La guerra in casa
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La guerra in casa

  1. 288 pagine
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La guerra in casa

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La guerra in casa non racconta soltanto la guerra nella ex Jugoslavia, ma il suo rapporto con noi, vicini e distratti. E lo fa con una struttura inedita, in cui l'anima dello scrittore e quella del giornalista si integrano alla perfezione. Un libro di Storia e di storie. Quella del cecchino, carnefice per eccellenza, che prova, con immensa fatica, a ricominciare a vivere in Italia. L'incubo di Izmet, prelevato dalla polizia di stato un giorno qualsiasi e massacrato perché musulmano. La storia di Sead e Esad, fratelli nemici, e di ciò che hanno visto nei campi di sterminio. La squallida epopea di generali e soldati delle Nazioni Unite, e il fallimento dell'ideologia umanitaria. Ma anche l'accoglienza a Torino di centinaia di profughi e il coinvolgimento appassionato di persone comuni.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858430804
Capitolo quinto

La via dei diamanti

La Jugoslavia era una specie di ornitorinco, un animale strano e male assemblato dall’aria scoordinata, con il muso convesso in corrispondenza della Macedonia. La Croazia è una testa di coccodrillo che stringe la Bosnia tra le fauci, la Slovenia una mano che impugna una pistola, la Serbia un fagotto, la Vojvodina un tappo e il Montenegro uno sfiatatoio. Le forme sulla carta geografica si lasciano decifrare, come i pezzi di un mosaico sensato.
Le strade, poi, nel 1993 avevano tutte uno strano nome. A deciderlo era la geografia della sicurezza militare. I convogli battevano piste di sabbia o giravano intorno a fosse scavate in quello che un tempo era asfalto, andavano lenti, superati dai fuoristrada spinti a tavoletta sui tornanti del Vran, o dell’Igman o della Krušćica. A segnare la via certe palette nere con un simbolino bianco in vista: una forma geometrica, un fiore, un animale, a seconda del nome, appunto. C’era la Pacman, con la pallina che spalanca la bocca per ingoiare i fantasmini, come in un videogioco di fine anni ’70. Poi c’erano la Opal, la Emerald, la Raven, ma anche la Swan, la Kite, la Pigeon, la Salmon. E sulle palette il cigno, la trota, il piccione… Alcune avevano nomi che, se pronunciati, prendevano un suono cupo: la Gull e la Falcon, per esempio, che scomparivano a nord nelle pieghe della Krajina bosniaca conquistata dai serbi, o la Viper, inaccessibile ai convogli, che si arrampicava fra i sassi di Erzegovina fino alle città proibite dell’est: Foča, Višegrad, Goražde.
Per andare a Tuzla si partiva sulla Circle, fino a Tomislavgrad dove incominciava la Triangle, una specie di pista da sci larga e verticale sulle pendici del Vran, affacciata sulle isole del lago di Rama e su Prozor, la città-finestra. Poi la Diamond, che saliva fra i boschi costeggiando un ruscello, dalle parti della miniera di Radovan; quindi un tratto della Škoda, i tornanti fangosi della Criton che confluiva sulla Acorn poco prima di Ribnica, nella foresta; di lí la Mario (c’era l’idraulico con i baffi, sulle palette) e poi la Hawk a fianco della grande centrale termoelettrica, fino a Tuzla. Per Zavidovići stessa strada fino alla Škoda, poi Monk, Ruby, Lada e un tratto di Duck.
La storia di Sergio Lana, Fabio Moreni e Guido Puletti finisce sulla Diamond dove furono intercettati e assassinati nel tardo pomeriggio del 29 maggio 1993. Erano diretti a Zavidovići con un carico di aiuti umanitari e i documenti per l’espatrio di una quarantina di vedove con bambini che dovevano trovare accoglienza a Brescia. Viaggiavano insieme ad Agostino Zanotti e Christian Penocchio, sopravvissuti. Della loro fine, sembra, si sa tutto.
Sono da poco passate le quattro del pomeriggio, è una giornata tersa, persino calda. Il viaggio da Spalato è andato bene, senza intoppi. All’ultimo check-point delle Nazioni Unite, subito dopo Gornji Vakuf, buone notizie: la strada è libera, nessuna attività di combattimento, non ci dovrebbero essere ostacoli. La via dei diamanti sale fra boschi fitti dai colori brillanti, costeggiando un torrente che scende a valle dalle pendici della Vranica e, nonostante la tensione, può essere piacevole la lentezza a cui si è costretti dallo sterrato. Sono passati meno di dieci minuti dal «via libera» dei Caschi blu, Zanotti è alla guida di una Lada Niva blu targata Spalato, di fianco a lui siede Guido Puletti, dietro c’è Christian Penocchio. Sul camion che arranca davanti a loro sono seduti Fabio Moreni e Sergio Lana. Puletti armeggia con interesse intorno alla radio montata a bordo del fuoristrada. Sta ascoltando una comunicazione del battaglione francese, prima incuriosito, poi sempre piú attento e nervoso: «Senti un po’ che cazzo dicono questi!» Zanotti si irrita: «Siamo sulla Diamond, la radio ci serve, spegnila adesso!»
Guido non farà mai in tempo a tradurre ai suoi compagni di viaggio il messaggio dei francesi: il camion si arresta di colpo, Moreni cerca di chiamare via radio, dal bosco escono uomini armati che si dispongono ai lati degli automezzi. Indossano abiti civili mescolati a pezzi di mimetica, portano insegne musulmane: sul calcio di un fucile c’è un adesivo verde con scritte bianche in arabo. Puletti è il primo a intuire che non si tratta di un posto di blocco come gli altri: dice ai suoi compagni di tenere le mani bene in vista e non fare gesti bruschi. Dai cespugli sono saltati fuori altri uomini, una ventina. Portano berretti verdi, il segno delle prime unità paramilitari musulmane. Vengono controllati i documenti, le armi spianate, poi un membro del commando sale sulla Lada. I mezzi ripartono lungo una stradina che devia sul fianco della montagna. Dopo trecento metri, quando la Diamond Route è fuori dalla vista, una sosta. Spunta il capo, un uomo tarchiato con una faccia da gnomo (sono le parole di Penocchio), gli occhi chiari dall’aria calma, il pizzo cortissimo.
Si chiama Hanefija Prijić, figlio di Fazlija, è nato nel villaggio di Jagnjid, nel distretto di Gornji Vakuf, il quattro di marzo del 1963. Lo chiamano «Paraga», come il capo ustascia croato: non è ironia, probabilmente, ma un segno di omaggio verso la fazione estremista croata che è rimasta al fianco dei musulmani nella guerra contro i suoi stessi connazionali. Ha trent’anni, «Paraga», ma ne dimostra di piú. Con lui c’è una donna, le guance grandi, morbide, gli occhi chiari anche lei, una faccia da bambina. Penocchio ha un giubbotto blu con mille tasche, come tanti fotoreporter, simile a quello che portano gli ustascia della Hos. «Paraga» gli chiede se è un croato, Penocchio nega, spaventato, l’altro ride: «Io sono un ustascia!»
Moreni viene lasciato alla guida del camion, mentre i suoi compagni sono fatti salire su un carro tirato da un trattore con altri cinque miliziani. Tre chilometri circa, un gruppo di uomini segue il trattore cancellando le tracce con delle frasche, vengono strappati i contrassegni «Caritas» dagli automezzi, asportate le targhe. I soldati si mostrano gentili, offrono sigarette, Puletti è nervoso, avverte gli altri di non fraternizzare, di rispondere solo alle domande dirette, di tenere le mani sempre in vista. Tre chilometri, poi una specie di «campo base», ci sono civili, un pastore con un vecchio moschetto, armi piú pesanti, mortai a treppiede, lanciarazzi… Il camion è portato via. Moreni raggiunge gli altri, cerca di rassicurarli, si preoccupa molto di Sergio Lana, il piú giovane. Dice che il soldato che era con lui sul camion parla tedesco e gli ha assicurato che non vogliono altro che il carico: sono in grave difficoltà e devono rifornirsi con ogni mezzo. C’è una discussione fra i cinque o sei membri piú influenti della formazione, poi gli italiani sono fatti salire di nuovo sul carro, vengono scelti tre soldati per accompagnarli, il capo e la donna li seguono sul fuoristrada. Altri tre o quattro chilometri. Il comportamento dei soldati è diverso: niente violenza fisica, ma una nuova freddezza. Penocchio chiede che intenzioni abbiano, ma viene zittito. Il sentiero si snoda in piano, allo scoperto, i cinque vedono numerosi civili, anche dei bambini con la cartella di scuola che salutano con la mano. Moreni prega in silenzio. Lana è spaventato, dice: «Chi crede in Dio preghi…» Qualcuno propone di chiedere ai miliziani che cosa succederà. Puletti rifiuta, Moreni si decide e si rivolge a un uomo che porta un teschio cucito sulla manica della giacca: «Voi pum pum noi?» L’altro lo guarda e risponde semplicemente: «Money», poi insiste, indica la tasca posteriore di Zanotti che gli consegna il portafogli. I cinque vengono derubati di tutto. Un soldato intona una canzone.
In una radura il gruppo si ferma, scendono dai mezzi, il capo mostra una cartina geografica indicando il sentiero: «Di là Travnik». Il capo e la donna si fermano, mentre i cinque – nell’ordine: Zanotti, Lana, Puletti, Penocchio e Moreni – proseguono scortati da due soldati che aprono e chiudono la fila. Dopo poche decine di metri si fermano, quello con il teschio sulla giacca sfila gli orologi ai cinque. Sono su un tratto di sentiero in costa, pianeggiante e scoperto, a fianco di una scarpata. L’uomo con il teschio fa un paio di passi a monte, si mette al centro della fila, di fronte a Puletti, a un metro di distanza. Imbraccia il kalashnikov e carica. Cambia l’espressione del viso: «Distaccato – dirà Zanotti – Prima ci parlava, reagiva, ora era come se non avesse nessuno davanti a sé». Moreni dice quasi a fil di voce: «Ragazzi, scappiamo, questi ci ammazzano». L’uomo incomincia a sparare, a colpo singolo. Puletti è freddato sul posto, Moreni e Penocchio si buttano a valle per la scarpata, a rotoloni. Zanotti e Lana corrono a perdifiato sul sentiero. Sentono le pallottole fischiare, raffiche vicino ai piedi, rami che si spezzano. Corrono affiancati per venti metri, si dividono, si ricongiungono, Lana zoppica, ha male a una gamba. Zanotti non capisce, lo incita a correre, si butta giú per un pendio, crolla in un torrente e resta nell’acqua, si finge morto. Sono le 19 circa di sabato 29 maggio, nei pressi della miniera di Radovan.
Agostino Zanotti uscirà dall’acqua a notte e vagherà per i boschi fino all’alba quando sarà raccolto nei pressi di Bugojno da soldati dell’Armija regolare bosniaca. È convinto che nessuno sia stato colpito e che i suoi compagni siano semplicemente persi per i boschi. Penocchio si è nascosto in un cespuglio, vicino al luogo dell’eccidio, ha sentito i miliziani che lo cercavano, ha visto il corpo di Moreni sventrato e gettato in un cespuglio da due uomini. Risale il pendio all’imbrunire, trova il corpo di Puletti, lo tocca: i piedi – gli hanno portato via le scarpe – sono freddi, duri. Christian Penocchio vagherà due notti e un giorno e sarà trovato all’alba di lunedí da tre soldati bosniaco-musulmani a valle.
Ufficialmente è tutto chiaro: delitto per rapina, la magistratura di Brescia apre un’inchiesta e ricostruisce con una certa precisione i fatti del 29 maggio, procedimento contro ignoti. Poi «Paraga» viene identificato, il pubblico ministero dispone la carcerazione cautelare nei suoi confronti, ma il giudice per le indagini preliminari respinge l’istanza: trattandosi di «delitto comune» commesso fuori dai confini nazionali, non sussistono le «condizioni di procedibilità» nei confronti dell’indiziato, se questo non si trova sul territorio dello Stato. Hanefija Prijić detto «Paraga» è oggi un personaggio celebre, considerato una specie di eroe di guerra: firma senza scomporsi l’avviso inviatogli in Bosnia dalla Procura di Brescia e se ne resta a casa sua, progettando anche di darsi alla politica. Il suo «delitto comune» non è perseguibile fuori d’Italia.
Tutto chiaro.
Una rapina come tante.
In Italia si scatena un impietoso dibattito sugli aiuti umanitari spontanei. Dalle poltrone, dalle scrivanie, dalle redazioni e da qualche salotto si alzano mille voci a stigmatizzare l’imprudenza dei volontari, l’avventatezza di missioni organizzate senza effettiva conoscenza del territorio e della situazione. Inspiegabilmente la stampa mostra una tendenza a gettare la croce su Puletti, identificato come il leader della spedizione. A lui, in fretta e furia, molti attribuiscono la responsabilità indiretta di quanto è avvenuto sulla via dei diamanti. Il governo interviene istituendo, presso l’unità di crisi del ministero degli Esteri, un tavolo di coordinamento delle associazioni impegnate in ex Jugoslavia. D’ora in poi tutte le azioni umanitarie dirette al terreno di guerra saranno poste sotto l’egida e il controllo della Cooperazione italiana, una realtà proteiforme e ambigua che si accredita nelle capitali coinvolte sotto la scritta «Ambasciata d’Italia, sezione umanitaria». L’intento è impedire nuove avventatezze.
Si sa tutto di Hanefija Prijić, il capo del commando, l’assassino. Si conoscono persino le sue opinioni politiche, riportate oggi dai quotidiani locali: è un laico, si schiera con il partito dell’ex «colomba» Haris Silajdzić. È un eroe, sulle sue gesta è stata composta una ballata.
Di Moreni so poco. Solo quello che risulta dalla perizia necroscopica, la seconda, disposta dalla magistratura di Brescia. Fabio Moreni – «Trattasi di cadavere di un uomo dell’apparente età di anni 30-40, di robusta costituzione corporea, in assai scadenti condizioni di conservazione, della lunghezza di 182 cm circa. Colorazione verde-putrefattiva al volto… attinto da almeno 11 colpi d’arma da fuoco a proiettile unico» – era un imprenditore cremonese, dedito da anni ad attività umanitarie. Era stato fra i primi a correre in aiuto delle genti travolte dalla guerra in Bosnia centrale e aveva messo in gioco tutti i mezzi di cui disponeva. Era, fra gli italiani, uno dei piú esperti conoscitori del territorio bosniaco.
So ancora meno di Sergio Lana – «Giace supino e non indossa indumenti. Rigidità cadaverica risolta in tutti i distretti. Colorazione verde-brunastro di tutto il soma, con enfisema putrefattivo del volto e dello scroto. Numerose larve di dittero sono presenti sotto il corpo… è stato attinto da almeno 20 colpi d’arma da fuoco a proiettile unico» –: aveva vent’anni.
Di Puletti – «attinto da almeno tre colpi… lesioni sfacelativo-emorragiche dei tessuti molli del torace, del dorso, dell’arto inferiore destro, nonché lesioni fratturali plurime delle costole e sfacelativo-emorragiche del polmone sinistro» – invece ho una foto. È una foto un po’ insolente, in cui si vede gente allegra ed emozionata, raccolta in gruppo sui sedili di un autobus in partenza. Si sbracciano verso l’obiettivo, quasi tutti ridono. Immagini il tipo che spara battute a voce alta, quello che gli fa il controcanto e uno che racconta di quella volta che, mentre gli altri sistemano i bagagli. Guido spunta da dietro la mano di un fotografo con le dita aperte nel segno della vittoria. È seduto, un poco distante dagli altri, con lo sguardo serio, rivolto a qualcosa che sta fuori della cornice.
La foto fu scattata durante la prima marcia della pace verso Sarajevo, e forse proprio nei pressi della strada dei diamanti.
Lui non era certo uno sprovveduto né un incosciente, non era il tipo che si allontana nel bosco di notte da solo, né lo spavaldo in cerca di gloria. Era una persona umile, meticolosa, ironica. La vita lo aveva abituato a guardare oltre le cose, a tacere, a programmare. Quando pranzava in un ristorante chiedeva a sua sorella o alla sua compagna: «Che cosa piace a me?» e ordinava quello che gli veniva indicato. Prima di un viaggio gli piaceva mettere in scena una piccola gag domestica: preparava la lista di tutto quello che avrebbe mangiato mentre era lontano da casa. Dicono poi che si attenesse scrupolosamente al programma alimentare concordato. Sulle sue spalle si era posato un sistema familiare fatto di due figli e una moglie, e poi due genitori, tre sorelle e un fratello fuggiti dall’Argentina sulle sue tracce.
Era arrivato a Brescia in una mattina freddissima del dicembre ’77, dopo un breve periodo trascorso all’Elba presso parenti italiani che lo avevano accolto in fuga dalla dittatura. Gli altri lo avevano seguito perché era lui il nodo di quella famiglia. Il suo senso dell’umorismo li teneva insieme. Aveva scherzato anche due mesi prima, quando l’ambasciata italiana a Buenos Aires lo aveva tirato fuori dal campo di concentramento allestito dai militari golpisti: «Soy un desaparecido». Dopo giorni e notti di tortura. Lo avevano rapito il 20 settembre, in dieci o dodici, per la sua attività sindacale e politica. Lui aveva cominciato nel ’71 – a diciott’anni – a La Rioja, dove aveva conosciuto il lavoro estivo dei braccianti agricoli, aveva continuato nel sindacato e in organizzazioni studentesche prima e operaie poi. Lavorava presso un ministero, come impiegato. A ventun anni gli era nato il primo figlio, a ventidue il secondo. Poi il sequestro, la tortura, la fuga, la pioggia a Fiumicino, l’accento argentino soffiato nel fiato condensato di Brescia, l’aria che si fa gonfia di goccioline gelate e non vedi a un metro dai piedi. E il lavoro in fabbrica, lontano da casa, sveglia alle quattro, un tratto a piedi al confine fra le case e la campagna, verde per terra e nero in aria, il pullman, i cancelli. La moglie e i figli erano tornati in Argentina nell’80, lui li aveva seguiti, clandestino. Ma era troppo pericoloso e nella primavera dell’anno dopo il ritorno a Brescia, definitivo. Poi una nuova compagna, Cinzia, nuovi progetti.
Era un giornalista, adesso, dopo molti viaggi in America, in Africa, nell’Europa dell’Est presa dall’euforia dell’89. Lavorava per molti giornali, dal ’91 era sul teatro jugoslavo, nel ’93 era fra i pochissimi giornalisti occidentali ad aver intervistato Radovan Karadzić. Conosceva bene la paura, la precarietà, la solitudine.
Non era neppure il leader del convoglio partito da Spalato la mattina di quel 29 maggio. Condivideva il fine della spedizione ed era entrato in contatto assiduo con il «Coordinamento bresciano iniziative di solidarietà con la ex Jugoslavia» che l’aveva organizzata. Ma era soprattutto il suo lavoro a spingerlo al seguito della carovana organizzata da Zanotti, uno dei responsabili del coordinamento, e da Moreni, esponente della Caritas di Ghedi che si era unita all’iniziativa. Christian Penocchio, un fotografo, lo aveva seguito per contribuire al suo lavoro di documentazione, Sergio Lana era al primo viaggio, al seguito di Moreni. Strano: di Puletti hanno sempre parlato come di un volontario, mai come del giornalista professionista che era.
Ma le stranezze incominciano subito, a poche ore dalla loro morte, quando i corpi non sono neppure ancora tornati in Italia.
Agostino corre a perdifiato sul sentiero, sente gli spari, vede la polvere alzarsi da terra, sollecitata dalle pallottole. Raggiunge Lana, non si accorge subito che zoppica, «Madonna, ci uccidono. Scappa, corri!», lo supera, cade, si infila nel torrente. È convinto che non ci siano vittime. Pensa, spera, che abbiano sparato soltanto per spaventarli. Passa la notte nei boschi, cercando di scendere a valle. Lo recuperano i soldati dell’Armija alle cinque del mattino del 30 maggio, in mezzo ai faggi, vicino a un villaggio. Lo portano in una casermetta dove rimane fino alle 9,30, poi al comando militare di Bugojno per l’identificazione, quindi alla polizia civile.
Bugojno, un tappeto di macerie, in mano musulmana, aggredita a ondate dai croati. È lo snodo fra la strada dell’altopiano di Kupres che viene da Spalato, attraverso le pianure di Livno, e quella che congiunge Jaice (e piú a nord, una volta, Banja Luka e Zagabria) a Jablanica, crocevia per Mostar e Sarajevo. Oggi quelle strade si chiamano Albatross, Emerald, Opal, Square. Bugojno: quartieri periferici rasi al suolo, un ponte sulla Vrbas, l’albergo internazionale bruciacchiato e chiuso nelle sue lamiere che al tempo di Tito davano l’impressione della modernità. Poi quattro o cinque strade larghe e impolverate che in tempi migliori hanno ospitato il mercato: edifici che portano la memoria del passato asburgico e dei suoi vezzi esotici, all’incontro con un oriente piú immaginato a Vienna che realmente e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. La guerra in casa
  5. Elena, nata all’ombra dell’est
  6. I. Un cecchino
  7. 2. Diversi
  8. 3. Una specie di film anni ’60
  9. 4. Sul ponte
  10. 5. La via dei diamanti
  11. 6. La pace
  12. 7. Gli angeli
  13. A Elena, nata all’ombra dell’Est
  14. Postfazione, aggiornamenti storici e interviste. a cura di Mauro Ravarino
  15. Indice analitico
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright