L'orgia di Praga
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L'orgia di Praga

  1. 88 pagine
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Informazioni sul libro

«Oscenamente oltraggioso eppure così acuto nella sua capacità di riflettere una realtà paranoica che è ormai divenuta universale. Qui c'è Roth al suo meglio, una degna chiusa per tutta la sua produzione narrativa fino a questo momento».

Harold Bloom, The New York Times Book Review

Sulle tracce del manoscritto inedito di un martire di lingua yiddish, lo scrittore americano Nathan Zuckerman a metà degli anni Settanta si reca nella Praga dell'occupazione sovietica. Lì, in una nazione strangolata dal totalitarismo comunista, scopre una dimensione letteraria che non gli appartiene, segnata com'è dalla prevaricazione istituzionalizzata. E lì, fra gli scrittori oppressi insieme ai quali si trova ben presto invischiato in una serie di avventure bizzarre e struggenti, scopre anche una forma intrigante e perversa di eroismo.
L'orgia di Praga, che riproduce le pagine dei taccuini sui quali Zuckerman annota il suo soggiorno fra quegli artisti proscritti, funge da epilogo alla trilogia composta da Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato e La lezione di anatomia, e appone un sigillo sensazionale all'intricata struttura dell'opera magna di Roth sulle conseguenze impreviste dell'arte.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858402689
Philip Roth

L’orgia di Praga

Traduzione di Vincenzo Mantovani
Giulio Einaudi editore
...dai taccuini di Zuckerman
New York, 11 genn. 1976
– Il suo romanzo, – dice, – è assolutamente uno dei cinque o sei libri della mia vita.
– Dica pure al signor Sisovsky, – dico io alla sua compagna, – che mi ha già adulato abbastanza.
– Lo hai già adulato abbastanza, – gli dice lei. È una donna sulla quarantina, occhi chiari, zigomi larghi, capelli neri austeramente divisi nel mezzo: una faccia sconvolta, che colpisce. Una vena bluastra le pulsa pericolosamente sulla tempia mentre se ne sta appollaiata sull’orlo del mio sofà, perfettamente immobile. Tutta in nero come il principe Amleto. Il fondo della gonna di velluto nero del suo funereo tailleur mostra segni ben visibili di usura. Il suo profumo è forte, le calze sono smagliate, i nervi tesi.
Lui è piú giovane, forse di una decina d’anni: robusto, piccolo, tarchiato, con una faccia larga dal naso piccino che ha l’inquietante potenza di un pugno guantato. Lo vedo abbassare la fronte e sfondare una porta a testate. Ma i capelli piuttosto lunghi sono quelli di un rubacuori, capelli serici e pesanti di un nero e di un lustro quasi orientali. Indossa un completo grigio, di una stoffa vagamente luminosa, con la giacca tagliata in alto sotto le ascelle e un po’ stretta di spalle. I calzoni aderiscono a una parte inferiore del tronco sproporzionatamente forte: un calciatore con i pantaloni lunghi. Le appuntite scarpe bianche hanno bisogno del ciabattino; la camicia bianca ha il colletto slacciato. Qualcosa del fannullone, qualcosa del mafioso e qualcosa del ragazzo troppo viziato. Mentre l’inglese della donna ha un forte accento straniero, quello di Sisovsky ha solo qualche piccolo difetto, e viene articolato con tanta sicurezza – e con vocali oxoniane di singolare eleganza – che l’occasionale ammaccatura sintattica mi sembra quasi una forma di astuzia, un gioco ironico per ricordare al padrone di casa americano che lui è, dopo tutto, solo un profugo, poco piú che un novizio della lingua che già padroneggia con tanta scioltezza e tanta grazia. Sotto tutta la deferenza che mi mostra, mi sembra di capire che è uno dei forti, uno di quegli stalloni che hanno la forza della loro indignazione.
– Gli dica di parlarmi del suo libro, – dico alla donna. – Com’era intitolato?
Ma lui continua a parlare del mio. – Quando abbiamo raggiunto il Canada da Roma, il suo è stato il primo libro che ho comprato. Ho sentito che qui in America ha avuto una risposta scandalizzata. Quando lei è stato cosí gentile da accettare di vedermi, sono andato in biblioteca a vedere in che modo gli americani hanno accolto la sua opera. La cosa mi interessa per il modo in cui i cechi hanno accolto la mia, che ha avuto, anch’essa, una risposta scandalizzata.
– Questo scandalo in cosa consisteva?
– Prego, – dice lui, – non voglio paragonare i nostri due libri. Il suo è l’opera di un genio e il mio è niente. Quando studiavo Kafka, la sorte dei suoi libri in mano ai kafkologi mi sembrava piú grottesca della sorte di Josef K. Ho l’impressione che questo valga anche per lei. La risposta scandalizzata conferisce un’altra dimensione grottesca, che ora appartiene al suo libro come le sciocchezze kafkologiche appartengono a Kafka. E come la messa al bando del mio libriccino crea una dimensione che esulava completamente dal mio intento.
– Perché è stato messo al bando, il suo libro?
– Il peso della stupidità che lei deve portare è maggiore del peso della scomunica.
– Non è vero.
– Temo di sí, cher maître. Lei arriva a sminuire il significato della sua vocazione. Lei arriva a credere che non esista una cultura letteraria che conti. C’è un preciso indebolimento esistenziale nella sua posizione. È deplorevole perché, in realtà, lei ha scritto un capolavoro.
Però non dice mai che cosa gli piace del mio libro. Forse non gli piace veramente. Forse non lo ha letto. C’è molta astuzia in questa insistenza. L’esule rovinato non si lascerà distogliere dal commiserare il successo americano.
Cos’è che vuole?
– Ma è a lei, – gli ricordo, – che hanno negato il diritto di esercitare la sua professione. Qualunque sia stato lo scandalo, io sono stato abbondantemente – bizzarramente – ricompensato. Da un indirizzo nell’Upper East Side alla possibilità di aiutare degli assassini meritevoli a ottenere la libertà condizionata. Ecco il potere che dà lo scandalo da queste parti. È lei che hanno punito nel modo piú severo. Vietando il suo libro, proibendole di pubblicare, costringendola a espatriare... Cosa potrebbe darsi di piú gravoso e stupido di questo? Sono contento che lei pensi bene del mio lavoro, ma non compianga la situazione dello cher maître, mon cher ami. Perché ha fatto tanto scandalo, quello che ha scritto?
La donna dice: – Zdenek, diglielo.
– Che c’è da dire? – dice lui. – Un sorriso ironico, per loro, è piú difficile da sopportare del puro e semplice fanatismo ideologico. Io ho riso. Loro sono degli ideologi. Io li odio, gli ideologi. Ecco la causa di tanto risentimento. E la causa dei miei dubbi.
Gli chiedo di spiegarmi questi dubbi.
– Pubblicai una piccola satira innocua a Praga nel 1967. Nel 1968 i russi vennero a trovarci e da allora non ho pubblicato piú nulla. Non c’è altro da dire. Quelle che mi interessano sono queste stupide recensioni del suo libro che ho letto in biblioteca. Non il fatto che siano stupide, questo è scontato. Ma il fatto che non ce n’è una che possa dirsi intelligente. In America si leggono queste cose e si è presi dal terrore del futuro, del mondo, di ogni cosa.
– Terrore del futuro, e persino del mondo, lo capisco. Ma di «ogni cosa»? Mostri la sua simpatia a uno scrittore per le stupide recensioni del suo libro e si sarà fatto un amico per la vita, Sisovsky, ma ora che questa è fatta, vorrei sapere qualcosa dei suoi dubbi.
– Parlagli dei tuoi dubbi, Zdenek!
– Come potrei? Ai miei dubbi, francamente, non credo nemmeno io. Non credo di avere dei dubbi. Ma forse dovrei averne.
– Perché? – dico.
– Ricordo il periodo precedente l’invasione di Praga, – dice. – Le giuro che negli anni sessanta non una di quelle recensioni avrebbe potuto essere pubblicata a Praga: il livello è troppo basso. E questo nonostante il fatto che, in base a giudizi semplicistici, noi eravamo un paese stalinista e gli Stati Uniti d’America erano il paese della libertà intellettuale.
– Zdenek, lui di queste recensioni non vuole sentire parlare... Vuole che tu gli parli dei tuoi dubbi!
– Calmati, – le dice lui.
– Il signore ti ha fatto una domanda.
– Sto rispondendo.
– Avanti, allora. Avanti. Ti ha già detto che lo hai adulato abbastanza! – L’Italia, il Canada, e ora New York: lei è stufa di lui quanto del loro peregrinare. Mentre lui parla, chiude gli occhi per un momento e si tocca la vena gonfia sulla tempia, come ricordando un’altra perdita irrecuperabile. Sisovsky beve il mio whiskey, lei rifiuta anche una tazza di tè. Ha voglia di andarsene, forse fino in Cecoslovacchia, e forse senza di lui.
Intervengo io – prima che lei possa mettersi a urlare – e gli chiedo: – Non poteva restare in Cecoslovacchia, anche se avevano messo al bando il suo libro?
– Sí. Ma se fossi rimasto in Cecoslovacchia, temo che avrei imboccato la via della rassegnazione. Non potevo scrivere, né parlare in pubblico, non potevo nemmeno vedere gli amici senza che mi portassero dentro per interrogarmi. Provarsi a far qualcosa, qualunque cosa, significa mettere a repentaglio il proprio benessere, e il benessere della propria moglie, dei figli e dei genitori. Io ho una moglie, là. Ho una figlia e ho una vecchia madre che ha già subito tante privazioni. Si sceglie la rassegnazione perché ci si rende conto che non c’è niente da fare. Non c’è nessuna resistenza contro la russificazione del mio paese. Il fatto che l’occupazione sia odiata da tutti non è una difesa, a lungo andare. Voi americani ragionate in termini di un anno o due; i russi ragionano in termini di secoli. Sanno istintivamente di vivere in un tempo lungo, e che il tempo gioca a loro favore. Lo sanno nel profondo, e hanno ragione. La verità è che col passare del tempo la popolazione si rassegna lentamente al proprio destino. Sono passati otto anni. Solo gli scrittori e gli intellettuali continuano a essere perseguitati, solo scrivere e pensare è proibito; tutti gli altri si accontentano, si accontentano anche se odiano i russi, e per la maggior parte vivono meglio che mai. La modestia ci costringe a lasciarli in pace. Non puoi invocare di essere pubblicato senza chiederti se a parlare non sia solo la tua vanità. Io non sono un genio come lei. La gente può leggere Musil e Proust e Mann e Nathan Zuckerman, perché dovrebbe leggere uno come me? Il mio libro ha fatto scandalo non solo per il mio sorriso ironico, ma perché nel 1967, quando me lo pubblicarono, io avevo venticinque anni. La nuova generazione. Il futuro. Ma la mia generazione, la generazione del futuro, è quella che piú di ogni altra si è riconciliata con i russi. Per me stare in Cecoslovacchia è dar fastidio ai russi con i miei libriccini... Perché? Perché un altro dei miei libri dovrebbe essere tanto importante?
– Non è il punto di vista di Solženicyn.
– Buon per lui. Perché dovrei spendere tutto per cercar di pubblicare un altro libro con un sorriso ironico? Cosa voglio dimostrare battendomi contro di loro e mettendo in pericolo me stesso e tutti quelli che conosco? Disgraziatamente, tuttavia, per quanto io diffidi dell’eccessiva vanità, sono ancora piú in sospetto davanti alla strada della rassegnazione. Non per gli altri – facciano quello che vogliono – ma per me. Io non sono una persona coraggiosa, ma non posso nemmeno comportarmi come il piú codardo degli uomini.
– E se fosse anche questa semplice vanità?
– Esattamente: il mio dubbio è totale. In Cecoslovacchia, se restassi là, sí, potrei trovare un lavoro e almeno vivere nel mio paese e da questo trarre un po’ di forza. Là posso essere almeno un ceco... Ma non posso essere uno scrittore. Mentre in Occidente posso essere uno scrittore, ma non un ceco. Qui, dove come scrittore sono completamente trascurabile, io sono soltanto uno scrittore. Poiché non ho piú tutte le altre cose che davano un senso alla vita – il mio paese, la mia lingua, amici, famiglia, ricordi, eccetera – qui per me fare letteratura è tutto. Ma l’unica letteratura che posso fare si basa cosí completamente sulla vita che c’è là che solo là può avere l’effetto che cerco.
– Cosí, quel che è ancora piú grave del peso del divieto è questo dubbio che esso fomenta.
– In me. Solo in me. Eva non ha dubbi. Ha solo odio.
Eva sembra sbalordita. – Odio per cosa?
– Per tutti quelli che ti hanno tradita, – le dice lui. – Per tutti quelli che ti hanno abbandonata. Tu li odi e li vorresti morti.
– Non penso neanche piú a loro.
– Gli auguri le pene dell’inferno.
– Li ho completamente dimenticati.
– Vorrei parlarle di Eva Kalinova, – mi dice lui. – È troppo volgare annunciare una cosa cosí, ma è troppo ridicolo che lei non sappia nulla. È personalmente umiliante chiederle di sopportare la grande tragedia dei miei dubbi mentre Eva è qui seduta come se non esistesse.
– Io sono contenta di stare qui seduta come se non esistessi, – dice lei. – Non è necessario.
– Eva, – dice lui, – è la grande attrice cechoviana di Praga. Vada a Praga e chieda. Nessuno, là, lo metterà in dubbio, nemmeno il regime. Dopo la sua non c’è nessuna Nina, nessuna Irina, nessuna Masha.
– No, – dice lei, – basta.
– Quando Eva, a Praga, prende il tram, la gente applaude ancora. Tutta Praga è innamorata di lei da quando aveva diciotto anni.
– È per questo che mi scrivono sul muro «la puttana dell’ebreo»? Perché sono innamorati di me? Non essere stupido. Acqua passata.
– Presto tornerà a recitare, – mi assicura lui.
– Per fare l’attrice in America devi parlare un inglese che non faccia venire mal di testa!
– Eva, siediti.
Ma la sua carriera è finita. Non può stare seduta.
– Non puoi andare in scena e parlare un inglese che nessuno riesce a capire! Nessuno ti scritturerà per questo. Io non voglio recitare in altre commedie... Ne ho abbastanza di essere una persona artificiale. Sono stanca di imitare tutte queste commoventi Irine e Nine e Mashe e Sashe. Mi confonde, e confonde tutti gli altri. Tanto per cominciare, siamo persone che fantasticano troppo. Leggiamo troppo, sentiamo troppo, fantastichiamo troppo... Vogliamo tutte le cose sbagliate! Io sono contenta di aver chiuso con tutti i miei successi. Il successo, comunque, è della persona, non dell’interpretazione. A che serve? A che pro? Tutto egocentrismo. Brežnev mi ha dato la possibilità di essere una persona qualsiasi, un nessuno che fa un vero la...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il libro
  4. L’autore
  5. Dello stesso autore
  6. Copyright