Elogio della depressione
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Elogio della depressione

  1. 152 pagine
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Elogio della depressione

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Lo sfarinamento dei legami sociali e familiari cosí come le ferite inferte dalla depressione, che segnano un numero crescente di individui, sono i sintomi contemporanei della fragilità. Eppure proprio la fragilità ci indica i valori che danno un senso all'esistenza. Come emerge dal dialogo tra un maestro della psichiatria e un eclettico sociologo, riconoscersi fragili, insicuri, malinconici, è la premessa per ritrovare quello slancio comunitario rigeneratore che solo ci mette in contatto con noi stessi e con il mondo aperto degli altri.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
ISBN
9788858404904
Aldo Bonomi
La terra di mezzo tra l’Io e il Noi
1. La vita nuda e la nuda vita.
Ho spesso definito cura, rancore e operosità come «tracce di comunità», metafore utili a rendere consapevoli dei processi di ricomposizione del corpo sociale nell’impatto con quella vasta frattura della coscienza civile che ha segnato l’ultimo trentennio e che ho piú volte evocato nel corso del dialogo utilizzando il concetto di apocalisse culturale. Un mutamento antropologico che scava in profondità stili di vita, strutture mentali, schemi cognitivi e che costituisce lo sfondo imprescindibile sul quale situare la rappresentazione della fragilità umana e delle passioni tristi che attraversano il presente. Una frattura che in quanto tale scava e investe le fondamenta stesse del soggetto nell’epoca che la sociologia ha ribattezzato «della modernità radicale». Epoca in cui, in questa fase iniziale, la fenomenologia prevalente è ancora l’erosione dei legami sociali propri della prima modernità, quella che J. Lacan ha definito come la cultura dello «slegame» fatta di frammentazione e individualizzazione della condizione esistenziale e sociale. Eppure proprio per questo, il compito di chi fa ricerca sociale intendendola come prassi non certo neutrale è di provare a rintracciare, dentro la liquefazione delle vecchie categorie e strutture, segnali per quanto deboli di nuovo legame sociale. Parlare di cura, rancore e operosità come pezzi di coscienza collettiva che inizia a incorporare i grandi cambiamenti dell’oggi (anche il rancore), è parlare di quel carattere riflessivo che appare nonostante tutto come la cifra fondamentale del processo di modernizzazione. Un tentativo che non nega il carattere intrinsecamente umano e individuale della fragilità tanto piú nell’epoca dell’individualismo dispiegato ma che, se non vogliamo rinunciare a ragionare del senso collettivo della sofferenza e della fragilità umana, vuole situare le tre categorie della cura, del rancore e dell’operosità dentro la trasformazione della composizione sociale e del lavoro che ha caratterizzato l’ultimo trentennio di storia. Cura, rancore, operosità appaiono cosí come tentativi della soggettività di gettare un ponte tra le forme ormai logorate di legame sociale che hanno caratterizzato la modernità novecentesca e il costituirsi di un nuovo legame sociale che si produce negli interstizi dei processi di sussunzione del sociale e del personale (della relazione con l’altro) nell’economico; e che presiedono al costituirsi di quello che a tutti gli effetti possiamo definire il biocapitalismo odierno. Nel quale le trasformazioni del lavoro costituiscono la filigrana attraverso cui capire il legame che intercorre tra l’emersione di un nuovo paradigma produttivo e l’effetto tellurico che questo processo esercita sulle relazioni sociali e, in ultima analisi, sulla psiche dell’individuo. Tema ormai ampiamente frequentato con toni per lo piú apocalittici con al centro gli aspetti di infelicità e alienazione dilaganti in una fabbrica postfordista in cui il fattore del rischio esistenziale sembra passato dalle strutture dell’organizzazione alle spalle sempre meno capienti del lavoro. È dunque all’interno del processo di trasformazione del lavoro che possiamo leggere quel passaggio centrale nei dispositivi e negli apparati di disciplinamento biopolitico degli individui che, seguendo Foucault, ho descritto come il passaggio dalla somatocrazia delle grandi organizzazioni concentrazionarie della prima e seconda modernità (dalla fabbrica al manicomio) in cui a essere disciplinata era soprattutto la dimensione corporea dell’individuo (ma in fondo F. Taylor attraverso la pianificazione dei movimenti alla catena di montaggio non voleva controllare anche la mente dell’operaio?) alla fase della psicotizzazione dei rapporti sociali al cui centro è la diretta messa al lavoro della psiche umana, o meglio dell’uomo come macchina desiderante iperstimolata immersa dentro il circuito di espansione allargata dei consumi e delle esperienze.
Nelle mie ricerche ho cercato di cogliere questo passaggio, e lo spaesamento culturale e morale che ne è derivato, attraverso la categoria del capitalismo personale, non solo sintesi di capitale e persona, di economico e personale, quanto soprattutto intreccio profondo di individualismo radicale e controllo capillare. Infatti, se è reale l’ipotesi che la sofferenza, oltre a essere tratto inestirpabile dell’individualità, è espressione dell’essere che ha a che fare o comunque è influenzata dalle forme della produzione e della riproduzione sociale, è proprio il dispiegarsi di quello che io chiamo capitalismo personale a far emergere alcuni elementi che hanno a che fare con la disciplina mentale del soggetto. Un modello produttivo la cui cifra fondamentale è l’introiezione nell’individuo di tutte le contraddizioni sociali ed economiche che prima erano mediate e attutite da quelle strutture sociali (fabbrica, welfare, rappresentanza, ecc.) e politiche che davano scheletro alla comunità di destino del lavoro. Il fatto è che l’incorporazione della persona nel capitale trasforma il concetto stesso di lavoro e il rapporto tra le sfere, una volta separate, della produzione e della riproduzione della società. D’altronde se si allunga lo sguardo nel tempo sulla storia del lavoro, si capisce come per molti versi il ciclo del lavoro normato e salariato «a tempo lungo» foriero di sicurezze, ne abbia rappresentato la vera forma atipica. Un ciclo che seppure definito «glorioso» per la capacità di realizzare integrazione di individuo e società dentro uno scenario di progresso collettivo, oggi appare destinato al tramonto. Un processo che produce biografie lavorative sempre piú erratiche, incerte e frammentate. È il trionfo del «regime del tempo a breve termine» (R. Sennett), di un presentismo che sul piano della coscienza porta a una inversione rispetto all’esperienza della modernità a cui eravamo abituati: il presente non rappresenta piú una tappa intermedia tra passato e futuro, quanto dilata i suoi confini riducendo l’esperienza di vita e la sua narrazione a un incoerente e frammentato succedersi di eventi, spostamenti, ecc. Il presente si è mangiato il futuro. Come esistesse solo l’ossimoro del presente prossimo. La conseguenza è che il futuro stesso da promessa di progresso si trasforma in minaccia di destabilizzazione. I legami sociali e la vita relazionale ne sono prima logorati e poi spezzati. Spesso la vita sociale si spegne. Sta qui una delle radici di quello che ho definito il «rancore».
In questo contesto, dentro il processo di messa al lavoro della stessa soggettività delle persone, il singolo diventa terminale umano di una rete di soggetti al lavoro che debbono svolgere ruoli di almeno relativa autonomia, spinti a trasformarsi in nodi intelligenti capaci di decodificare, percepire, ricodificare ed elaborare linguaggi sempre piú complessi. Si tratta di una spinta all’autonomia che però si accompagna alla crescente esigenza dell’impresa «flessibile», di forme di disciplinamento e controllo biosociale sempre piú capillari e stringenti per evitare i pericoli di eccessiva frammentazione e di moltiplicazione di strategie di uscita individuale da parte soprattutto degli strati piú qualificati del lavoro. Qui sta la contraddizione scaturita nell’ambiguità del processo di individualizzazione e l’origine, lo ribadisco, di quella diffusione nel mondo del lavoro di forme di rancore che sembra coinvolgere anche gli strati medio-alti della piramide professionale. Nel momento in cui il sistema sociale tende a distribuire piú risorse di un tempo per l’individuazione dei soggetti, tende però anche a consolidare le forme di controllo, che non si rivolgono piú tanto ai comportamenti visibili dei soggetti, ma alle loro fonti interne, coinvolgendo e assorbendo gli spazi in cui si forma la stessa identità e gli ambiti di relazione dell’individuo. A questo processo di imprenditorializzazione/precarizzazione (due dimensioni spesso compresenti schizofrenicamente nello stesso individuo) delle vite al lavoro corrisponde, quindi, un accrescimento dei rischi che non interessano esclusivamente la sfera economica della povertà materiale, ma che ingloba l’intera persona, esponendo a minacce di disintegrazione la personalità che deve elaborare individualmente, senza un contesto di relazione e di decantazione delle esperienze. Anche le forme dell’alienazione dal lavoro, nel nuovo regime non scompaiono ma si trasformano non scaturendo piú soltanto dalla separazione rispetto al prodotto e alla macchina, quanto dalla sussunzione della persona e dalla sua trasformazione (e disciplinamento) diretta in macchina produttiva. Lo stesso tema della sofferenza si pluralizza seguendo in parte le linee di frattura in cui si è rotto il diamante del lavoro. Assecondando una composizione che, a cavallo del passaggio dal fordismo al capitalismo flessibile o postfordista che dir si voglia, tende a polarizzarsi tra i due estremi della nuda vita e della vita nuda messe al lavoro, tra il massimo dell’ipermodernità in cui è l’esistenza intellettuale dell’uomo a essere sussunta nel processo economico, e il massimo della mediocrità con il riapparire e il crescere di forme del lavoro (e della sofferenza da lavoro) arcaiche. E in cui, per finire, è la dimensione della fatica fisica e dei bisogni elementari come mangiare, vestire, pulirsi a essere messa a valore. Una trasformazione che tende oggi a riconfigurarsi in tre segmenti del lavoro che fanno da base ad altrettante direzioni della sofferenza: gli orfani del fordismo, gli stressati, i cognitari. Tre segmenti di società che definiscono oltre a strati del lavoro e delle forme di vita (o non-vita) sociale in cui si radicano differenti forme della sofferenza.
2. Il disgregarsi della fabbrica e gli orfani del fordismo.
La fabbrica novecentesca era certo un apparato concentrazionario, di controllo e di fatica del corpo. Era anzitutto questo per chi vi lavorava. Ma era anche un luogo, uno spazio, in cui il corso del secolo breve aveva stratificato storie, relazioni, culture che l’individuo incorporava riproducendo nel tempo una dimensione collettiva di saperi professionali e reti relazionali che, nelle grandi città industriali, si proiettavano fuori dalle mura degli opifici unificando fabbrica e quartiere. Era, cioè, un luogo produttore di comunità di destino in un duplice senso. Perché sul piano delle vite e dei destini personali, unificando e concentrando ciò che prima era disperso, favoriva il prodursi di una visione del mondo comune, una Weltanschauung in cui trovava posto l’elemento del riconoscimento della comune radice della propria sofferenza. Ma soprattutto era espressione di un mondo in cui se i mezzi potevano anche essere scarsi, i fini erano pochi, certi e forti. E anche se non aspiravano all’assalto al cielo o al «Sol dell’Avvenire», ma piú prosaicamente si limitavano alle aspirazioni individual-familiste del risparmio, della casa, del progresso materiale e culturale proprio e dei propri figli, le inserivano comunque in un movimento complessivo della società. In questo il secolo breve ha mantenuto fino al suo epilogo berlinese (la caduta del Muro) un tratto unificante profondo: la capacità di unire e strutturare, ad opera dell’ideologia del progresso, di una visione di futuro, tutte e tre le dimensioni della cura, del rancore (ma meglio sarebbe dire del conflitto) e dell’operosità. L’Io individuale era per lo piú inserito in una «narrazione del tempo lungo» che dava coerenza e possibilità all’individuo di cumulare le esperienze, costruendo biografie che nella propensione al futuro avevano il loro propulsore e il loro mastice. Il lavoro, per molti versi, dominato come era da ruoli, organizzazioni, grandi dimensioni, forniva un paracadute alla fragilità consustanziale dell’umano. Per usare il linguaggio della sociologia, il tempo e lo spazio erano «in squadra» e il lavoro era il codice di accesso per quest’ordine spazio-temporale delle vite.
L’avvento del capitalismo flessibile e delle sue modalità di organizzazione del lavoro è uno dei principali corrosivi di questa costruzione strutturante dell’Io. L’incedere dell’innovazione dall’alto ha lasciato sul terreno schegge e pezzi di composizione sociale e di soggettività sofferente. Producendo la prima scheggia di società del lavoro in crisi che possiamo definire come gli «orfani del fordismo». È stato un processo che almeno nel nostro paese ha scavato nel lungo periodo. Già nel 1989 quando realizzai una prima ricerca tra gli operai Fiom del lecchese per capire le ragioni dell’emergere del populismo leghista, ciò che emergeva era esattamente questo processo di disgregazione: era la «paura operaia» con il suo correlato delle prime forme di espressione del malessere che aveva investito la ormai ex comunità operaia, dalla tossicodipendenza alla depressione. Avevamo iniziato ad accorgercene tutti già qualche anno prima quando il fenomeno, come ho scritto, aveva toccato la cattedrale della società di fabbrica, Mirafiori con gli operai in Cassa che si suicidavano. Non solo perché orfani del lavoro ma soprattutto perché privi di quel super io strutturante che era stata la comunità di destino della classe. Orfani della capacità strutturante della fabbrica, del lavoro normato e a vita, del lavoro organizzato come asse portante della propria vita interiore. Suicidi per mancanza di lavoro, per un lavoro che o non c’era piú o diventava piú labile, saltuario, o magari dequalificato. Una sofferenza da perdita del lavoro e della sua capacità strutturante sull’Io. Una sofferenza nostalgica.
Che però, soprattutto a fronte del salto prodotto dalla grande crisi globale, non rappresenta un qualcosa che possiamo esorcizzare confinandolo nel passato di una transizione ormai compiuta. Basti pensare a cosa avviene oggi a Mirafiori, con la Fiat che torna come un flusso da Detroit atterrando su ciò che resta della fragile comunità di destino operaia. Lo testimonia in modo eclatante, dentro la crisi del turbo capitalismo globale, il caso dei suicidi dei quadri intermedi e degli operai specializzati della francese France Telecom, altra grande cattedrale del comunitarismo professionale e di classe del secolo scorso. Un caso emblematico di una nuova rottura, ovvero del fatto che oggi la sofferenza micidiale, capace cioè di arrivare fino al punto estremo dell’autodistruzione, ha rotto gli argini che la società per ceti e classi gli aveva costruito intorno confinandola ai piani bassi della scala sociale. Perché dentro la crisi generale della forma statualizzata della comunità di cura, il welfare nazionale, oggi la vulnerabilità e il suo esito estremo del togliersi la vita per il non-lavoro hanno iniziato a dilagare nella tranquilla prateria dei ceti medi. Coinvolgendo nel nostro paese la comunità operosa del lavoro autonomo e della piccola impresa in cui il fallimento dell’impresa dentro la grande crisi, fallimento di status e prestigio nella comunità locale, ha portato piccoli imprenditori veneti o brianzoli a togliersi la vita. Al di là della diversa posizione sociale ci sono, mi pare, due elementi che accomunano nel profondo il gesto suicidario di figure cosí diverse come quadri d’azienda, ingegneri, operai, piccoli artigiani. Suicidi della morte della classe sociale in primo luogo; di chi si è ritrovato nudo e da solo inerme e non piú integrato e protetto nel super io sociale della classe o della comunità di fronte alla forza destrutturante del capitalismo dei flussi. Ma soprattutto atti che testimoniano piú ancora della paura, una solitudine epocale che nel vuoto di opzioni collettive si traduce in un atto, in un’espressione gridata di rancore verso un lavoro che si è tramutato in prigione che riduce all’impotenza. È questo il vero corto circuito scatenante, l’intreccio tra solitudine e assenza di conflitto, che emerge dalle pieghe della rivoluzione del capitalismo flessibile. Quando nel corso del 2009 ben 23 tra impiegati, tecnici, operai specializzati di France Telecom si tolgono la vita in successione lo fanno palesemente, spesso sul luogo stesso di lavoro, come atto d’accusa solitaria, atto d’impotenza collettiva e allo stesso tempo estrema affermazione del sé. Ma è una affermazione di sé vissuta dagli individui tutta all’interno di sé, in quanto monadi autistiche; una sofferenza afona che infatti finisce per sfociare nell’atto estremo del suicidio. Nelle fabbriche del capitalismo flessibile, a France Telecom come in altri luoghi del mondo, per i lavoratori che restano la sofferenza esplosa in suicidio appare piú un messaggio ansiogeno da esorcizzare e fuggire che una scintilla capace di coagulare una nuova comunità di destino in cui assumere la sofferenza altrui come propria. Con il prodursi di un tragico raggelamento del pensiero, rigettando l’onere della causa di sofferenza sulla fragilità intrinseca dell’individuo.
3. Lavoro e tempo di vita.
C’è poi la sofferenza e a volte la sua traduzione estrema in suicidio che travolge quel pezzo di mondo del lavoro che possiamo definire degli «stressati del lavoro». In questo caso non è la mancanza di lavoro causa scatenante della scelta di mettere fine alla propria vita quanto l’overdose di lavoro e competizione; vissuti ambedue come introiezione individualizzata del rischio, come sovraccarico nervoso che logora il carattere. La radice sta qui nel processo di sfondamento dei confini tra tempo di vita e tempo di lavoro che rappresenta uno dei grandi mutamenti nella sfera dei rapporti sociali ed economici. Mutamento quasi paradossale dentro una crisi che sta rendendo realtà la prospettiva di una scarsità di lavoro di lunga durata: aumenta la disoccupazione e si lavora sempre di piú. Già nel 1999, mentre in Italia si parlava di riduzione dell’orario di lavoro, una ricerca della Commissione europea faceva emergere come oltre la metà dei 147 milioni di lavoratori nei 15 stati membri della Ue riferiva di «lavorare a ritmi molto serrati e di dover rispettare scadenze tassative», con il 28% che si definiva affetto da «stress». Sempre piú si lavora fuori dai confini della normale giornata lavorativa. Dai numeri dell’Istat in Italia nel 2006 il 23,2% degli occupati dichiarava di lavorare spesso fuori dall’orario di lavoro: nodi di reti neurali intelligenti perennemente attive con una estensione del tempo di vita sussunto nel lavoro. Utilizzando ogni giorno il Pc a casa o sul treno (il 19,8%), telefonando (41%), incontrando altre persone (30%). Mettendo a valore le relazioni personali e le forme di vita sociale: in una ricerca che AAster ha realizzato nel 2008 tra Torino e Milano tra i professionisti della comunicazione e del design, alla domanda se capitava di dedicare il proprio tempo libero e la propria socialità a discutere di lavoro, il 32% rispondeva «normalmente» e un altro 35,2% «accade di frequente». Una messa al lavoro del privato che tuttavia piú che una scelta appare un destino, visto che per il 56% degli occupati (sempre dati Istat) il lavoro fuori dall’orario ufficiale è «obbligatorio» e per un restante 31% «richiesto dai carichi di lavoro». È la socialità dell’individuo, la sua rete di relazioni non economiche il punto di sfondamento piú pesante del processo. Quando gli operai di Melfi nel 2003 bloccano i cancelli del gioiello del toyotismo all’italiana, la fabbrica integrata di Sata-Fiat, protestano non soltanto per turni e salario, ma soprattutto perché la fabbrica pur garantendo loro un lavoro e un reddito regolari, stava inaridendo la loro vita sociale e comunitaria. E d’altronde quanto piú luogo di vita e luogo di lavoro tendono a scindersi con l’estendersi dei processi di metropolizzazione del territorio, tanto piú anche il tempo di lavoro si allunga sotto forma di mobilità e pendolarismo. Con la conseguenza che la precarietà tende a diventare una causa sempre piú frequente di ricorso agli apparati della cura, come mostra una recentissima ricerca tra i pazienti delle Asl piemontesi, dove nei Servizi psichiatrici torinesi gli utenti lavoratori «precari» sono passati da 2-3 a settimana a ben 2 al giorno. Con un campionario di patologie fatto soprattutto di disturbi psicotici (35,7%), ansia (16,1%) e depressione (12%).
È lo stress dunque che sembra accomunare in un invisibile e strano legame internazionale e interclassista figure agli antipodi tra loro come i manager milanesi o i muratori bresciani che «sniffano» quotidianamente la coca per reggere i ritmi del lavoro in regime di committenza; oppure a migliaia di km di distanza gli operai cinesi della Honda che si suicidano perché non piú in grado di sostenere non solo i ritmi del lavoro della fabbrica ma l’isolamento sociale a cui i contratti li costringerebbero inderogabilmente per lunghi periodi della vita. Una patologia del lavorare come dimensione totalizzante trasversale dunque, che in Italia studi recenti hanno stabilito potrebbe interessare sotto forma di quello che gli anglosassoni hanno ribattezzato «workalcoholism», dipendenza da lavoro, un esercito di quasi settecentomila persone e a livello mondiale il 25% della popolazione. Con un effetto paradossale quanto al posizionamento di questa scheggia di lavoratori dentro il rapporto tra pratiche di vita e stili di consumo. Perché se la propensione a vivere il consumo come vera e propria cittadinanza e, a volte, come lenitivo della sofferenza provata nel sacrificare la propria dimensione soggettiva al lavoro, rimane fondamentale come molla che spinge all’overdose lavorativa soprattutto negli strati professionali medio-alti e affluenti, è anche vero che tutto ciò implica l’impossibilità del consumo stesso. Valga per tutti l’esempio fulminante dei giovani professionals americani con i garage pieni di apparecchi elettronici e strumenti di fitness che non riescono a utilizzare per mancanza di tempo raccontato da Douglas Coupland in Microservi. Producendo quella che ho chiamato una infelicità desiderante presa in mezzo tra le spinte di una cultura economicista e consumista latrice della promessa di un ampliamento illimitato delle attese di consumo e di autorealizzazione, e la pratica di una sottomissione del tempo di vita alle esigenze della produzione con un restringimento delle reali possibilità di vita libera e autodeterminata. Ciò che produce quella coscienza triste che mi è capitato spesso di trovare raccogliendo i racconti di vita dei lavoratori delle professioni terziarie.
4. La messa al lavoro del bios.
Al centro del cambio di paradigma nella condizione del lavoro si colloca poi un terzo processo, della messa al lavoro di ciò che definisco come la nuda vita del soggetto, fatta delle facoltà cognitive, delle funzioni psichiche e del corpo vivente, delle forme di vita relazionale che l’in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione
  5. Elogio della depressione
  6. I. La terra di mezzo tra l’Io e il Noi di Aldo Bonomi
  7. II. Elogio della depressione di Eugenio Borgna
  8. III. Dialogo tra Eugenio Borgna e Aldo Bonomi
  9. Bibliografia
  10. Profili biobibliografici degli autori