Il fantasma esce di scena
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Il fantasma esce di scena

  1. 240 pagine
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Il fantasma esce di scena

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Come Rip Van Winkle che ricomparendo nella sua città natale scopre che tutto è cambiato, Nathan Zuckerman torna a New York, la città che ha lasciato undici anni prima, e fa tre incontri che in breve tempo spazzano via la sua solitudine gelosamente custodita. Di colpo invischiato nuovamente - come mai avrebbe voluto o previsto - nelle trame dell'amore e della perdita, del desiderio e dell'animosità, il celebre alter ego di Philip Roth mette in scena un dramma interiore di vivide e intense possibilità.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858402542

1. Il presente

Non andavo a New York da undici anni. Tolta una visita a Boston per l’asportazione di una prostata cancerosa, in quegli undici anni non mi ero mai allontanato dalla mia strada di montagna nei Berkshire e, ciò che piú conta, avevo di rado aperto un giornale o ascoltato le notizie alla radio dopo l’11 settembre, tre anni prima; senza alcun senso di perdita – ma semplicemente, all’inizio, con una sorta di aridità interiore – avevo smesso di vivere non soltanto nel gran mondo ma nel presente. Da molto tempo avevo soffocato l’impulso di starci dentro e di farne parte.
Ma ora avevo preso la macchina e mi ero spinto per duecento chilometri verso sud fino a Manhattan per farmi visitare al Mount Sinai Hospital da un urologo specializzato nell’esecuzione di una procedura destinata ad aiutare le migliaia di uomini come me resi incontinenti dall’asportazione della prostata. Inserendo un catetere nell’uretra per iniettare una forma gelatinosa di collagene là dove il collo della vescica incontra l’uretra, questo specialista otteneva miglioramenti significativi in circa il cinquanta per cento dei suoi pazienti. Le probabilità non erano molte, perché «miglioramento significativo» voleva dire solo parziale attenuazione dei sintomi: la «grave incontinenza» diventava una «moderata incontinenza», e la «moderata» diventava «leggera». Tuttavia, poiché i suoi risultati erano piú soddisfacenti di quelli ottenuti da altri urologi usando all’incirca la stessa tecnica (non c’era niente da fare per l’altro rischio della prostatectomia radicale al quale io, come decine di migliaia d’altri, non avevo avuto la fortuna di sfuggire: i danni ai nervi che avevano provocato l’impotenza), mi recai a New York per un consulto, molto tempo dopo che avevo immaginato di aver fatto l’abitudine agli inconvenienti pratici delle mie condizioni.
Negli anni successivi all’intervento credetti addirittura di aver vinto la vergogna di farsi la pipí addosso, e di essere uscito dalla forma acuta di disorientamento che era stata particolarmente esasperante nei primi diciotto mesi, quando il chirurgo mi aveva fatto credere che l’incontinenza sarebbe scomparsa a poco a poco nel corso del tempo, come accade in un numero limitato di casi fortunati. Ma a dispetto del trantran quotidiano indispensabile per tenermi pulito e per non emanare odori sgradevoli, io non dovevo in realtà essermi mai veramente abituato a portare le mutande speciali e a cambiare i pannoloni e ad affrontare gli «incidenti» che potevano capitarmi, non piú di quanto avessi sopportato l’umiliazione che questo comportava, perché ero là di nuovo, a settantun anni, nell’Upper East Side di Manhattan, a non molti isolati da dove abitavo una volta, quando ero piú giovane, sano e vigoroso, e poi nella sala della reception del dipartimento di urologia del Mount Sinai Hospital, in procinto di sentirmi dire che con l’aderenza permanente del collagene al collo della vescica avrei avuto la possibilità di esercitare sul flusso dell’urina un controllo un po’ piú stretto di quello di un poppante. Mentre aspettavo là seduto, immaginando la procedura e sfogliando le copie di «People» e «New York» ammucchiate le une sulle altre, pensai, Ma non è questo il punto. Gira sui tacchi e tornatene a casa.
Negli ultimi undici anni ero vissuto da solo in una casetta su una strada sterrata in aperta campagna, avendo deciso di vivere cosí, appartato, un paio d’anni prima che mi diagnosticassero il cancro. Vedo poca gente, io. Dal giorno della morte, l’anno precedente, del mio vicino e amico Larry Hollis, possono passare anche due o tre giorni senza che io parli con nessuno, nessuno tranne la signora che ogni settimana viene a fare le pulizie, e tranne suo marito, che è il custode. Non vado a mangiare fuori, non vado al cinema, non guardo la televisione, non possiedo né un cellulare né un videoregistratore né un lettore dvd né un computer. Continuo a vivere nell’Era della Macchina da Scrivere e non ho idea di cosa sia il World Wide Web. Non mi prendo piú il disturbo di votare. Scrivo tutto il giorno e spesso fino a notte fonda. Leggo, in particolare i libri che ho scoperto per la prima volta da studente, i capolavori della letteratura il cui potere su di me non è minore, e anzi in certi casi è maggiore, di quanto lo fosse nei primi elettrizzanti incontri che ho avuto con loro. Negli ultimi tempi ho riletto Joseph Conrad per la prima volta dopo cinquant’anni, e recentemente La linea d’ombra, che mi ero portato a New York per scorrerlo di nuovo, dopo averlo letto tutto in una volta l’altra notte. Ascolto musica, passeggio nei boschi, quando fa caldo nuoto nel mio stagno, la cui temperatura anche d’estate non supera mai di molto i venti gradi. Faccio il bagno senza costume, invisibile a tutti, cosicché, se mi lascio appresso una tenue e fluttuante nuvola di urina che macchia visibilmente le acque circostanti dello stagno, non perdo la calma e non provo l’imbarazzo da cui sarei sicuramente schiacciato se la vescica cominciasse involontariamente a vuotarsi mentre nuoto in una piscina pubblica. Esistono delle mutande di plastica con gli orli fortemente elasticizzati, fatte apposta per i nuotatori incontinenti, che secondo la pubblicità sono stagne, ma quando, dopo molti equivoci, ho proceduto a ordinarne un paio da un catalogo di articoli per piscina e le ho provate nello stagno, ho scoperto che, anche se portare questi calzoncini bianchi piuttosto grandi sotto il costume da bagno alleviava il problema, esso non scompariva abbastanza da consentirmi di vincere l’impaccio. Per non rischiare di sentirmi a disagio e di offendere gli altri, ho rinunciato all’idea di nuotare regolarmente nella piscina del college quasi tutto l’anno (con i calzoncini sotto il costume) per limitarmi a ingiallire sporadicamente le acque del mio stagno nei pochi mesi caldi dei Berkshire, quando, che piova o splenda il sole, faccio le mie vasche ogni giorno per mezz’ora.
Un paio di volte alla settimana vado giú ad Athena, a tredici chilometri di distanza, a fare la spesa, portare la roba in lavanderia, e ogni tanto a mangiare al ristorante o comprare un paio di calzini o scegliere una bottiglia di vino o usare la biblioteca dell’Athena College. Tanglewood non è lontana, e durante l’estate ci vado una decina di volte per ascoltare un concerto. Non faccio né letture né conferenze, non insegno all’università e non vado in Tv. Quando escono i miei libri, mi tengo in disparte. Scrivo tutti i giorni della settimana; se no, me ne sto zitto. Sono tentato dall’idea di non pubblicare affatto: l’unica cosa di cui ho bisogno non è forse il lavoro, il lavoro e il lavorio? Che importanza può avere, ormai, se sono incontinente e impotente?
Larry e Marylynne Hollis erano venuti nei Berkshire da West Hartford dopo che lui era andato in pensione, lasciando il posto di avvocato nella società di assicurazioni di Hartford che aveva occupato per tutta la vita. Larry aveva due anni meno di me ed era un uomo meticoloso e pignolo, apparentemente convinto che la vita era sicura solo se ogni suo aspetto veniva puntigliosamente programmato, che io, nei primi mesi in cui cercò di farmi entrare nella sua vita, mi sforzai di evitare in tutti i modi. Alla fine cedetti, non soltanto perché era cosí ostinato nel suo desiderio di alleviare la mia solitudine, ma perché non avevo mai incontrato uno come lui, un adulto la cui triste biografia infantile aveva, a suo giudizio, determinato tutte le scelte fatte in seguito, dal giorno in cui sua madre era morta di cancro, quando lui aveva dieci anni, solo quattro anni dopo che suo padre, proprietario di un negozio di linoleum di Hartford, era stato non meno infelicemente colpito dalla stessa malattia. Figlio unico, Larry fu mandato a vivere con alcuni parenti sul fiume Naugatuck a sudovest di Hartford, appena fuori dalla squallida e industriale Waterbury, nel Connecticut, e là, su un quadernetto per bambini etichettato «Cose da fare», stilò un elenco di programmi per il futuro che seguí alla lettera per il resto della vita; da allora in poi, ogni cosa intrapresa fu deliberatamente ispirata a un principio di causa ed effetto. Non si accontentava di un voto diverso da un’A e, anche quando era solo un adolescente, sfidava qualunque insegnante non avesse valutato con esattezza il suo rendimento. Frequentava la scuola anche nei mesi estivi per anticipare il conseguimento del diploma di maturità e andare al college prima di compiere diciassette anni; e fece lo stesso durante le estati all’università del Connecticut, dove aveva una borsa di studio che copriva integralmente le spese di frequenza e dove per pagarsi vitto e alloggio lavorava tutto l’anno nella stanza della caldaia della biblioteca, in modo da poter lasciare il college e cambiare il proprio nome da Irwin Golub a Larry Hollis (come aveva deciso di fare a dieci anni) e arruolarsi in aviazione, per diventare un pilota da caccia noto a tutti come tenente Hollis e far parte degli aventi diritto a usufruire della Legge sui Reduci; lasciato il servizio, si iscrisse alla Fordham e, in cambio dei tre anni in aeronautica, il governo gli pagò i tre anni di scuola di legge. In veste di pilota di stanza a Seattle fece un’energica corte a una bella ragazza appena uscita dal liceo che si chiamava Collins e aveva tutti i requisiti per diventare sua moglie, uno dei quali era questo: essere di estrazione irlandese, con tanto di capelli ricci e neri e di occhi azzurro ghiaccio come i suoi. – Non volevo sposare un’ebrea. Non volevo che i miei figli crescessero nella religione ebraica o avessero qualcosa a che fare con gli ebrei. – Perché? – gli chiesi. – Perché non era quello che volevo per loro, – fu la sua risposta. Che voleva quello che voleva e non voleva quello che non voleva era la risposta che Hollis dava praticamente a ogni domanda che gli facevo sulla struttura assolutamente convenzionale che aveva dato alla sua vita dopo tutti quegli anni in cui si era precocemente affrettato a programmarla. Quando bussò per la prima volta alla mia porta per presentarsi – solo qualche giorno dopo che lui e Marylynne si erano installati nella casa piú vicina alla mia, a sette o ottocento metri di distanza lungo la strada sterrata –, Hollis decise immediatamente che non voleva che io mangiassi da solo tutte le sere e che dovevo cenare a casa sua con lui e sua moglie almeno una volta alla settimana. Non voleva che passassi la domenica da solo – non sopportava l’idea che qualcuno fosse solo come lo era stato lui da orfano, quando la domenica andava a pescare nel Naugatuck con suo zio, ispettore caseario dello stato – e perciò insisteva che ogni domenica mattina facessimo una passeggiata insieme o, se il tempo era brutto, qualche partita di ping-pong, essendo il ping-pong un passatempo che io tolleravo a malapena ma che obbligava lui a giocare invece di fare conversazione su come si scrive un libro. Mi faceva domande micidiali su questo argomento e non era contento finché non avevo risposto in un modo per lui soddisfacente. «Dove peschi le idee?» «Come fai a sapere se un’idea è una buona idea o una cattiva idea?» «Come fai a sapere quando devi usare il dialogo e quando devi semplicemente raccontare senza dialoghi?» «Come fai a sapere quando il libro è finito?» «Come scegli l’incipit? Come scegli il titolo? Come scegli l’ultima frase?» «Qual è il tuo libro migliore?» «Qual è il tuo libro peggiore?» «Ti piacciono i tuoi personaggi?» «Hai mai ucciso un personaggio?» «Ho sentito uno scrittore dire alla televisione che i personaggi si impadroniscono del libro e si scrivono da soli. È vero?» Aveva voluto essere padre di due figli, un maschio e una femmina, e solo dopo la nascita della quarta femmina Marylynne si ribellò al suo volere rifiutandosi di continuare a cercar di produrre l’erede maschio che era stato nei suoi piani da quando Hollis aveva dieci anni. Era un uomo grande e grosso, con la faccia squadrata e i capelli biondo spento e i suoi occhi erano folli, azzurri come il ghiaccio e folli, diversi dagli occhi azzurro ghiaccio di Marylynne, che erano bellissimi, e dagli occhi azzurro ghiaccio delle quattro belle figlie, che erano andate tutte a Wellesley perché il suo migliore amico in aeronautica aveva una sorella a Wellesley e quando Larry l’aveva conosciuta aveva mostrato proprio quella finezza e quella proprietà che lui voleva vedere nelle sue figlie. Quando andavamo insieme al ristorante (cosa che facevamo un sabato sera sí e uno no: anche in questo caso non esistevano alternative), si poteva star sicuri che sarebbe stato esigente col cameriere. C’era invariabilmente qualche lamentela a proposito del pane. Non era fresco. Non era della qualità che gli piaceva. Non ce n’era abbastanza per tutti.
Una sera dopo cena mi fece una visita inaspettata e mi regalò due gattini arancione, uno col pelo lungo e uno col pelo corto, di poco piú di otto settimane. Non avevo mai chiesto due gattini, e lui non mi aveva informato in anticipo del dono. Disse che quel mattino era stato dall’oftalmologo per una visita di controllo e aveva visto sul banco della receptionist un cartello che diceva che la ragazza aveva dei gattini da regalare. Quel pomeriggio era andato a trovarla e dei sei disponibili aveva scelto i due piú bei gattini per me. Il suo primo pensiero alla vista del cartello era stato per me.
Depose i gattini sul pavimento. – Non dovresti fare questa vita, – disse. – Chi fa la vita che vuole? – Be’, io sí, tanto per cominciare. Io ho tutto quello che ho sempre desiderato. Non ti permetterò di continuare a fare la vita di un single. Tu la porti all’estremo, maledizione. Sei esagerato, Nathan. – Come te. – Col cavolo! Non sono mica io a vivere cosí. Tutto quello che ti chiedo è un po’ di normalità. Questa è un’esistenza troppo separata per qualunque essere umano. Se non altro puoi avere due gatti a farti compagnia. Ho tutta la roba che ci vuole, in macchina.
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Uscí di nuovo, e quando fu di ritorno vuotò sul pavimento un paio di grandi sacchetti da supermarket con una mezza dozzina di giocattoli, una dozzina di scatolette di cibo per gatti, un saccone di sabbia per gatti e una cassetta di plastica, due piatti di plastica per mangiare e due ciotole di plastica per l’acqua.
– Ecco tutto quello che ti serve, – disse. – Non sono belli? Guardali. Saranno fonte di gran piacere per te.
Tutto questo mi fu comunicato con un’espressione straordinariamente arcigna, e io non potei dire altro che: – È un pensiero davvero gentile, Larry.
– Come li chiamerai?
– A e B.
– No. Hanno bisogno di un nome. Tu vivi tutto il giorno con l’alfabeto. Quello col pelo corto puoi chiamarlo Shorty e quello col pelo lungo Longy.
– Allora, è quello che farò.
Nell’unico vero rapporto umano che avessi, mi ero adattato al ruolo impostomi da Larry. Ero sostanzialmente sottomesso alla disciplina di Larry, come tutti nella sua vita. Pensate, quattro figlie e non una che dicesse: «Ma io preferisco andare a Barnard, io preferisco andare a Oberlin». Pur non avendo mai avuto l’impressione, quando ero con lui e la sua famiglia, che fosse un padre particolarmente tirannico, com’era strano, pensavo, che a quanto ne sapevo nessuna di loro si fosse mai opposta al padre che diceva: per te è Wellesley, e questo è tutto. Ma la loro docilità di figlie obbedienti era uno spettacolo meno straordinario a vedersi della mia. Per Larry la via del potere consisteva nella totale acquiescenza dei suoi cari: per me, nel non averne affatto.
Aveva portato i gatti un giovedí. Li tenni fino a domenica. In quell’intervallo non lavorai praticamente mai al mio libro. Passavo invece il tempo a tirare ai gatti i loro balocchi o ad accarezzarli tenendoli sulle ginocchia, insieme o a turno, o restavo semplicemente a guardarli mentre mangiavano, o giocavano, o si leccavano il pelo, o dormivano. Tenevo la loro cassetta in un angolo della cucina e la sera li mettevo nel soggiorno e mi chiudevo l’uscio della camera da letto alle spalle. Quando mi svegliavo la mattina, la prima cosa che facevo era correre alla porta per vederli. E i gatti erano là, dietro la porta, in attesa che io l’aprissi.
Lunedí mattina telefonai a Larry. – Per favore, vieni a prendere i gatti.
– Tu li odi.
– Al contrario. Se restano, non scriverò un’altra parola. Non posso tenere questi gatti in casa con me.
– Perché no? Cosa diavolo hai che non va?
– Sono troppo simpatici.
– Bene. Magnifico. L’idea era proprio questa.
– Vieni a prenderli, Larry. Se vuoi, li riconsegno io alla receptionist dell’oftalmologo. Ma non posso tenerli ancora qui.
– Cos’è questo? Un atto di sfida? Una bravata? Anch’io sono un uomo disciplinato, ma tu mi vuoi umiliare. Non ti ho portato due persone, Dio non voglia. Ho portato due gatti. Due micini.
– Li ho accettati con piacere, no? Ci ho provato, no? Per favore, portali via.
– No.
– Non te li ho mai chiesti, sai.
– Questo non prova nulla. Tu non chiedi mai niente.
– Dammi il numero della receptionist dell’oftalmologo.
– No.
– Va bene. Ci penso io.
– Tu sei pazzo, – disse lui.
– Larry, due gattini non possono fare di me un’altra persona.
– Ma è proprio quello che sta succedendo. Proprio quello che tu non vuoi che succeda. Non capisco… un uomo della tua intelligenza che fa in modo di trasformarsi in una persona cosí. Non ci arrivo.
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– Ci sono molte cose inspiegabili nella vita. Non dovresti preoccuparti per la mia mancanza di chiarezza.
– Va bene. Hai vinto. Verrò a prendere i gatti. Ma non ho finito con te, Zuckerman.
– Non ho motivo di credere che tu abbia finito o che possa finirla. Anche tu sei un po’ matto, sai?
– Col cavolo!
– Hollis, per favore, sono troppo vecchio per arrabbiarmi. Vieni a prendere i gatti.
Poco prima che la quarta figlia si sposasse a New York City – con un giovane avvocato irlandese-americano che, come Larry, aveva fatto la scuola di legge di Fordham – gli diagnosticarono un cancro. Lo stesso giorno tutta la famiglia si radunò a New York per il matrimonio. L’oncologo di Larry lo fece ricoverare all’ospedale dell’università di Farmington, nel Connecticut. La prima notte all’ospedale, dopo che l’infermiera gli ebbe fatto le analisi del sangue, misurato la pressione e dato una pillola per dormire, lui prese altre cento pillole di sonnifero che aveva nascosto nel nécessaire per la barba e, con l’acqua del bicchiere sul comodino, le inghiottí nel segreto della sua stanza buia. La mattina dopo, di buon’ora, Marylynne ricevette dall’ospedale una telefonata con cui la si informava che suo marito si era suicidato. Qualche ora dopo, su insistenza di Marylynne – non per nulla era stata sua moglie per tutti quegli anni –, la famiglia procedette con il matrimonio e il banchetto nuziale, e solo allora tornò nei Berkshire per i preparativi del funerale.
Seppi poi che Larry si era messo d’accordo in anticipo col medico per essere ricoverato quel giorno e non il lunedí della settimana dopo, cosa che avrebbe potuto fare facilmente. In tal modo la famiglia sarebbe stata tutta insieme nello stesso posto quando fosse arrivata la notizia della morte; inoltre, uccidendosi all’ospedale, dove c’erano dei professionisti che potevano occuparsi del cadavere, aveva risparmiato a Marylynne e alle figlie tutto il possibile delle bizzarrie che seguono a un suicidio.
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Aveva sessantotto anni quando morí e, fatta eccezione per il progetto compreso nell’elenco sul quadernetto delle «Cose da fare» di avere un giorno un figlio maschio di nome Larry Hollis junior, aveva raggiunto, cosa strabiliante, tutti gli obiettivi che si era ripromesso di raggiungere quando era rimasto orfano a dieci anni. Era riuscito ad aspettare abbastanza per vedere la figlia minore sposata e alle soglie di una nuova vita, e aveva potuto evitare ciò che temeva di piú: che la prole assistesse agli atroci tormenti di un padre morente, gli stessi ai quali aveva assistito lui quando i suoi genitori si erano lentamente, uno dopo l’altro, arresi al cancro. Aveva lasciato persino un messaggio per me. Aveva persino cercato di prendersi cura di me. Nella posta del lunedí successivo alla domenica in cui avevamo tutti appreso della sua morte, ricevetti questa lettera: «Nathan, ragazzo mio, mi dispiace lasciarti cosí. In questo vasto mondo, non puoi stare solo. Non puoi stare senza contatti con qualcuno. Devi promettermi che non continuerai a vivere come vivevi quando ti ho incontrato. Il tuo fedele amico, Larry».
Era dunque per questo che mi trovavo nella sala d’aspetto dell’urologo? Perché un anno prima, quasi esattamente un anno prima, Larry mi aveva inviato quel biglietto e poi si era ucciso? Non lo so, e saperlo non avrebbe avuto la minima importanza. Ero là seduto perché ero là seduto, a sfogliare riviste di un genere che non vedevo da anni, a guardare le foto di attori famosi, famose modelle, famosi stilisti, famosi chef e ricchi uomini d’affari, a imparare dove potevo andare a comprare il prodotto piú caro, piú economico, piú alla moda, piú attillato, piú morbido, piú divertente, piú saporito, piú di cattivo gusto, fra quasi tutti quelli che l’America sfornava per i consumatori, e ad aspettare l’appuntamento col mio medico.
Ero arrivato nel pomeriggio del giorno prima. Avevo prenotato una stanza all’Hilton e, dopo avere disfatto la valigia, ero uscito in Sixth Avenue per visitare la città. Ma da dove dovevo cominciare? Dalle strade dove avevo abitato una volta? Dai locali del quartiere dove andavo a mangiare? Dall’edicola dove compravo il giornale e dalle librerie dove andavo a curiosare? Dovevo forse rifare le lunghe passeggiate che facevo alla fine della mia giornata di lavoro? Oppure, dal momento che non ne vedevo poi tanti, dovevo andare a cercare altri membri della mia specie? Durante gli anni della mia assenza c’erano state lettere e telefonate, ma la ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. 1. Il presente
  5. 2. Sotto l’incantesimo
  6. 3. Il cervello di Amy
  7. 4. Il mio cervello
  8. 5. Momenti di follia
  9. Indice