Cecenia, anno III
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Cecenia, anno III

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«La Cecenia è come il 1937, il 1938, - mi dichiara nel suo piccolo ufficio moscovita un dirigente di Memorial -. Si sta portando a termine un grande piano edilizio, si assegnano alloggi, ci sono parchi dove giocano i bambini, spettacoli, concerti, tutto sembra normale e... di notte la gente scompare». Una mattina di settembre, poco dopo aver concluso la prima stesura di questo libro, Jonathan Littell riceve una mail: Natal'ja Estemirova, una delle principali attiviste per i diritti umani a Groznyi, è stata sequestrata.
La Estemirova è nota in tutto il mondo per le sue inchieste sui casi di sparizioni, torture ed esecuzioni extragiudiziarie che ogni giorno contribuiscono a mantenere la Cecenia in un clima di costante terrore. La sua visibilità, così si credeva, l'avrebbe tenuta al sicuro: la stessa cosa si diceva anche della sua amica Anna Politkovskaja. La sera di quello stesso giorno il cadavere di Natal'ja viene rinvenuto in un bosco alla frontiera con l'Inguscezia, crivellato di colpi.
La notizia getta una nuova luce sulle due settimane trascorse nel Caucaso da Littell, costringendolo di fatto a riscrivere il reportage del suo soggiorno alla corte del presidente Ramzan Kadyrov nell'anno terzo del suo governo.
Littell è già stato in Cecenia, durante le due guerre, in missione per alcune organizzazioni umanitarie e ha sempre mantenuto stretti contatti con il paese: ricorda bene, pertanto, i giorni in cui la vita di un ceceno non valeva un copeco. Così, se all'inizio pensava di porre l'accento sul ritorno, difficile ma percepibile, alla normalità, l'assassinio della Estemirova lo mette di fronte all'illusorietà di tale pacificazione.
La «cecenizzazione», cioè la decisione presa da Vladimir Putin nel 2002 di insediare nel paese un forte potere filorusso, composto principalmente da ex separatisti, nell'indagine di Littell si svela essere il nome presentabile di un sistema che ha fatto della corruzione più sfrenata, dell'islamizzazione a oltranza, della cooptazione forzata dei ribelli, della tortura e dell'omicidio, gli strumenti quotidiani per il controllo del territorio.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858404065
Den’ stroitelej
Poiché, come tutti sanno, Ramzan Kadyrov, giovane presidente della Cecenia, è «il piú grande costruttore del mondo», è una fortunata coincidenza che il visitatore straniero arrivi a Groznyj un 27 aprile, alla vigilia del Den stroitelej, la «Giornata dei costruttori», cosí denominata per festeggiare il quinto anniversario del ministero dell’Edilizia. Quel giorno Tamir, giovane addetto stampa ceceno incaricato di assistere me e il fotografo Thomas Dworzak, ci aveva dato appuntamento nel teatro della città; in piedi accanto a lui, nell’atrio principale, davanti a un enorme e rutilante pianoforte a coda affiancato dai ritratti di Kadyrov padre e figlio, ho osservato la nomenclatura cecena fare il suo ingresso, e oltrepassare in fila indiana i metal detector piantonati da un cordone di forze speciali degli omon. I capi amministrativi dei distretti portano grossi Rolex d’oro molto vistosi e anelli con brillanti; i ministri indossano camicie rosa o viola pallido con cravatte assortite, completi di seta color panna, e scarpe appuntite di coccodrillo. Molti sfoggiano spillette con l’effigie di Ramzan, oppure l’ordine di Kadyrov, una medaglia d’oro con inciso il busto del suo defunto padre, Achmad-Chadži, appesa a una bandiera russa che, da vicino, si rivela composta da file di diamanti colorati. Molti portano anche il pes, una calotta di velluto con un fiocchetto appeso a un cordoncino. Chiedete a chiunque, in Cecenia: vi dirà che è il copricapo nazionale; a quanto pare, pochi ricordano che non molto tempo fa lo portavano soltanto gli anziani del wird sufico dei Kunta-Chadži, la confraternita a cui appartengono i Kadyrov; ora lo portano quasi tutti, a qualunque wird o tariqat appartengano, persino alcuni ingusci. Tamir mi presenta a suo zio, Olguzur Abdulkerimov, ministro dell’Industria; Duk-Vacha Abdurachmenov, presidente del Parlamento ceceno, fa un ingresso a effetto, aggirando ostentatamente il metal detector, senza rallentare il passo, per raggiungere Achmad Gechaev, ministro dell’Edilizia, di cui si celebra la giornata; poco lontano, in uniforme nato con berretto nero e pistola alla cintola, c’è Šarip Demil’chanov, fratello di Adam Demil’chanov di cui parleremo in seguito, che comanda la Neft Polk, un battaglione addetto alla sicurezza degli impianti petroliferi; l’uomo con cui sta parlando, Magomed Kadyrov, fratello del defunto Achmad-Chadži, è uno dei pochi che non indossa né un completo né un’uniforme, ma una semplice giacca e jeans leggeri, di ottima qualità, probabilmente costosi e italiani. Questa semiotica ostentatoria del potere ceceno potrebbe far sorridere, ma non è priva di interesse. I codici sono molto precisi: in un mondo dove ciascuno cerca di mostrare, con ogni mezzo, il proprio posto nell’ordine delle cose, a quanto pare piú si sta in alto e piú ci si può permettere la disinvoltura, meno si è costretti a esibirsi. Persino la guardia del corpo addetta alla sicurezza si adegua: i suoi sottoposti dell’sbp, il servizio di sicurezza presidenziale, indossano tutti un’uniforme nera attillata e nuova di zecca, talvolta completata da una maglietta con la scritta ANTITERROR, in lettere cirilliche bianche, o da un berretto, anch’esso nero, con il logo TSENTOROJ, il villaggio natale di Ramzan; lui, invece, se ne va in giro in jeans, con una pistola infilata nella cintola e, al polso, un orologio d’oro con la bandiera cecena sul quadrante. Colpisce la gestualità di questi uomini: è la stessa dei ribelli ceceni di un tempo; anche quel loro modo di salutarsi, abbracciarsi, ridere, parlare, passare dall’uno all’altro, in un balletto elaborato ma ostentatamente informale, ha un significato: dice che sebbene siano al servizio di un governo filorusso, sebbene siano di fatto dei burocrati russi, qui non siamo in Russia, e loro non sono russi, ma ceceni.
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La cerimonia stessa trasporta direttamente lo spettatore dalla semiotica cecena a quella sovietica, in una versione postmoderna rivisitata, che a volte sfiora il surrealismo spontaneo. La grande sala è affollata di «volontari» reclutati nei vari ministeri e nelle università; per ingannare l’attesa, gli organizzatori hanno fatto venire da Mosca una girls’ band, un gruppo musicale composto da ragazze che, oltre alla minigonna, per l’occasione sfoggiano un foulard, e suonano una sorta di fusion classico-pop con violini e un violoncello iperamplificati. All’ingresso di Kadyrov, circondato da un compatto drappello di guardie del corpo e clientes, la folla intera si precipita ai suoi piedi per applaudirlo, mentre il presentatore tuona solennemente dal microfono: «Il Presidente della Repubblica cecena, Eroe della Russia, Ramzan Achmadovič Kadyrov!» Quando l’Eroe della Russia prende posto, lo spettacolo può cominciare: anzitutto, un montaggio video illustra i successi del ministero dell’Edilizia, creato grazie a «una delle ultimissime ordinanze firmate da Achmad-Chadži Kadyrov»; segue un interminabile discorso letto al galoppo da Gechaev, che ripete l’elenco di quei successi nello stile del rapporto burocratico. Il discorso si conclude bruscamente; cambiando di colpo atteggiamento, Gechaev, con un sorriso idiota, aggiunge in tono imbarazzato e al tempo stesso servile: «Forse vi domanderete perché ho letto cosí in fretta. Ma poco fa ho incontrato Ramzan Achmadovič, che mi ha chiesto: “Achmad, è lungo il tuo discorso?”, e quando ho risposto di sí, ha detto: “Allora leggilo in fretta”». Infine, Ramzan Achmadovič in persona, «il piú grande costruttore del mondo», come ci ricorda ancora una volta il presentatore, balza sul palcoscenico e afferra il microfono senza fili. Mentre Gechaev e gli altri partecipanti si esprimevano in russo, Kadyrov parla in ceceno, con una voce profonda e rauca, sottolineata da una gestualità espressiva, suscitando risa e applausi con le sue battute, mentre in altri momenti proclama brutalmente i fondamenti della sua filosofia: «Se il capo è bravo, allora sono bravi tutti, i colleghi, i subalterni». Non sono in grado di valutare il suo linguaggio; a quanto mi hanno riferito, lo scrittore ceceno German Sadulaev lo definisce estremamente letterario e articolato, ma altri lo ritengono invece limitato quasi quanto il suo russo che, per citare un amico, è «non solo povero, ma zeppo di grossolani errori di genere e di declinazione», come posso confermare personalmente. In ogni caso, s’intuisce che si sente pienamente a suo agio in quella grottesca messa rituale: è un autentico animale da palcoscenico, adora le masse; alla televisione, dove si vede solo lui, lo mostrano spesso mentre si ferma in un villaggio, in una scuola o in un ospedale per un bagno di folla e per dispensare consigli, ingiunzioni e banconote: è come se traesse la sua leggendaria energia direttamente dall’amore (sapientemente orchestrato) dei sudditi. Al discorso segue un’interminabile consegna di medaglie, che comincia con Gechaev e i suoi diretti sottoposti e prosegue con numerosi altri: agli uomini spetta una stretta di mano e alle donne un mazzo di fiori, le cui dimensioni calano a vista d’occhio man mano che si discende la scala gerarchica. In conclusione viene servita al pubblico una delegazione di artisti moscoviti, importati insieme al gruppo musicale, che sciorinano luoghi comuni messi a punto durante i lunghi anni brezneviani e decorano Kadyrov con medaglie una piú ignota dell’altra; una lunga poesia sul ministero dell’Edilizia declamata in russo dal suo autore ceceno, un certo Umar Jaričev (ricordo vagamente un verso del tipo: «nel suo ufficio Achmad-Chadži, meditando sulla ricostruzione, nomina Gechaev»); e per finire, un’ode sicofantica, pronunciata da Duk-Vacha Abdurachmenov, all’«uomo che è sempre stato accanto alla famiglia Kadyrov e al popolo ceceno, Vladimir Vladimirovič Putin». «Gloria a Putin!» scandisce, in un uragano di applausi. Seduto al centro della folla, mentre la sua immagine campeggia sul grande schermo in fondo al palcoscenico, Ramzan ridacchia, applaude, scherza con i suoi sgherri, e maneggia il cellulare. Back in the URSS…
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1937
«La Cecenia è come il 1937, il 1938, – mi dichiara nel suo piccolo ufficio moscovita Aleksandr Čerkasov, un dirigente di Memorial, la maggiore organizzazione russa per i diritti umani –. Si sta portando a termine un grande piano edilizio, si assegnano alloggi, ci sono parchi dove giocano i bambini, spettacoli, concerti, tutto sembra normale e… di notte la gente scompare». È un paragone che ricorre spesso tra i difensori russi dei diritti umani e, come mi fa notare Čerkasov, non è poi cosí forzato: in Cecenia, da dieci anni a questa parte, il numero di persone uccise o scomparse ogni diecimila abitanti sarebbe, secondo lui, proporzionalmente superiore a quello delle vittime delle grandi purghe staliniane. Ma ciò che quel paragone cerca soprattutto di tradurre è l’illusione di una normalità, per tutti coloro che non sono vittime del terrore. Ho passato due settimane in Cecenia, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 2009, e se avessi pubblicato subito questo reportage, avrei effettivamente posto l’accento sulla normalizzazione, su una Cecenia che, nonostante alcuni grossi problemi, nel complesso sta meglio di prima. La ricostruzione è massiccia e reale; quanto al terrore, nessuno dei miei amici, nessun esponente delle varie ong, a parte quelli di Memorial, che lavorano direttamente sui casi di sparizione, di tortura e di esecuzioni extragiudiziali, sembrava preoccuparsene troppo: sapevano vagamente che continuava un po’, sulle montagne, ma non conoscevano nessuno che ne fosse direttamente vittima, erano molto piú preoccupati della corruzione, impressionante. E parlare di normalizzazione sarebbe stato «esatto», per certi versi, poiché qui non è una questione di fatti, ma di prospettiva, di punto di vista. Ho lavorato in Cecenia durante le due guerre, dapprima nel 1996 e poi per una quindicina di mesi dopo l’inizio della seconda guerra, nell’autunno del 1999, e ho sempre mantenuto stretti contatti con il paese: perciò ricordo benissimo, proprio come i ceceni, gli anni in cui la vita di un ceceno non valeva un copeco; quando un uomo poteva scomparire, torturato e poi ucciso, perché a un posto di blocco aveva incrociato lo sguardo di un soldato ubriaco; quando le ragazze violentate venivano uccise come si getta via un oggetto rotto; quando si rinvenivano i cadaveri di giovani incappati nelle grandi začistki, le operazioni di «pulizia» delle truppe della Federazione, legati saldamente con il filo spinato e bruciati vivi; quando le famiglie, in preda al panico, si affannavano disperatamente a mettere insieme poche migliaia di dollari per riscattare i loro uomini arrestati, prima che fosse troppo tardi, e se era troppo tardi dovevano comunque spendere quei soldi per riscattarne i cadaveri mutilati; quando i bambini crescevano quasi senza istruzione in luridi campi, sempre che non rimanessero uccisi o mutilati da una bomba, da una mina, da un cecchino annoiato; quando le šachidki, le «vedove nere» che si suicidavano con l’esplosivo portando con sé qualche russo, lo facevano non per convinzione religiosa ma per pura disperazione, perché non rimaneva loro nemmeno un uomo, uno solo, e neppure un figlio. Per la maggior parte dei ceceni, che non ha dimenticato niente di tutto ciò, è evidente che le cose vanno «meglio». E molti, anche quelli che nutrono ancora forti simpatie indipendentiste, che odiano i russi e considerano traditori i Kadyrov, in nome di quel «meglio» sono disposti a concedere loro un certo credito. Un amico ceceno, che chiamerò Vacha, il quale non ha mai combattuto ma ha sempre sostenuto l’Ičkerija indipendente e il suo primo presidente, Džochar Dudaev, me lo ha detto molto chiaramente, un giorno, in una saletta privata di una trattoria di Groznyj, davanti a un tè e a un grosso vassoio di manti, una sorta di ravioli ceceni: «Il padre [Kadyrov] era un vero uomo. Quando la Cecenia stava con le spalle al muro, ha indicato la via d’uscita. Prima di lui, ogni volta che arrivavi a un posto di blocco, sentivi di poter essere ucciso, per niente. Ha dato alla gente la sensazione che è finita, che non si può piú uccidere di continuo». Ovviamente, il figlio è ben felice di capitalizzare questa percezione, di vantarsi di aver dato la pace e la sicurezza alla Cecenia, di aver rinchiuso le truppe della Federazione nelle loro basi, di aver assunto il controllo delle loro stanze della tortura come il tristemente famoso orb-2. E può permetterselo: adesso, la violenza e il terrore li esercita solo lui; oggi, in Cecenia, le uniche stanze della tortura sono le sue; gli omicidi, solo lui può commetterli. Ma Ramzan sa scegliersi le vittime, in Cecenia non si uccidono piú degli innocenti, no, si uccidono soltanto i šaitany, i «diavoli», e chi li appoggia: nel reame di Ramzan, nell’anno terzo del suo regno, non muori piú se non te lo meriti. Cosí ha decretato il capo.
Memorial sarebbe quasi d’accordo con questo punto di vista. A Mosca, in giugno, Aleksandr Čerkasov, che segue gli eventi nel Caucaso settentrionale fin dalla prima guerra (1994-96), mi aveva definito la «cecenizzazione», cioè la decisione presa da Vladimir Putin nel 2002 di insediare un forte potere filorusso, composto principalmente da ex ribelli sotto il comando dell’ex muftí indipendentista Achmad-Chadži Kadyrov, come «il trasferimento dalle strutture federali alle strutture locali del potere di perpetrare violenze illegali». E al pari dei suoi colleghi, anche Čerkasov riconosceva che quella «cecenizzazione» aveva comportato un effettivo cambiamento: «Le violenze sono altrettanto crudeli, ma piú selettive». A Groznyj, seduto a un tavolino di formica nella cucina del suo ufficio, un altro difensore dei diritti umani che qui chiamerò Mussa mi ha tranquillamente ricostruito la «storia della violenza». Ho già accennato alle grandi začistki, le massicce operazioni condotte dalle truppe della Federazione a partire dal 2000, che duravano giorni e giorni e si concludevano sistematicamente con decine di morti e di scomparsi, perlopiú colpevoli soltanto di essere giovani e maschi, nonché con stupri e saccheggi. Secondo Mussa, erano continuate all’incirca fino al 2002; dal 2003, quando le truppe della Federazione, con l’aiuto di Kadyrov padre, erano finalmente riuscite a creare una rete di seksoty, di informatori, si era passati a poco a poco al sistema delle adresnje začistki, le pulizie mirate, in cui squadroni della morte con il passamontagna irrompevano a casa di specifici individui, per ucciderli sul posto o per prelevarli. Questo tipo di omicidi e di sparizioni è costantemente aumentato fino alla metà del 2004, quando gli organi ceceni hanno cominciato a partecipare alle začistki: allora le violenze hanno preso a diminuire. «E non soltanto calava la quantità di arresti illegali e di sparizioni, – spiega Mussa, – ma aumentava il numero dei sopravvissuti». A Mosca Oleg Orlov, presidente dell’esecutivo di Memorial, mi ha tenuto un discorso analogo: «Nel 2007, con l’arrivo al potere di Ramzan Kadyrov, il numero dei casi di tortura e di sparizione è bruscamente diminuito. Durante il suo primo anno al potere, – aggiunge Orlov, – Kadyrov ha persino cominciato a usare la retorica dei difensori dei diritti umani!» Memorial è l’unica organizzazione che raccolga sistematicamente dati sulle sparizioni e sugli omicidi in Cecenia. Anche se sono ampiamente inferiori alla realtà – «Riteniamo di avere notizia del 30 per cento circa dei casi», sostiene Orlov –, dànno un’idea abbastanza precisa di come evolvano le tendenze. Nel 2006, l’ultimo anno del potere di Alu Alchanov, il presidente ad interim nominato da Putin dopo l’assassinio di Achmad-Chadži Kadyrov, nel maggio 2004, Memorial ha registrato 187 casi di rapimenti, 11 dei quali si sono conclusi con la morte e 63 con la scomparsa (le altre vittime sono state liberate, per lo piú dopo aver subito la tortura, oppure sono riaffiorate nel sistema giudiziario ufficiale, per essere processate); nel 2007 Memorial ha rilevato 35 casi di rapimento, con un morto e nove scomparsi. Al momento delle mie conversazioni con Orlov e i suoi colleghi, in maggio e giugno, essi constatavano un netto incremento per il 2009, con un numero di morti e scomparsi nei primi quattro mesi dell’anno già pari a quello di tutto il 2008. Inoltre, ormai da mesi, insieme ai colleghi dell’organizzazione Human Rights Watch, avvertivano che Ramzan stava instaurando pratiche di punizione collettiva. Me le ha descritte una delle principali collaboratrici di Human Rights Watch a Mosca, Tanja Lokšina, che in marzo aveva riferito in un rapporto quella piú evidente: incendiare la casa alle famiglie dei giovani che «andavano nella foresta», cioè entravano nella resistenza islamica armata. Nell’agosto 2008 Kadyrov ha dichiarato di fronte al Parlamento della Cecenia che il fenomeno stava subendo un forte incremento; la soluzione, come aveva spiegato la sera stessa alla televisione, sarebbe stata quella di punire le famiglie. Questa tesi fu ripresa e amplificata dai suoi piú stretti collaboratori: in un’allocuzione televisiva Muslim Chučiev, sindaco di Groznyj, dichiarò ad alcune famiglie di ribelli: «In futuro dovrete trovare i vostri figli e riportarli a casa. Se fanno il male, la pagherete voi, i vostri familiari e persino i vostri discendenti… Il male fatto dai vostri parenti nella foresta ricadrà su di voi e sulle vostre case. Ognuno di voi se lo accollerà. Tutte le famiglie che hanno qualcuno nella foresta saranno responsabili, tutte!» Ramzan ha una tale rete di intelligence che per un giovane è impossibile «andare nella foresta» senza che lo si venga a sapere rapidamente – e nel giro di pochi giorni cominciano le pressioni sulla famiglia. Alcuni genitori riescono a persuadere i figli a tornare a casa; in tal caso, a volte vengono massacrati di botte, a volte si vedono anche infliggere una predica in pubblico o alla televisione da Ramzan in persona o da uno dei suoi sodali; ma poi la tendenza generale è a quanto pare di lasciarli in pace. Non è un’idea stupida: trattandoli non come terroristi, ma come ragazzini che hanno fatto una cavolata, probabilmente Kadyrov evita non poche recidive. I combattenti irriducibili, invece, possono «uscire dalla foresta» solo denunciando i nascondigli o i nomi di battaglia di alcuni loro compagni; difficile dire, però, se vengano ancora costretti a torturare altri ribelli catturati, una pratica abbastanza generalizzata alcuni anni or sono, e confermata dalla testimonianza di Umar Izrailov, un ex combattente arruolato a forza da Ramzan, che in seguito si è rifugiato in Austria, dove è stato assassinato per strada, lo scorso gennaio. Quanto a quelli che si rifiutano ostinatamente di arrendersi, a farne le spese sono le loro famiglie. Lokšina mi ha raccontato la storia di un uomo piuttosto anziano i cui due nipoti erano diventati combattenti fondamentalisti abbastanza noti (entrambi i figli erano morti durante la guerra). «Ha avuto la sfortuna di essere il loro parente piú stretto ancora in vita. Da anni i kadyrovcy facevano pressione perché convincesse i nipoti ad arrendersi. Ha anche tentato – era cosí disperato, sua moglie era stata picchiata – e alla fine è riuscito a trovarli nei boschi e a parlare con loro. E li ha supplicati di fuggire all’estero o di chiedere un’amnistia, qualcosa. Ma lo hanno riempito di botte, non volevano sentirne parlare. Alla fine, una sera i kadyrovcy sono arrivati a casa sua, hanno cacciato lui e la sua vecchia moglie, e hanno appiccato il fuoco».
Forse la portata del terrore è staliniana in percentuale, ma resta ben piú contenuta in termini assoluti. Sui 74 casi di sparizione o piuttosto di arresto illegale registrati da Memorial tra gennaio e giugno 2009, 57 persone sono state rilasciate, la maggior parte, però, dopo essere stata torturata. Quattro sono state giustiziate e dodici sono «scomparse senza ulteriori notizie», il che significa che certamente sono state anch’esse uccise. Sedici in sei mesi: siamo lontani dalle cifre del primo anno di guerra, o persino dal periodo di Alchanov. Ma ha senso fare simili confronti? Kadyrov accusa regolarmente Memorial di guardare soltanto il lato negativo delle cose, di rifiutarsi di vedere quello positivo, la ricostruzione, lo sviluppo. Ma per Memorial la ricostruzione e lo sviluppo non possono fondarsi sull’omicidio, sulla tortura e sul terrore, in Cecenia come in Russia, dove l’attuale regime è diventato esperto nell’arte di far tacere l’ampia maggioranza uccidendo o lasciando uccidere in modo estremamente selettivo, mentre controlla ogni accesso a una reale informazione. Ramzan sa benissimo, come il suo padrone a Mosca, che bastano pochi casi per mantenere viva la paura. In Cecenia si può odiare Ramzan, si può restare a casa propria e lamentarsi di lui fra amici, senza eccessivi rischi; ma guai a chi si oppone in pubblico, a chi diventa suo nemico. O persino a chi ha la sfortuna di conoscere un po’ troppo bene uno dei suoi nemici.
Raramente ci si rende conto fino a che punto le nostre rappresentazioni condizionino le nostre esperienze; in teoria lo sappiamo, ma ce ne dimentichiamo continuamente, e la nostra mente vuole sempre credere che quanto abbiamo visto, sentito e capito venga a formare una rappresentazione fresca e «obiettiva». Quando Aleksandr Čerkasov mi dichiarava, in giugno: «Il risultato di questa guerra interminabile, di questa colossale quantità di sangue versato, della violenza, è che adesso laggiú si va costruendo un sistema di tipo totalitario», fra me e me pensavo: «Sí, forse, ma comunque esagerano un po’, ci sono dentro da cosí tanto tempo, mancano di prospettiva». Ognuno, certo, è invischiato nelle proprie rappresentazioni, lo sapevo bene; il mio errore consisteva nel pensare che le mie fossero piú vicine alla realtà delle loro. E chi sa qualcosa della realtà? La realtà sono due pallottole in testa. E quelli a cui è successo hanno potuto vedere, per un istante piú o meno lungo, la realtà precipitar loro addosso con tutto il suo peso, travolgendo qualunque rappresentazione, per sempre. La mattina del 15 luglio 2009, poco piú di una settimana dopo aver concluso una prima stesura di questo reportage, ho cominciato a ricevere delle mail in cui si diceva che qualche ora prima era stata sequestrata Natal’ja Estemirova, una delle principali attiviste di Memorial a Groznyj, la persona che aveva i contatti migliori e procurava piú informazioni; secondo i colleghi che, preoccupati di non vederla arrivare a una riunione, erano andati a casa sua e avevano parlato con alcuni vicini che avevano assistito alla scena, Estemirova «è stata spinta a forza, nei pressi di casa sua, su un’auto VAZ-2107 bianca e allora ha gridato che la stavano sequestrando». Non conoscevo Natal’ja Estemirova, non l’avevo mai incrociata nelle varie conferenze internazionali a cui partecipava regolarmente, e a Groznyj non l’avevo vista, non so nemmeno per quale motivo: forse non c’era, oppure ho semplicemente avuto un momento di pigrizia, perché avevo già visto tanti suoi colleghi e mi dicevo che non mi avrebbe rivelato niente di piú, niente che non sapessi già. Insomma, ho letto i messaggi, ed ero preoccupato, ma non troppo. Dopotutto, adesso gli «scomparsi» per lo piú ricomparivano, lo «sapevo», come «sapevo» che un difensore dei diritti umani noto a livello mondiale come Estemirova, che ha ricevuto premi e ha una certa visibilità internazionale, lo si spaventa, ma non lo si uccide, la cosa creerebbe troppi problemi (è esattamente ciò che dicevano tutti di Anna Politkovskaja, la sua grande amica, che sin dai primi tempi Estemirova guidava attraverso gli arcani ceceni, ciò che diceva Anna, e di certo è ciò che diceva a se stessa anche Natal’ja Estemirova i giorni in cui era davvero attanagliata dalla paura, per farsi di nuovo coraggio). D’altro canto è ciò che pensavano anche i membri di Memorial in loco, della questione del rischio avevo parlato con loro, con Šachman Achbulatov, il capo di Natal’ja: lui riteneva che le cose andassero piú o meno bene, diceva che di tanto in tanto Kadyrov sbraitava e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Cecenia, anno III
  5. Premessa
  6. Den' stroitelej
  7. 1937
  8. «Il più grande costruttore del mondo»
  9. «Il Figlio del Padre»
  10. I cinque pilastri
  11. Il ritorno del rimosso
  12. Dio è grande
  13. La coda della rana
  14. Nella foresta
  15. Gita in montagna
  16. Il «Chozjain»
  17. Glossario
  18. Elenco delle illustrazioni