Prodotto interno mafia
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Prodotto interno mafia

Così la criminalità organizzata è diventata il sistema Italia

  1. 200 pagine
  2. Italian
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Prodotto interno mafia

Così la criminalità organizzata è diventata il sistema Italia

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In Italia la criminalità fattura 140 miliardi di euro all'anno. Il sommerso vale il 15 per cento del Pil. La ricchezza del Paese è anche questa. La mafia è un fenomeno «glocal» che ha condizionato lo sviluppo del capitalismo italiano.
Ragioni storiche, culturali ed economiche hanno contribuito a fare dell'Italia il Paese delle mafie: il mancato sviluppo di una cultura imprenditoriale, la «famiglia» come base di tutte le relazioni sociali, la fragile democrazia, il silenzio della Chiesa.
Le radici dell'illegalità sono profonde ma nuove tecnologie e crisi economica stanno rivoluzionando gli schemi tradizionali della criminalità organizzata. Per l'Italia la sfida è enorme: la mafia continuerà a dominare il processo di globalizzazione o, al contrario, è proprio nei cambiamenti del mondo contemporaneo che si nasconde l'antidoto per sconfiggerla?
Un libro che descrive nel dettaglio i meccanismi, le connivenze, i danni e le convenienze di un Paese in cui si è sviluppata una forma di capitalismo unica al mondo.*** «Oggi si è ormai consolidato un connubio tra mafia, potere economico-finanziario e potere politico. Attraverso imprenditori e professionisti la mafia colloquia con le istituzioni». Pietro Grasso «Siamo l'unico Paese occidentale che ha quattro mafie. Anche se l'Italia ha la legislazione antimafia piú avanzata al mondo, non potrà mai essere proporzionata alla potenza delle organizzazioni criminali». Nicola Gratteri «La responsabilità del dominio della mafia è anche della borghesia meridionale, che ha sempre concepito l'imprenditoria come un'attività di rapina». Ivan Lo Bello «È difficile sentire odore di mafia, ci sono troppi insospettabili, troppi colletti bianchi coinvolti. Il mio rimprovero alla Chiesa è di essere arrivata tardi nella comprensione del fenomeno mafioso». Domenico Mogavero «Oggi il crimine è globale. La perdita di efficacia delle democrazie è un problema enorme che si intensificherà nei prossimi anni attraverso insicurezza e corruzione». Moisés Naím

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
ISBN
9788858405161
Pietro Grasso
Un modello italiano
C’è un oggetto a cui Pietro Grasso è molto legato: un accendino d’argento Dunhill, donato da Giovanni Falcone durante un viaggio aereo Roma-Palermo nella primavera del ’92. Erano seduti, uno accanto all’altro, e il magistrato che pochi anni dopo sarebbe stato ucciso dalla mafia consegnò l’accendino all’amico dicendo: «Da questo momento smetto di fumare. Tienilo tu e se decido di riprendere, me lo restituisci». Grasso era consulente presso il ministero di Grazia e Giustizia di Roma, chiamato dal ministro Claudio Martelli per ricostruire l’apparato legislativo contro quei mafiosi che avevano dichiarato guerra al paese e ai suoi rappresentanti. Consigliere e amico di quei giorni difficili era il giudice Falcone.
Il procuratore nazionale antimafia conserva l’accendino nella speranza, un giorno, di poterlo restituire: «So che è impossibile ma è un pensiero che mi aiuta a lavorare». Durante il nostro lungo incontro – avvenuto in un’afosa mattinata di luglio mentre, a Palermo, i carabinieri del reparto operativo mettevano le manette a 37 uomini legati all’«astro nascente di Cosa nostra» Gianni Nicchi – i pensieri di Grasso vanno spesso all’amico scomparso.
Sulla sua scrivania c’è una foto di Falcone tra le insegne dei Chigi e gli affreschi del Seicento.
Il palazzo di via Giulia a Roma, sede della Direzione nazionale antimafia, è come una seconda casa per Grasso: quando nacque la Dna, nel gennaio del 1992, proprio a lui fu affidato l’incarico di identificare il luogo che avrebbe ospitato la nuova struttura della Capitale.
Il procuratore, allora impegnato presso la Procura nazionale guidata da Pier Luigi Vigna, scelse l’edificio delle «Carceri Nuove» di via Giulia, volute da papa Innocenzo X e realizzate dall’architetto Antonio del Grande tra il 1652 e il 1655. L’ex carcere «papalino», oltre a poliziotti e tecnici che combattono la criminalità, ospita oggi numerose leggende. Una riguarda i sotterranei dell’edificio, dove ci sarebbero (Grasso non ha verificato di persona) stanze segrete che conducono al Tevere e che venivano utilizzate per trasportare i condannati destinati alle acque del fiume.
Come se le «segrete» non bastassero, il procuratore narra che, tra le stanze del palazzo, di notte si aggira il fantasma della moglie di un carcerato. Naturalmente non l’ha mai visto, sorride e allarga le braccia: è abituato alle storie assurde.
Pietro Grasso è stato pretore a Barrafranca, in provincia di Enna, titolare dell’inchiesta sull’omicidio del presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella, assassinato da Cosa nostra il 6 gennaio 1980, giudice a latere nel primo maxiprocesso a Cosa nostra del 1986, consigliere alla Direzione degli affari penali, coordinatore delle inchieste sulle stragi di mafia del biennio ’92-’93, e procuratore a Palermo.
Come tutti gli uomini che si trovano a svolgere un ruolo istituzionale sul delicato confine tra verità e legge, Grasso ha dovuto affrontare sospetti, critiche e menzogne. I suoi nemici lo accusano di usare il metodo della «carota e del bastone» con i potenti. E in tanti non gli perdonano ancora la nomina alla Procura nazionale antimafia al posto del giudice Giancarlo Caselli, che fu escluso «per superati limiti di età» a causa di una norma subentrata all’ultimo momento e conosciuta come «emendamento Bobbio»1. Grasso lo sostituí ricevendo anche i voti della maggioranza di centrodestra.
Che l’argomento sia Caselli, il «pizzino» di Bernardo Provenzano destinato a Berlusconi non registrato dalla «sua» procura palermitana, le intercettazioni di Ciancimino mai trascritte, Grasso ripete come un mantra un’unica frase: – L’importante è andare avanti con la barra dritta verso la meta –. Il suo obiettivo dichiarato è portare a compimento l’idea di «Superprocura» sognata con Giovanni Falcone venti anni fa per lasciare al prossimo procuratore nazionale antimafia una «cassetta degli attrezzi» contro la criminalità organizzata.
Il procuratore sa che, tra i contrasti con una politica invadente e quelli con la magistratura ordinaria che non vede di buon occhio le «Superprocure», la strada per riuscirci è ancora lunga.
Grasso ha conosciuto i vari volti delle mafie: quello della prepotenza nei campi e nei cantieri edili, quello feroce della stagione corleonese e quello silente di oggi. Non nasconde la rabbia ricordando colleghi e giornalisti che, agli inizi del nuovo millennio, credevano che la mafia fosse scomparsa solo perché non faceva rumore. – Quando tutto sembra tranquillo, – afferma, – l’organizzazione è ancora piú pericolosa perché vuol dire che sono tutti d’accordo.
Mafia come metafora del potere: è un’immagine su cui Grasso tornerà piú volte nel corso dell’intervista cercando di spiegare che i rami della criminalità organizzata non vanno cercati solo nella violenza e nel sangue ma anche nel compromesso, nei consigli d’amministrazione delle aziende, nelle stanze di Palazzo. – Mafia significa eclissi di legalità, – argomenta, – rende i cittadini meno liberi e li costringe a rinunciare a una vita democratica.
Il procuratore stila l’elenco degli assassinati dalla mafia degli ultimi trent’anni. Li ricorda tutti e – mentre pronuncia i loro nomi uno a uno – la lotta alla criminalità organizzata appare quello che è: sempre e solo un lavoro di squadra.
1 Nel 2005, in vista della nomina del nuovo procuratore antimafia, il senatore di Alleanza nazionale Luigi Bobbio presentò un emendamento alla legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario. L’emendamento prevede l’esclusione dagli incarichi di vertice dei magistrati che hanno compiuto piú di 66 anni in modo tale che il capo di un ufficio giudiziario possa assicurare quattro anni di permanenza prima della pensione.
Dal 2005, anno in cui è stato nominato procuratore nazionale antimafia, numerosi eventi hanno condizionato lo sviluppo delle organizzazioni criminali: dagli arresti dei boss Bernardo Provenzano nell’aprile 2006 e Salvatore Lo Piccolo nel novembre dell’anno successivo alla ’ndrangheta regina del Nord Italia fino alla crisi economico-finanziaria. In che modo è cambiata l’azione di contrasto alla mafia?
Quando sono arrivato alla Procura nazionale antimafia ho trovato un ufficio ormai internazionalizzato, estremamente proiettato verso il mondo. La prima cosa che ho fatto è stata riportare il focus sul territorio nazionale rafforzando innanzitutto il collegamento investigativo tra le varie sedi delle procure distrettuali antimafia. Inoltre, grazie anche alla collaborazione dei ministri della Giustizia e dell’Interno, ho lavorato fin dall’inizio all’elaborazione di nuove norme dirette ad aggredire i patrimoni dei mafiosi attraverso il sequestro e la confisca.
Fino al 2008 la misura patrimoniale del sequestro e della conseguente confisca era collegata alla misura personale di prevenzione della sorveglianza speciale di Pubblica sicurezza. Se il proposto per l’applicazione della misura dimostrava, con il suo comportamento, di non essere piú pericoloso per la società, venendo a mancare la cosiddetta «attualità» della pericolosità sociale, i beni sequestrati gli venivano restituiti. Con le norme attualmente in vigore, invece, è possibile aggredire il patrimonio del sospettato di «mafiosità» valutandone la pericolosità al momento della proposizione della misura. Inoltre, una volta sequestrati o confiscati, i beni non potranno piú essere restituiti agli eredi ed è addirittura possibile sottoporre a confisca i beni di un criminale deceduto, iniziando la procedura nei confronti degli eredi.
Un altro passaggio importante è stato consentire alle direzioni distrettuali antimafia di proporre l’applicazione delle misure di prevenzione sia personali sia patrimoniali. Tutti gli elementi che emergono nel corso delle indagini contro la persona, possono oggi essere utilizzati dagli stessi magistrati distrettuali per l’applicazione delle misure patrimoniali. Prima della riforma la competenza era esclusivamente delle procure ordinarie.
È sorprendente che le norme e i provvedimenti piú efficaci per il contrasto alla criminalità organizzata siano arrivati nella legislazione italiana solo recentemente.
Questi provvedimenti sono nella mia testa da quando lavoravo con il giudice Giovanni Falcone al ministero della Giustizia. Cominciammo nel 1991 a «ristrutturare» la legislazione antimafia attraverso la creazione delle Direzioni distrettuali antimafia e della Procura nazionale antimafia. Il progetto fu accolto male da molti magistrati che vedevano nella «Superprocura» una possibile arma nelle mani dell’esecutivo: sessanta giudici scrissero una lettera contro Falcone per impedirne l’attuazione. Riuscimmo nell’impresa grazie alla determinazione del ministro della Giustizia Claudio Martelli che fece passare la norma con un decreto legge e con il voto di fiducia.
Quando la legge era già in aula per essere votata, io e Falcone ci rendemmo conto che tra le competenze delle direzioni distrettuali antimafia non erano state inserite le misure di prevenzione2. Allora ci precipitammo da Martelli per chiedere un emendamento, ma il ministro respinse la nostra richiesta dicendo: «Se inseriamo anche un solo emendamento ne arriveranno migliaia e finiranno con il bloccare tutto.» E concluse con aria risoluta: «Approviamola e tra un anno facciamo una legge di modifica per integrarla». La legge fu approvata. Erano i primi mesi del 1991, sembrava l’inizio di una nuova fase per la lotta alla mafia. E invece Martelli lasciò il ministero, arrivarono le stragi, gli omicidi di Falcone e Borsellino, Tangentopoli. Abbiamo avuto bisogno di dieci anni per poter riprendere in mano il progetto.
Il mio obiettivo è realizzare entro la fine del mandato, che scade nel 2013, il progetto di Giovanni Falcone: dare alla Procura nazionale antimafia un ruolo piú incisivo ed efficace sotto il profilo della politica giudiziaria rispetto a quello attuale di impulso e coordinamento.
Nel nostro paese la criminalità organizzata è un fenomeno secolare, eppure l’Italia mette nero su bianco la parola mafia per la prima volta soltanto nel 1982, quando viene approvata la legge Rognoni-La Torre. Perché è stato necessario attendere cosí a lungo?
Tra gli anni Settanta e Ottanta ho lavorato come sostituto procuratore a Palermo. Alla fine del mio mandato, durato dodici anni, ancora non sapevo che cosa fosse la mafia. Qualcuno diceva che era un fenomeno gangsteristico, altri che si trattava di bande criminali. Per alcuni era addirittura un fenomeno romanzesco o da attribuire semplicemente alla natura dei siciliani.
La svolta arriva nel 1984 con le rivelazioni del primo pentito dell’organizzazione, Tommaso Buscetta3, che in una sola frase demolisce anni di ricerche etimologiche: «La parola mafia è una creazione letteraria, – dice “don Masino” a Giovanni Falcone, – l’organizzazione si chiama Cosa nostra». Da quel momento Buscetta comincia a svelare tutti i segreti dell’organizzazione, le profonde relazioni con politica, economia, finanza e mondo delle professioni.
Falcone diceva sempre: «Solo se riusciremo a ridurre Cosa nostra a un fatto puramente criminale, la potremo sconfiggere». Grazie alle informazioni del pentito, Falcone riuscí a ricostruire un quadro dell’organizzazione e delle sue ramificazioni. Cosí potemmo elaborare una strategia di contrasto: se il fenomeno non era, come molti pensavano, esclusivamente «militare», non riguardava solo violenza, rapine, estorsioni, ma una rete di relazioni, allora bisognava concentrarsi proprio su quelle relazioni, indagare sui rapporti tra mafia e imprenditoria, professionisti, burocrazia e politica.
Di quali strumenti investigativi disponevate negli anni Ottanta?
Buscetta comincia a collaborare nel 1984 e la prima legge sui collaboratori di giustizia è del gennaio 1991. Per sette anni i pentiti sono stati gestiti senza una norma che ne stabilisse diritti e doveri. Tuttavia quel periodo rappresenta la grande svolta per la lotta alla mafia: le dichiarazioni di Buscetta aprono la strada alla prolifica stagione del pentitismo. Dopo don Masino, arrivano Totuccio Contorno, Marino Mannoia, Antonino Calderone che dànno riscontro dei fatti rivelati da Buscetta.
Uno strumento indispensabile fu la legge Rognoni-La Torre che, tra le altre cose, istituí l’associazione per delinquere di stampo mafioso e le misure di prevenzione antimafia. Finalmente l’organizzazione poteva essere colpita anche in assenza di delitto, per il fatto stesso di «essere mafia».
Falcone cominciò a fare indagini nelle banche, cercando gli assegni versati o incassati da mafiosi e trovando in questo modo riscontri ai rapporti tra criminali. Se Buscetta dichiarava che due persone appartenevano alla stessa famiglia mafiosa, Falcone andava a cercare la traccia bancaria che provasse quel rapporto. A quei tempi le indagini bancarie davano facilmente risultati positivi: oggi nessun mafioso sottoscrive assegni con il proprio nome.
L’organizzazione ha saputo evolversi in maniera molto rapida, intercettando, prima degli inquirenti e di tanti osservatori autorevoli, i cambiamenti dell’economia e della società.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Italia aveva un’economia prevalentemente agricola. Regnava una mafia del latifondo che si affermò all’interno di una lotta di classe: tra i contadini che volevano conquistare la terra, i sindacalisti che li sostenevano – pensiamo ai primi martiri come Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale – e gli usurpatori, i grandi proprietari terrieri e i mafiosi che ne proteggevano gli interessi per poi appropriarsi di fatto dei feudi.
Con l’urbanizzazione la mafia si spostò nelle città dove mise le mani sull’edilizia e successivamente entrò nel sistema della vendita al dettaglio prendendo il controllo dei mercati ortofrutticoli, del pesce e della carne. Dopo il boom della mafia degli appalti, nella seconda metà degli anni Settanta, sfruttando il canale già attivo del contrabbando internazionale e la presenza di siciliani legati a Cosa nostra nel Nord America, l’organizzazione entrò nel business della droga. La Sicilia arrivò in poco tempo a conquistare l’esclusiva dell’esportazione di eroina verso gli Stati Uniti: la sostanza veniva approvvigionata dal Triangolo d’oro, un’area montuosa tra Birmania, Laos e Thailandia, e raffinata a Palermo in laboratori clandestini dove lavoravano esperti chimici francesi, reclutati grazie ai collegamenti con la criminalità marsigliese.
È stato il traffico di droga il volano per l’internazionalizzazione delle mafie? E questo ha rappresentato un vantaggio per le organizzazioni, una sorta di prova generale, quando è arrivata la globalizzazione?
L’internazionalizzazione delle mafie procede parallelamente alle migrazioni. Nel Novecento milioni di italiani sono emigrati negli Stati Uniti, in America Latina, Canada, Australia, esportando usi e tradizioni del nostro paese, mafia compresa. Un fenomeno che continua nel xxi secolo con la ’ndrangheta che clona i «locali» calabresi all’estero e la mafia che ha le sue basi in Venezuela, Brasile e Stati Uniti. In questo panorama si innesta il traffico di stupefacenti che aumenta di molto le potenzialità economiche dell’organizzazione. Con il traffico di cocaina – che dalla metà degli anni Ottanta si sostituisce a quello di eroina – arrivano i grandi soldi che da un lato rendono piú forti i singoli mafiosi, ma dall’altro rappresentano un elemento disgregante per Cosa nostra.
In che senso?
L’organizzazione aveva la sua forza nella «compartimentazione». Cosa nostra nasce come un organismo formato da un insieme di cellule rappresentate dalle diverse famiglie. La comunicazione avveniva in maniera del tutto verticistica tra i capifamiglia o tra i capimandamento4, cosí da spezzare la circolarità delle informazioni e da parcellizzare le decisioni. I traffici di stupefacenti, molto difficili da gestire, fanno sí che la comunicazione si estenda a tutti i membri delle famiglie. L’antica compartimentazione viene sostituita da strutture miste piú allargate e muta le alleanze all’interno dell’organizzazione. È lo stesso Buscetta a dichiarare che la sopraggiunta trasversalità dei rapporti tra i mafiosi custodiva i germi che avrebbero distrutto Cosa nostra. I primi collaboratori di giustizia riuscirono, infatti, a fornire agli inquirenti l’organigramma dell’organizzazione, infliggendole un duro colpo.
Per evitare il rischio della dispersione, negli anni Settanta fu formato un nuovo organismo verticistico, la «Commissione» provinciale5, composta dai boss capimandamento delle famiglie mafiose siciliane, con il compito di stabilire regole e sanzioni, dare direttive strategiche, deliberare gli omicidi «eccellenti». All’inizio degli anni Settanta dopo lo scioglimento di Cosa nostra, successivo alla strage di Ciaculli e alla conseguente repressione, l’organizzazione si diede un vertice temporaneo attraverso un triumvirato composto da Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi, Stefano Bontade, capo della famiglia di Santa Maria di Gesú, e Luciano Liggio, boss di Corleone, rappresentato a Palermo da Salvatore Riina. Ma nel 1978 la Commissione, frattanto ricostituitasi con a capo Gaetano Badalamenti, che viene «posato» (espulso) e sostituito da Michele Greco il «Papa», passa sotto il controllo dei «corleonesi» Riina e Provenzano, che si rafforzano sempre di piú.
Che effetti ebbe sull’organizzazione la gestione dei corleonesi?
Cosa nostra, sotto la direzione di Bontade e Badalamenti, era abituata a colloquiare con lo Stato. I corleonesi, dopo una sistematica eliminazione di tutti gli avversari, inaugurarono l’attacco frontale alle istituzioni, la guerra, il dominio della Sicilia e il monopolio dei traffici criminali. Solo negli anni 1981-82 nella provincia di Palermo ci furono piú di mille morti tra gli stessi mafiosi per mano dei corleonesi. Una strategia folle che negli anni Ottanta determinò una prima reazione da parte dello Stato: la legge Rognoni-La Torre del 1982, il maxiprocesso del 19866, la legge sui collaboratori di giustizia del 1991.
Se penso a quanti «giusti» sono morti in quegli anni solo perché facevano il loro dovere. Ricordo il giornalista Mario Francese, il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova che aveva condannato all’ergastolo Luciano Liggio, il giudice Rocco Chinnici, consigliere istruttore al Tribunale di Palermo, il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa, il capo del Partito comunista siciliano Pio La Torre, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa; ancora, il presidente della Corte d’appello di Palermo Antonino Sa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione di Serena Danna
  5. Prodotto interno - mafia
  6. Pietro Grasso - Un modello italiano
  7. Nicola Gratteri - Scuola ’ndrangheta
  8. Ivan Lo Bello - Mafia e mercato
  9. Domenico Mogavero - Il silenzio della Chiesa
  10. Moisés Naím - La fine dell’anonimato