’attenuazione di 10-9, perfetto. Ma ora dobbiamo passare ad altro». Era la seconda volta che cambiavo radicalmente direzione nel programma di ricerca, e in molti non la presero bene. Ma era necessario. Sapevo quello che facevo, non temevo piú nulla.

Nuovi materiali.

Ci sono persone che sono delle pietre miliari, e Fabrizio Raffaelli è stata una di queste. Era un ingegnere di indole affabile, capace di entrare in perfetta sintonia con il suo interlocutore. Un giorno ci siamo messi al CAD e abbiamo disegnato i nuovi filtri, con le molle in acciaio al posto dei soffietti. Solo che non erano molle tradizionali, erano di forma triangolare. Si trattava, piú precisamente, di triangoli metallici disposti a cerchio, con la punta orientata verso l’interno, per reggere la struttura che faceva da appoggio al pendolo successivo. Ogni molla funzionava come un perno flessibile, in grado di reggere una parte del peso della catena di pendoli sottostante. Fino all’ultimo livello, il piú isolato da ogni possibile vibrazione, dove nella configurazione finale si sarebbe trovato lo specchio necessario alla misura delle onde gravitazionali.
Con Raffaelli abbiamo definito i nuovi filtri in un solo giorno, e sono quelli che ci sono ancora oggi su Virgo. Anche per come sono concepiti, li trovo molto ben riusciti, sono belli a vedersi.
L’idea delle molle triangolari l’abbiamo valutata a lungo e l’abbiamo presa in prestito da altri gruppi di ricerca, tra cui un gruppo di australiani con cui ho avuto contatti anche negli anni successivi. All’inizio, però, anche queste molle avevano i problemi di creep che abbiamo già descritto. Erano fatte di acciaio al carbonio e potevano andare bene per qualche mese, poi bisognava buttarle via. Alle molle a gas non potevamo tornare. Serviva un’idea nuova.
Ad avere la giusta intuizione fu sempre Raffaelli, che all’epoca aveva un incarico al Fermilab e andava spesso negli Stati Uniti. Una volta che si trovava a Los Alamos, un suo amico ingegnere gli regalò un libro. E lí, per caso, Raffaelli notò un grafico di dati che gli fece avere l’idea risolutiva. Di fatto, si trattava di porsi la domanda giusta, e cioè: come fanno i cannoni a sparare? Apparentemente non c’entra nulla, ma è la risposta che conta. Perché quando un cannone spara, la sua bocca si allarga per ragioni di elasticità, e subito dopo deve tornare esattamente com’era, per il fuoco successivo. Se non lo facesse, il cannone sfiaterebbe. Questo era il punto. La risposta alla domanda dei cannoni era la stessa che serviva a noi, di come si fa a costruire molle che non si deformino con l’uso. Insomma, per risolvere i nostri problemi bastava usare l’acciaio dei canno...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Andrea Parlangeli
  4. La musica nascosta dell’universo
  5. Preludio
  6. I. Note d’infanzia
  7. II. Nel mondo di Einstein
  8. III. Una sfida impossibile
  9. IV. Silenzio assoluto
  10. V. La profezia
  11. VI. Luce laser
  12. VII. Sudore e cemento
  13. VIII. In attesa
  14. IX. In tutto il mondo
  15. X. Oltre la Terra
  16. XI. Un miliardo di anni fa
  17. XII. Fuochi d’artificio
  18. Appendice
  19. Ringraziamenti
  20. Il libro
  21. L’autore
  22. Copyright