II.
La «differenza» cristiana
Il cristiano non evade dalla storia.
Anche se le statistiche relative ai battezzati o agli «avvalentisi» dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica non lo sanciscono ancora, appare ormai chiaro che anche in Italia i cristiani vivono in condizione di minoranza: già da tempo non si vive piú in quello spazio di cristianità caratterizzato dall’osmosi fra chiesa e istituzioni sociali e politiche. Questo dato si affianca alla mutata strutturazione e composizione della società civile: un pluralismo di fedi e culture ormai caratterizza, e caratterizzerà sempre di piú, le nostre città e i nostri paesi. Come custodire l’identità e approfondirla nel confronto e nell’incontro con gli altri senza cadere in atteggiamenti di chiusura preconcetta e di rifiuto, di intolleranza e di rigetto? E come vivere questa volontà di incontro, questo desiderio di dialogo, senza cedere alla tentazione del relativismo e abdicare alla propria storia e tradizione? Il problema non riguarda solo l’identità cristiana, ma anche quella culturale di un popolo. In tutti e due questi ambiti, si vedono oggi fiorire atteggiamenti ispirati a paura, chiusura, difesa di un’identità ritenuta immobile, definita una volta per tutte (quasi che ogni identità, personale e nazionale, non si costruisca storicamente proprio attraverso l’incontro con altri), fissa e immutabile.
La tentazione oggi presente nella compagine ecclesiale, di fronte alla condizione di minoranza che può spaventare e far temere per il domani della fede e della chiesa, pare quella di identificarsi con l’Occidente, di declinarsi come «religione civile» utile alla società sempre piú frammentata e smarrita. Può anche darsi che in questa condizione la chiesa riesca a potenziare la propria presenza e la propria influenza sulla società, ma il prezzo da pagare sarebbe altissimo: come si manterrebbe libera di rispondere in ultima istanza solo al vangelo, come potrebbe, in nome di questo, assumere posizioni coraggiose o proferire parole profetiche, anche se scomode per l’ordine regnante? Soprattutto, questo atteggiamento rischierebbe di svuotare la dimensione escatologica propria della chiesa, il rimando agli ultimi tempi, il relativizzare ogni realizzazione all’attesa del ritorno di Cristo e all’instaurazione della sua giustizia. Questo «relativismo cristiano» è fondamentale alla chiesa per non mondanizzarsi, per non divenire cappellania dei potenti del mondo, e per mantenersi nell’obbedienza al vangelo: i cristiani sanno che la loro cittadinanza è nei cieli, che sono in cammino verso la città futura, che non hanno quaggiú una dimora permanente. Questo fa sí che essi possano inoculare diastasi salutari nei dinamismi della vita sociale, attestando la relatività di ciò che può essere ritenuto assoluto, e affermando sempre il primato della relazione e della persona.
Di certo, nell’opera di edificazione della polis che li accomuna agli altri uomini, i cristiani non hanno certezze o ricette: il vangelo non fornisce formule magiche in base alle quali indicare la via che conduce infallibilmente alla realizzazione degli obiettivi di una polis. Nessuno sarà mai dispensato dal portare, a proprio rischio e pericolo, giudizi pratici sulle minacce incombenti, sulle situazioni da affrontare e da analizzare, sulle scelte da fare tra le possibilità offerte. Si situa qui la responsabilità storica di ogni credente e la sua obbedienza creativa al vangelo eterno: il cristiano può vivere la propria fede solo immergendosi nella storia e nella sua opacità, nelle sue contraddizioni, nelle sue problematiche, mai evadendo dalla storia che è l’ambito del manifestarsi della presenza di Dio.
Ma in questa immersione, la comunità cristiana è chiamata a vivere una differenza nella qualità delle relazioni, divenendo quella comunità alternativa che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco. È la «differenza» cristiana, una differenza che chiede oggi alle chiese di saper dare forma visibile e vivibile a comunità plasmate dal vangelo: in questa capacità di costruzione di una comunità, il cristianesimo mostra la propria eloquenza e il proprio vigore, e dà un contributo peculiare alla società civile in cerca di progetti e idee per l’edificazione di una città veramente a misura d’uomo. Né si può dimenticare che proprio con la capacità di originare forme di vita comunitaria, inventando strutture di governo ispirate a corresponsabilità, rapporti di autorità vissuti come servizio, il cristianesimo mostra la sua vitalità storica e svolge un’importante diaconia per la società civile.
Proprio la concezione della comunità come corpo può aiutare la chiesa a indicare agli uomini forme e modalità di comunicazione che siano umane, umanizzate e tendenti al rispetto dell’altro, del suo pensiero, della sua diversità. Se da un lato la politica abbisogna oggi di darsi spessore culturale, essa necessita anche di ricevere e darsi spessore morale ed etico. Il proprio della comunità cristiana nelle attuali contingenze, il suo compito profetico, consiste forse in un lavoro di profondità e di lungo periodo che getti le basi per una convivenza possibile e praticabile, che dia senso, che apra al futuro e che, suscitando attese e progettualità, renda vivibile l’oggi.
La differenza cristiana diviene cosí stimolo e fermento nella società perché ogni parola e gesto profetico hanno ricadute sulla compagine sociale. Tuttavia, se la parola della chiesa dimenticasse la propria qualità di eco della parola di Dio, se pretendesse di fornire indicazioni tecniche sul piano economico o di suggerire formule politiche, rischierebbe di introdurre germi di contrapposizione e divisione nella stessa comunità cristiana. Per questa presenza e questo annuncio profetico del vangelo occorrerà sempre una testimonianza ispirata a dolcezza e mitezza, ma capace di fermezza e di rigore.
Viviamo un tempo che può essere favorevole alla collaborazione tra chiesa e istituzioni politiche e sociali, viviamo in una società non piú confessionale e neppure laicista, né caratterizzata dalla bipolarità laici-cattolici: questo permette un’autentica collaborazione, senza asservimenti o abdicazioni. Sí, nell’opera di costruzione della polis il cristiano collabora con le legittime autorità, ma conserva la sua capacità di parresia, di franchezza, di denuncia dell’illegalità, dell’ingiustizia, dell’oppressione, nella consapevolezza che oggi occorre documentazione, competenza e acutezza di analisi per discernere i processi che sono all’origine di ingiustizie economiche, negazioni di diritti umani, ineluttabilità di guerre. Il cristiano, dunque, deve essere disposto a collaborare e a fornire il proprio contribuito positivo, ma deve assolutamente ricordare che la fede gli impone di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Negli infiniti casi in cui le scelte che si presentano sono quotidiane e di non immediata decifrazione, il cristiano è chiamato allora a operare in coscienza, in umiltà e cercando, assieme agli uomini e alle donne che vivono, sperano e soffrono accanto a lui, il bene comune o, almeno, il male minore.
La fede non si impone.
Ormai non passa giorno in cui qualche cattolico non riesca a esprimere in modo quasi ossessivo due proposizioni che per molti sono convinzione assodata: la prima vuole essere una diagnosi dell’attuale situazione del mondo come società secolarizzata che ha espulso Dio, che è indifferente alla fede cristiana; la seconda appare come una denuncia o una lamentela: i cristiani sono sempre piú estromessi dalla vita della polis, il cristianesimo è sotto il fuoco incrociato di accuse e di disprezzo, la chiesa cattolica subisce un attacco che mostra l’intolleranza di quanti non vogliono che essa sia in grado di parlare e intervenire pubblicamente. E cosí, giorno dopo giorno, si accende sempre di piú un conflitto tra credenti cristiani e «laici» o non religiosi.
Riguardo alla diagnosi sulla società attuale, è indubbio che i cristiani, scopertisi minoranza, abbiano trovato di fronte a sé uomini e donne non solo appartenenti ad altre religioni, ma anche non religiosi e perfino, come ospiti inattesi, numerosi «indifferenti»: si sono trovati cioè in una società plurale nelle fedi, nelle culture, nelle etiche. Una società che a molti cristiani appare estranea a Dio e alla religione, incapace di elaborare un’etica che non sia limitata alla dimensione libertaria e a una «tolleranza» che lascia solo spazio ai diritti individualistici dei cittadini. Quello che nel Medioevo era un esercizio ascetico, il disprezzo del mondo – de contemptu mundi –, oggi pare applicarsi non piú alla realtà «terrena» contrapposta a quella celeste, bensí a una società non piú cristiana. È vero che la società attuale e la sua cultura dominante, almeno in Europa, sono ormai lontane dal cristianesimo e che i valori ispirati dal vangelo e custoditi dai cristiani appaiono sempre piú estranei agli orizzonti della nostra società; è vero anche che il cristiano sa che c’è nel suo «essere nel mondo senza essere del mondo» una differenza, ma i cristiani dovrebbero chiedersi come mai, pur essendo piú di un miliardo (un cristiano ogni cinque abitanti del pianeta), la loro fede appare cosí poco eloquente e cosí poco seducente per gli uomini e le donne di oggi. Non è anche per un difetto di coerenza tra quello che i cristiani predicano e quello che vivono? Se c’è assenza di Dio nella vita sociale oggi, dovremmo chiederci quanto non dipenda anche dai cristiani e dalla loro incapacità a farsi comprendere e, in certi casi, dall’ambiguità della loro testimonianza: come ha riconosciuto a piú riprese anche Giovanni Paolo II, a volte è proprio la condotta dei cristiani a essere causa di abbandono della fede e di un conseguente ateismo. Davvero i cristiani sono immuni da colpe in tal senso, e tutta la responsabilità ricade sugli altri?
Quanto poi alla denuncia di un cristianesimo sul banco degli imputati o assediato, se non addirittura perseguitato, occorre essere onesti: è vero che in molti paesi europei esiste un nuovo anticristianesimo (è il titolo di un libro di René Remond), che il Trattato di ateologia di Michel Onfray non è tanto un’opera filosofica o di apologetica dell’ateismo, quanto un libro intollerante che alimenta odio verso i monoteismi e in particolare verso la chiesa cattolica, pur tuttavia quello che potremmo definire un pregiudizio laicista anticattolico, presente in paesi come la Francia e il Belgio, è assente in Italia.
Accanto a posizioni che si vogliono neopagane o politeiste, ci sono anche innegabili pretese di esclusione dei cristiani dalla vita pubblica. Il responsabile della Santa Sede per i rapporti con gli stati, monsignor Giovanni Lajolo, ha sottolineato con molta puntualità questa situazione, denunciando le violazioni alla libertà religiosa nel mondo e il tentativo di escludere i cristiani dalla costruzione dell’Europa, ma in Italia risulta stonato il coro di lamenti, che si leva da autorevoli frazioni di cristiani credenti e sovente dai cosiddetti «cristiani non credenti», sulla condizione dei cattolici, che sarebbero diventati oggetto di ostilità in quanto tali e bersaglio sistematico delle accuse laiciste. Queste denunce paiono non solo sproporzionate rispetto al dato reale, ma anche offensive verso quei cristiani che sono veramente osteggiati e perseguitati in altri paesi del mondo. Ogni indebito appello al vittimismo in realtà esonera dall’autocritica, rimuove la necessità della conversione e privilegia l’addebito di ogni problema alla società, agli altri, alla cultura non cristiana.
Del resto, non si dimentichi che anche qualora la chiesa fosse veramente osteggiata, questo farebbe parte delle beatitudini promesse da Gesú ai suoi discepoli: secondo il Nuovo Testamento è normale che la comunità dei credenti incontri ostilità, ma questo non fa che esaltare la sua libertà rispetto ai poteri dominanti e agli idoli religiosi che la seducono e la allontanano dal suo unico Signore. E, comunque, a un’aggressività ideologica non si risponde con un’aggressività simmetrica, fosse pure in nome di Dio.
Allora, anche la giusta rivendicazione da parte dei cristiani del loro diritto a stare nella compagnia degli uomini e nella società quali cittadini impegnati assieme agli altri nell’edificazione della polis, obbedendo alle ispirazioni e alle esigenze del vangelo, finisce per apparire pretesa ingiustificata e pericolosa e svuota la possibilità che la chiesa si faccia invece «presidio» a salvaguardia di un umanesimo oggi fortemente minacciato dalla barbarie. In verità i cristiani non possono rinchiudere e custodire Dio nel recinto delle opinioni private: devono poter esprimere pubblicamente la propria fede e l’etica che ne consegue, non cedendo all’ipocrisia di chi nasconde ciò che in lui è speranza di cui deve rendere conto. Sí, come ogni religione, il ...