Animali nel buio
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Animali nel buio

  1. 352 pagine
  2. Italian
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Animali nel buio

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Informazioni sul libro

Peter Lindgren e la criminologa Hanne Lagerlind-Schön vivono ormai alla luce del sole la loro storia d'amore, nonostante la malattia che si mangia uno alla volta i ricordi della donna. Un cold case li vede di nuovo lavorare insieme, come quando è nata la loro relazione. Otto anni prima, un gruppo di adolescenti si è imbattuto nel cadavere di una bambina mai identificata. Da allora la gente di Ormberg, un paesino sperduto nel nulla, cerca di lasciarsi ciò che è successo alle spalle. Come Malin, la poliziotta che affianca Peter e Hanne nelle indagini. È stata lei, al tempo, a rinvenire quello che restava del corpo. Ormai ha cambiato vita, ma a quanto pare il passato non ha nessuna intenzione di lasciarla in pace. E quando Peter scompare, e Hanne subisce un trauma, è proprio Malin a doversi far carico delle indagini su un nuovo delitto, con il solo aiuto di un ragazzo che ha troppo da nascondere e dei ricordi che Hanne ha affidato alla carta perché non spariscano per sempre.

«Chiudo gli occhi e rievoco i contorni del cumulo di pietre alla luce della luna e gli abeti scuri tutt'intorno in cerchio. Mi sembra quasi di sentire le felci che mi solleticano le gambe e il muschio soffice sotto i piedi. La bambina di Ormberg. La gente qui ne parla ancora, nello stesso modo in cui parla di tutte le cose che non ci sono piú, come la vecchia fabbrica, la TrikåKungen e la Brogrens Mekanika. Non ci avevo mai pensato prima, ma la maggior parte delle conversazioni a Ormberg riguarda il passato».

«Camilla Grebe, signora del thriller svedese, rinnova il genere. Grazie al talento letterario».
D di Repubblica

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858429402
Ormberg

Otto anni dopo. 2017

Jake

Mi chiamo Jake. Va pronunciato come in inglese, Geik, visto che mi hanno chiamato cosí per via di Jake Gyllenhaal, uno dei migliori attori che esistano. Quasi tutti a scuola lo pronunciano male apposta: dicono Giache e gli fanno far rima con lumache o brache o, ancora peggio, cloache. Mi piacerebbe chiamarmi in un altro modo, ma non posso fare granché al riguardo. Sono quello che sono. E mi chiamo come mi chiamo. Mamma desiderava cosí tanto che mi chiamassi Jake e papà faceva sempre quello che voleva lei, forse perché la amava piú di ogni cosa al mondo.
Anche adesso che mamma è morta, in un certo senso è come se fosse ancora qui con noi. A volte per sbaglio papà apparecchia per lei e quando gli chiedo qualcosa ci mette un sacco a rispondere, come se avesse bisogno di riflettere su cosa avrebbe detto mamma. Poi arriva la risposta: «Ma sí, prendi cento corone», oppure: «Okay, vai pure da Saga a guardare un film, ma torna per le sette».
Papà non dice quasi mai di no, anche se è diventato un po’ piú severo da quando la TrikåKungen, la vecchia azienda tessile, è di nuovo un centro di accoglienza per immigrati.
A me piace pensare che dica di sí perché è buono, ma Melinda, la mia sorella maggiore, dice che lo fa perché è troppo pigro per protestare. Quando dice queste cose di solito lancia uno sguardo alle lattine di birra vuote sul pavimento della cucina, fa un sorriso sghembo e soffia cerchi di fumo perfetti che salgono piano verso il soffitto.
Penso che Melinda sia un’ingrata. Voglio dire, le è concesso persino di fumare in casa, cosa che mamma non avrebbe mai permesso, e invece di essere contenta dice queste cose di papà. Credo che da parte sua sia ingrato, ingiusto e soprattutto per niente carino.
Quando nonna era viva diceva spesso che forse papà non era «il coltello piú aguzzo del cassetto», ma che comunque abitavamo nella casa piú bella di tutta Ormberg, e non era poi cosí male. Non credo si rendesse conto che sapevo esattamente cosa intendesse con «coltello aguzzo», ma lo sapevo eccome. In ogni caso, la sua idea era che andava benissimo anche essere un coltello spuntato, finché si aveva una bella casa.
La casa piú bella di tutta Ormberg si trova a cinquecento metri dall’autostrada, in mezzo al bosco di abeti e vicino al fiume che prosegue fino a Vingåker. Ci sono due motivi per cui la casa è cosí bella: il primo è che papà è falegname e il secondo è che lavora di rado. Il che è una fortuna perché può dedicarsi alla casa quasi ininterrottamente.
Tutt’intorno all’edificio papà ha ripulito il bosco e ha costruito una terrazza enorme. È cosí grande che ci si potrebbe giocare a basket o andare in bicicletta. Prendendo bene la rincorsa, se non ci fosse la ringhiera, dal lato corto si potrebbe anche saltare dritto nel fiume. Non che a qualche adulto possa mai venire in mente di farlo: l’acqua è gelata persino in piena estate e il fondale è ricoperto di melma, alghe e vermi viscidi e schifosi. Certe volte d’estate io e Melinda gonfiamo dei vecchi materassini e ci facciamo trasportare dalla corrente fino alla vecchia segheria. Le cime degli alberi disegnano un soffitto verde che mi ricorda i fazzoletti di merletto bucherellato che faceva nonna all’uncinetto. In quei momenti si sentono solo gli uccelli, il crepitio della plastica dei materassini quando ci muoviamo e il mormorio della piccola cascata che si getta nello stagno accanto alla vecchia segheria.
Quando arriviamo alla cascata dobbiamo alzarci, trascinare a mano i materassini e guadare l’acqua bassa dove la corrente tira forte fino allo stagno, che è pieno di alghe e ninfee.
Anche se non l’ho mai conosciuto, so che da giovane nonno lavorava alla segheria, che però ha chiuso molto prima che papà nascesse. L’edificio fatiscente è stato bruciato da alcuni skinhead di Katrineholm quando papà aveva la mia età – quattordici anni – e sono rimaste le rovine annerite. Da lontano sembrano canini che spuntano in mezzo ai cespugli.
Papà dice che prima tutti a Ormberg avevano un lavoro: o nell’agricoltura o in segheria, alla Brogrens Mekaniska o alla TrikåKungen.
Ora solo i contadini lavorano, perché le fabbriche hanno chiuso e il lavoro si è trasferito in Cina. La Brogrens Mekaniska se ne sta silenziosa e abbandonata come uno scheletro di lamiera ondulata in mezzo alla piana, mentre il castello di mattoni della TrikåKungen è stato riconvertito a centro di accoglienza per immigrati.
Lí non possiamo andare né io né Melinda, nonostante papà acconsenta a farci fare quasi tutto. Su questo punto non ha nemmeno bisogno di riflettere su cosa avrebbe detto la mamma, perché quando glielo chiediamo la risposta arriva sempre rapida come un fulmine. Dice che è per la «nostra sicurezza». Cosa intenda di preciso non è chiaro, ma quando attacca con questo discorso Melinda alza sempre gli occhi al cielo, cosa che lo fa arrabbiare e allora comincia a parlare di califfato, burka e stupri.
Cosa siano un burka e uno stupro lo so, un califfato no, ma me lo sono segnato in modo da poterlo googlare – faccio sempre cosí con le parole che non conosco, perché mi piacciono le parole, specialmente quelle difficili.
In un certo senso le colleziono.
Ecco un altro segreto che non posso rivelare a nessuno. A Ormberg si prendono le botte per molto meno, tipo se ti piace la musica sbagliata o se leggi libri. Alcuni – come me – ne prendono piú di altri.
Esco in terrazza, mi chino sulla ringhiera e guardo il fiume. Le nuvole si sono assottigliate lasciando trapelare una striscia di cielo azzurro e un sole arancione intenso appena sopra l’orizzonte. La brina fa sembrare soffice la pavimentazione di legno e scintilla agli ultimi raggi di sole, mentre l’acqua del fiume scorre scura e lenta sotto di me.
Il fiume non ghiaccia mai, perché si muove sempre. Volendo, ci si potrebbe fare il bagno per tutto l’inverno, ma ovviamente non lo fa nessuno.
La terrazza è ricoperta dai rami che si sono spezzati nella bufera di stanotte. Forse dovrei radunarli e gettarli nel compost, ma sono ipnotizzato dal sole che è appeso come un’arancia sotto il bordo delle nuvole.
– Jake, vieni dentro, cazzo, – urla papà dal salotto, – cosí ti geli il culo.
Mollo la ringhiera, osservo le impronte bagnate e perfette lasciate dalle mie mani e rientro in casa.
– Chiudi la porta, – dice papà dalla sua postazione nella poltrona massaggiante di fronte alla grande tv a schermo piatto.
Abbassa il volume col telecomando e mi guarda. Gli è spuntata una ruga in mezzo alle sopracciglia folte. Si passa la mano lentigginosa sulla testa pelata. Poi la poggia automaticamente sui pulsanti che regolano i massaggi, che però non funzionano piú.
– Che ci facevi là fuori?
– Guardavo il fiume.
– Guardavi il fiume?
La ruga tra le sopracciglia si fa ancora piú profonda, come se avessi detto uno di quei paroloni che non conosce, poi però sembra decidere che è meglio non indagare oltre.
– Tra poco vado da Olle, – dice sbottonandosi i jeans per rilassare la pancia. – Melinda ha preparato qualcosa da mangiare. È in frigo. Non mi aspettare in piedi.
– Okay.
– Ha promesso di rientrare per le dieci.
Annuisco e vado in cucina, prendo una Coca e salendo in camera mia sento un formicolio nella pancia.
Starò almeno un paio d’ore da solo.
È buio quando papà va via. La porta sbatte cosí forte da far tremare la mia finestra e un attimo dopo sento la macchina mettersi in moto e partire. Aspetto qualche minuto per assicurarmi che non torni indietro, poi mi infilo in camera dei miei.
Il letto è disfatto dal lato di papà. Da quello di mamma la coperta è sistemata con cura e i cuscini sono poggiati contro la parete. Sul suo comodino c’è il libro che stava leggendo prima di morire, quello che parla di una ragazza che si mette con un riccone di nome Grey. Lui è sadico e non riesce a innamorarsi ma lei lo ama lo stesso, perché alle ragazze piace quando gli fai male. Cosí dice Vincent, almeno. Io fatico a crederci perché, voglio dire, a chi è che piace essere picchiato? A me no di sicuro. Piuttosto mi viene da pensare che la ragazza miri ai soldi di Grey, perché i soldi sí che piacciono a tutti e la maggior par...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Animali nel buio
  4. Ottobre 2009
  5. Otto anni dopo. 2017
  6. Nota dell’autrice
  7. Ringraziamenti
  8. Il libro
  9. L’autrice
  10. Dello stesso autrice
  11. Copyright