Un tentativo di riconoscere e di comprendere la radice dell’antisemitismo
Esiste un’unica radice all’odio per gli ebrei definito a partire dalla fine del XIX secolo «antisemitismo»? Possiamo porci una domanda simile in relazione a un fenomeno cosí prolungato nel tempo, cosí vario nelle sue manifestazioni e dai motivi cosí disparati? Già in antichità si ritrovano testimonianze di questo odio mortale fra popoli di diverse culture e religioni (spesso anche antagoniste e rivali tra loro come il Cristianesimo e l’Islam) e piú recentemente lo si scopre diffuso in comunità a regime totalitario e non confessionale, quali la Germania nazista e i suoi alleati, e in società liberali e democratiche. Un odio rimasto immutato per migliaia di anni in un mondo in continua evoluzione dove anche gli ebrei, per molti versi, sono cambiati, subendo metamorfosi sociologiche, mutando stile di vita e professioni, luoghi di residenza, integrandosi nelle società in cui vivevano: ebrei osservanti e laici, nazionalisti e assimilati, affiliati in comunità o isolati.
È possibile ipotizzare un qualche legame tra il filosofo romano Seneca, vissuto nel I secolo d.C. che definí gli ebrei «tribú esecrabile» o lo storico Cornelio Tacito che li qualificò con l’appellativo di «detestabili» e il compositore antisemita Richard Wagner e lo scrittore francese Céline vissuti svariate centinaia di anni piú tardi? Al di là dell’enorme baratro di valori, dell’abissale divario culturale e sociale che li divideva, questi personaggi conoscevano infatti ebrei completamente diversi.
Comprendo e rispetto le riserve di alcuni storici verso il tentativo di riconoscere una radice comune all’odio per gli ebrei. Proprio chi approfondisce con scrupolo e rigore ogni evento, appartenente sia alla cronaca dei gentili che a quella degli ebrei, ne discerne le complessità e sottigliezze, indaga l’antisemitismo cristiano del Medio Evo o quello islamico dei tempi moderni, e analizza la complessa e intricata realtà tedesca da cui è germinato il nazismo, rifiuterà, e probabilmente a ragione, l’idea di una radice comune all’odio per gli ebrei in ogni tempo e luogo. La prudenza scientifica lo costringe a evitare simili generalizzazioni, piú nell’ordine di affermazioni mitologiche che scientifiche.
È vero, di tanto in tanto gli stessi storici si concedono enunciazioni «storiosofiche» generiche del tipo: «Odio eterno per il popolo eterno», ma queste rimangono in un ambito descrittivo e non analitico. È quindi forse naturale che chi, come me, non è tenuto a rispettare precise norme scientifiche e a limitare la sua ricerca a un determinato periodo storico, possa tentare di accendere una scintilla, nella speranza che qualche studioso la utilizzi per attizzare una fiamma.
Torniamo ora all’interrogativo da cui siamo partiti: esiste un’unica radice all’antisemitismo cosí come si è manifestato nei secoli? Naturalmente, anche se la risposta fosse positiva, non invaliderebbe tutte le spiegazioni e le analisi relative alla natura e al carattere di questo fenomeno in un dato tempo e in un dato luogo. Dopotutto, come si è detto, anche gli ebrei cambiano e pure gli antisemiti sono diversi gli uni dagli altri. Per non parlare poi del fatto che in determinate epoche e società questa piaga non si è diffusa.
Il mio tentativo di rispondere a questo interrogativo si basa su una concezione ebraica tradizionale che ha intuitivamente accettato l’ipotesi di una matrice unica dell’antisemitismo, per quanto non sia in grado di spiegarla. La frase di Rabbi Shimon bar Yochai: «È cosa nota che Esaú odii Giacobbe», è divenuta espressione popolare e diffusa, secondo la quale l’odio dei gentili nei confronti degli ebrei è una realtà permanente e immutabile. Non bisogna dimenticare che Esaú era gemello di Giacobbe e una frase di questo tipo implica un odio profondo e viscerale, indipendente da queste o da quelle circostanze. Anche il versetto che noi ebrei cantiamo con foga durante la tradizionale cena pasquale – «In ogni generazione è in agguato chi vuole sterminarci» (utilizzando il verbo al presente, e non al passato) suggerisce che l’odio nei nostri confronti mirato allo sterminio è stabile, e si trasmette di generazione in generazione in circostanze e in luoghi diversi. Persino il prosieguo del versetto – «e il Signore, santo e benedetto Egli sia, ci salva dalle loro mani», presuppone che anche la salvezza sia parziale e temporanea, incapace di estirpare definitivamente quel sentimento se Dio è costretto ogni volta a «salvarci». In altre parole, persino il credente piú fervido sa che Dio non ha il potere di cancellare l’odio nei nostri confronti ma solo di assicurarci una salvezza momentanea, che dura l’arco di una generazione.
Di conseguenza, nel corso dei secoli, molti ebrei hanno accettato questa realtà con rassegnazione, aspettando l’arrivo della tempesta antisemita cosí come i residenti della Florida aspettano l’arrivo di un ciclone o di un uragano. È vero, talvolta rimanevano sbalorditi dal suo impeto e dalla sua furia, ma non dal suo apparire. Chiunque quindi ritenga che gli ebrei ortodossi possano cambiare la loro visione del mondo o perdere la loro fede in Dio in seguito al genocidio di milioni di bambini ebrei durante la Shoah, non capisce come stanno veramente le cose. Solo gli ebrei assimiliati, la cui identità non è ben chiara e definita, rimangono sgomenti e sorpresi dalla violenza nei loro confronti al punto da rimanerne sconvolti e cadere in uno stato di disperazione ossessiva e di turbamento che li può persino condurre a togliersi la vita.
La mia ricerca di una radice unica dell’antisemitismo si rifà dunque a questa concezione ebraica che, benché non sia in grado di spiegare la natura del fenomeno, lo percepisce come elemento stabile del comportamento umano, senza cercare di imputarlo a motivi religiosi o nazionalisti, sociali o economici propri di questo o di quel periodo. Tale concezione presuppone, con rassegnazione tragica e fatale, che questo male sia esistito da sempre e che sia impossibile sradicarlo. In un certo senso l’antisemitismo è divenuto tragicamente un elemento centrale e naturale dell’identità ebraica tanto che quando non si manifesta, o ancor piú ci si imbatte in episodi di «filosemitismo», non pochi ebrei ritengono la situazione sospetta e innaturale. Talvolta un ebreo osservante della diaspora può riconoscere il giusto ordine delle cose nel ravvisare un elemento antisemita nella società che lo circonda, cosí come chi vive accanto a un vulcano attivo riconosce il giusto ordine delle cose nello scorgere ogni mattina un pinnacolo di fumo salire dal cratere in cima al monte.
In generale pare che nessun altro popolo si preoccupi tanto di chiarire e di definire la propria identità come quello ebraico. Basti considerare il gran numero di convegni che si tengono quotidianamente in ogni parte del mondo aventi per tema, esplicito o implicito, l’identità ebraica.
Cos’è un ebreo? Chi è ebreo? In che misura gli israeliani sono ebrei? La questione degli ebrei laici, umanisti, assimilati e cosí via è ossessivamente dibattuta in migliaia di articoli e di libri. C’è persino un che di ridicolo nel fatto che un popolo vecchio piú di tremila anni dibatta ancora con tanta foga e serietà la questione della propria identità, senza stancarsi di cercare spiegazioni e interpretazioni al mistero della sua sopravvivenza. Persino la definizione di «ebreo» nella «Legge del Ritorno» dello stato di Israele (legge che garantisce l’immediata cittadinanza a ogni ebreo che vi si stabilisca. N.d.T.), ha subito diversi cambiamenti in un arco di tempo molto breve.
Ecco per esempio due strane citazioni di Sigmud Freud riguardanti il «mistero» dell’identità ebraica. La prima è tratta da una lettera indirizzata all’organizzazione «Bnei Brit» di Vienna, la seconda dalla prefazione all’edizione ebraica del suo libro Totem e Tabú.
Cosí scrive Freud nella lettera all’organizzazione Bnei Brit:
«Devo ammettere che né la fede né un sentimento di orgoglio nazionale sono bastati a legarmi all’ebraismo […] Altri elementi gli hanno dato una forza d’attrazione a cui per me è impossibile resistere: forze occulte, sentimenti indefinibili a parole e proprio per questo tanto potenti; e anche la consapevolezza di possedere un’identità interiore, una struttura dell’anima comune a tutti gli ebrei».
E nella prefazione all’edizione ebraica del suo libro aggiunge:
«I lettori di questo libro non capiranno facilmente i sentimenti dell’autore che non conosce la lingua sacra, è totalmente estraneo alla religione dei suoi padri (cosí come a qualsiasi altra religione) e non ha avuto l’opportunità di condividere gli ideali nazionalisti del suo popolo. Eppure non ha mai negato la sua appartenenza ad esso […] Se qualcuno gli chiedesse: cosa c’è in te di ebraico? Lui risponderebbe: moltissimo, soprattutto il principio fondamentale, senza però’ riuscire a esprimere a parole cosa sia questo «principio fondamentale». Indubbiamente un giorno la ricerca scientifica lo chiarirà».
È questa l’unica volta in cui Freud chiede aiuto ad altri per capire se stesso. Ma anche gli altri rimangono perplessi e meravigliati dinanzi al fenomeno della sopravvivenza del popolo ebraico e al mantenimento della sua identità. Lo storico Yaakov Talmon, trasportato dai sentimenti, si esprime cosí circa la natura dell’identità ebraica: «Per quanto ci sforziamo di inchiodare questo concetto in una qualsiasi definizione, esso rimane elusivo come un miraggio. È impossibile indicare qualcosa di concreto e di calcolabile nel senso di appartenenza di un ebreo al suo popolo eppure una patina sottile di auto consapevolezza lo separa dal mondo. Lo storico non può quindi basarsi unicamente sulla logica… Il vaglio delle testimonianze, il talento del detective nello scoprire i...