Credere e curare
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Credere e curare

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Credere e curare

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Credere nella scienza, nelle opportunità di curare le malattie, di restituire la salute. Credere nella medicina come missione, nella quale il medico mette le proprie competenze al servizio degli altri. Ma anche credere in un Dio e nella possibilità di testimoniare la propria fede nell'esercizio della professione medica. È possibile tenere insieme tutto questo? È possibile credere e curare? Ignazio R. Marino, da medico e da credente, si interroga sui limiti di una professione in piena crisi d'identità. Stretta tra il dominio della tecnologia e la rigidità delle regole di mercato, tra la perdita di umanità nel rapporto con i pazienti e il peso dei grandi temi bioetici. Come reagisce chi ha scelto di fare il medico per conoscere le malattie ma soprattutto per volontà di impegno a favore del prossimo? La fede può avere un ruolo e contribuire ad una svolta? Quale futuro attende i medici di domani?

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858402573

III.

Etica e medicina: alla ricerca
di terreni comuni tra laici e credenti

Ogni giorno il medico nell’esercizio della sua professione si confronta con scelte che avranno conseguenze irreversibili sulla vita di altre persone: i pazienti in primo luogo, ma anche i familiari che molte volte si trovano ad affrontare situazioni di grande sofferenza fisica e psicologica nel difficile compito di assistere un parente malato. A volte queste scelte porteranno a salvare una vita, alla guarigione, alla salute, altre volte avranno come unico risultato il prolungamento di una condizione di malattia e di sofferenza, altre ancora quelle scelte non serviranno a nulla perché, nonostante gli sforzi per allontanare il momento della separazione, quella vita è arrivata al suo termine.
Queste scelte vengono fatte dai medici sulla base delle capacità, delle conoscenze, dell’esperienza. Ma non si tratta di decisioni meramente tecniche, spesso entra in gioco la coscienza di ognuno, la correttezza professionale, gli interrogativi etici, a volte semplicemente il buon senso e il coraggio di applicarlo. E nel momento in cui il medico non si confronta esclusivamente con le proprie convinzioni e con l’evidenza scientifica ma anche con la propria fede, la situazione si complica.
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Di fronte alle ricerche e alle scoperte che hanno rivoluzionato la posizione dell’uomo nei confronti della natura, della vita e della morte, la valutazione della condotta di medici e scienziati diventa sempre piú necessaria. Non si possono ignorare gli innumerevoli quesiti morali che emergono dall’inarrestabile progresso scientifico e la riflessione bioetica dovrebbe procedere secondo un approccio multidisciplinare. Un concreto contributo agli interrogativi posti dalla ricerca biomedica può derivare dal confronto fra studiosi di diversa formazione: medici, teologi, giuristi, psicologi, politici. Nella pratica clinica, però, le decisioni finali spettano al medico, è lui che risponde sempre, e prima di tutto, ai pazienti e alla propria coscienza. Sono proprio i dubbi e gli interrogativi che accompagnano le azioni di un medico credente a condurlo verso comportamenti non scontati, talvolta difficili da comprendere.
Una vicenda significativa che molti ricorderanno per il grande e intrusivo interesse dei mass media, riguarda la storia di due gemelline siamesi di tre mesi, Marta e Milagro, trasportate dal Perú fino a Palermo nel maggio del 2000 per tentare l’intervento di separazione. Le due sorelline erano arrivate in ospedale entrambe vigili e cerebralmente intatte, ma con un solo cuore e un solo fegato, condizione che faceva ipotizzare la separazione ma con la possibilità di sopravvivenza soltanto per una delle due bambine attraverso l’uso di tessuto cardiaco ed epatico dell’altra. Una sorta di donazione senza il consenso del donatore che implicava il sacrificio, la morte, di una delle due gemelline, se si voleva tentare di salvare una di quelle sfortunate vite. Televisioni e giornalisti si erano morbosamente appassionati alla storia e, sempre piú numerosi e insistenti, si preparavano davanti al reparto dove erano ricoverate le piccole pazienti, a montare telecamere, srotolare cavi, provare microfoni e parcheggiare i camion regia per la messa in onda di un reality show appassionante e commovente, di sicuro successo. All’interno dell’ospedale il clima era piú simile a quello per l’organizzazione di un grande evento mediatico piuttosto che di un intervento chirurgico estremo che avrebbe, nella migliore delle ipotesi, portato alla morte di Milagro per la salvezza della sorella Marta. Si cercava di costituire un’équipe in grado di occuparsi di tutte le fasi dell’operazione, si chiedevano in prestito alle aziende produttrici le apparecchiature tecnologiche necessarie ma non in dotazione al reparto, si compravano piante e mobili nuovi perché non entrasse nell’obiettivo delle telecamere la povertà e l’inadeguatezza del reparto di quell’ospedale palermitano.
La tensione cresceva e venne chiesto il mio parere per la separazione del fegato condiviso dalle gemelline. Entrai in crisi. Ragionavo con me stesso e interrogavo le persone con cui ero solito consigliarmi, per capire se quello che poteva essere tecnicamente possibile fosse anche eticamente lecito. L’intervento chirurgico, al di là degli aspetti tecnici, poneva infatti un importante quesito di bioetica: era lecito condurre in sala operatoria due bambine con attività cerebrale integra, dopo averle viste entrambe stringere le dita della mamma, prendere il latte, e avendo scelto a tavolino che Milagro doveva essere uccisa per prelevare gli organi necessari alla sopravvivenza di Marta? Dopo un lungo e profondo colloquio con il mio confidente di sempre, il Cardinale Salvatore Pappalardo, arrivai alla conclusione che la risposta era in un fermo no. Tuttavia in quella particolare circostanza, anche per il dibattito pubblico sollevato dai media e il parere positivo del comitato etico dell’ospedale, si decise che l’intervento era lecito e si sarebbe fatto.
La vicenda si concluse con la morte di entrambe le bambine durante l’intervento, ma il triste epilogo appare irrilevante nella valutazione etica e nella scelta di coscienza che motivò la mia personale decisione di non partecipare né alla preparazione, né all’intervento stesso. Il quesito rimane tuttora aperto: è accettabile sacrificare una vita per salvarne un’altra?
Può sembrare scontato rispondere che di fronte all’obbligo della scelta è comunque auspicabile propendere per il male minore. Ma non è altrettanto facile quando in sala operatoria ci sei tu, con le tue mani che guidano il bisturi e che materialmente, a mente lucida e fredda, decidi di uccidere una persona. Non è per porre fine a una vita in sala operatoria che un chirurgo studia e lavora.
L’episodio appena ricordato ci porta al centro del problema ovvero come un medico credente riesca (o non riesca) a conciliare il proprio ruolo professionale con la propria fede. L’unico modo a mio avviso accettabile è quello di interrogare sempre e prima di tutto la propria coscienza.
Negli anni Settanta, noi giovani studenti di medicina all’Università Cattolica di Roma ascoltavamo dai medici piú anziani i racconti drammatici di donne che arrivavano al pronto soccorso con gravi emorragie in seguito a un aborto provocato dalle mammane o addirittura da sole con aghi da calza o altri arnesi tanto inefficaci quanto pericolosi. Erano poi note a tutti, medici e pazienti, le cliniche dove, nonostante fosse vietato dalla legge, l’aborto veniva eseguito regolarmente in tutta tranquillità e sicurezza a patto di pagare cifre considerevoli per la procedura e la discrezione. Infine, ognuno di noi aveva conosciuto qualche ragazza che non avendo problemi di tipo economico aveva scelto di andare ad abortire a Londra dove l’interruzione di gravidanza era legale da anni. Di fronte a situazioni cosí diverse, per i giovani medici della Cattolica non era facile prendere una posizione chiara e netta. Se era da condividere l’idea di fornire un supporto alle donne in difficoltà, come facevano in quegli anni i medici volontari dell’aied (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica), restava forte il disagio nell’accettare la soppressione di una vita.
Al Policlinico Gemelli, dove trascorrevo molte notti di guardia al pronto soccorso, era raro dover assistere delle donne che avevano abortito, probabilmente perché preferivano rivolgersi a strutture ospedaliere laiche per non dover sopportare oltre al dolore e al pericolo per la salute, anche il rimprovero morale legato all’interruzione della gravidanza. Il problema però era ben presente a tutti ed era necessario trovare una via d’uscita per porre rimedio a una situazione confusa, dove l’illegalità era nota e tollerata (addirittura arricchiva alcuni medici spregiudicati) mentre non esisteva alcuna forma di garanzia per le donne.
Nel 1978, a conclusione di una sofferta discussione parlamentare, venne approvata una legge che abrogava le sanzioni penali sull’interruzione di gravidanza e riconosceva alle donne il diritto di abortire nelle strutture sanitarie pubbliche nei casi in cui la maternità comportasse un pericolo per la salute fisica o psichica della madre, o in presenza di anomalie o malformazioni del nascituro. Ai medici veniva riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza. Una legge di compromesso era riuscita, pur tra mille difficoltà e dilemmi etici, a tutelare i diritti delle donne e allo stesso tempo quelli dei medici credenti che non avrebbero mai accettato di dover rispettare per legge una pratica che non condividevano per motivi religiosi e di coscienza.
Per capire la posizione di un medico obiettore non occorre fare ricorso a sofisticati ragionamenti di principio e di legittimità, basta lo sforzo di mettersi nei suoi panni. Come nel caso citato delle gemelline siamesi, può essere d’aiuto provare a immaginare i pensieri di un medico che si trova a esercitare il proprio mestiere non per salvare una vita ma per distruggerla, interrompendo una gravidanza attraverso l’eliminazione dell’embrione. Le convinzioni sulla sacralità della vita esercitano un ruolo non indifferente nella scelta dell’obiezione ma, prima ancora che le indicazioni etiche e morali, pesa la coscienza personale del medico.
L’aborto, da qualunque punto di vista lo si voglia guardare, è la storia di un fallimento e le donne che vi sono sottoposte, per scelta o per necessità, sono in grado di comprendere meglio di chiunque altro il motivo per cui un medico possa decidere di non praticarlo.
Restano i dubbi sui casi estremi, ovvero le situazioni in cui sia messa in pericolo la vita della madre, oppure i casi di donne vittime di violenza o ancora di ragazzine troppo giovani (nella società americana non sono del tutto infrequenti le gravidanze a soli undici anni di vita) che non sarebbero in grado di affrontare il peso fisico e psicologico di una gravidanza e di un bambino da crescere.
La Chiesa cattolica in situazioni di questa complessità fa riferimento a ciò che definisce come la «conscientia perplexa», quella condizione in cui l’uomo talvolta si trova ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione. In questi casi sarà lecito scegliere la soluzione che appare come la piú ragionevole e appropriata, anche a costo di sacrificare la vita che sta crescendo nel grembo materno per salvare la madre. Si tratta di scelte estreme condotte nel sacro luogo della coscienza e che devono essere rispettate. In altre parole, di fronte alla violenza su una donna non è possibile affermare che non debba essere prevenuta la gravidanza e che questa preoccupazione non debba essere presente in chi la assiste.
Sono temi cosí complessi da lasciarci disorientati come gli interrogativi sull’inizio della vita e su che cosa sia vita.
Ancora oggi, laici e credenti discutono sulla natura dell’embrione umano, se e quando possa considerarsi una vita, se debba essere trattato come un essere vivente già nato, se gli spettino dei diritti e via di seguito. Ma al contrario di molti anni fa quando ci si interrogava sulla possibilità di eliminare un embrione, ora si dibatte su quale sia il modo lecito per creare una nuova vita ricorrendo alla fecondazione medicalmente assistita.
La sacralità della vita è uno dei capisaldi della religione cattolica e di molte altre religioni e filosofie. Per questo è naturale che la Chiesa si sia sempre mostrata molto attenta nell’affrontare le tematiche che riguardano l’origine e la fine della vita. L’atteggiamento prudenziale secondo cui l’embrione debba essere trattato come persona umana, dato che nel momento in cui l’ovulo è fecondato si inaugura una nuova vita, risale già a una dichiarazione della Chiesa del 1974, ripresa poi in un’istruzione del 1987 firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, Donum vitae, seguita nel 1995 dall’enciclica di papa Giovanni Paolo II Evangelium Vitae.
Sulla base di questi due documenti fondamentali, la posizione della Chiesa cattolica appare molto severa su tutto quello che riguarda la procreazione, comprese le tecniche di fecondazione assistita, come si è visto ampiamente anche durante il dibattito che ha portato all’elaborazione della tanto discussa legge 40 del febbraio 2004. La stessa severa rigidità è stata praticata anche in occasione della campagna per il referendum abrogativo di quella legge, del giugno 2005, durante la quale le gerarchie ecclesiastiche hanno indicato la strada dell’astensione al voto da parte dei cattolici, contribuendo cosí al fallimento della consultazione popolare.
In realtà, al di là della dottrina ufficiale, molti cattolici pensano che non sia importante se il concepimento avvenga nell’utero della donna oppure in una provetta. Quello che conta è che si tratti del frutto dell’amore di una coppia e del desiderio di costruire una famiglia nel senso tradizionale del termine. E d’altra parte negare la validità della fecondazione assistita andrebbe nella direzione opposta al senso profondo di legame alla vita e alla famiglia.
La posizione ufficiale assunta dalle gerarchie ecclesiastiche si è scontrata duramente con il mondo laico e con una nutrita rappresentanza di scienziati, favorevoli a forme meno vincolanti di procreazione assistita. In mezzo allo scontro molti medici e scienziati credenti, favorevoli al progresso della medicina ma cauti rispetto alle conseguenze che un’eccessiva liberalizzazione potrebbe comportare in termini di rischio di manipolazione della vita umana. Purtroppo, tranne rare eccezioni, non è stato facile trovare lo spazio per elaborare ragionamenti e fissare i margini per un percorso eticamente condivisibile da tutti. Un percorso che esiste, se solo si provasse ad abbandonare atteggiamenti aggressivi o difensivi per discutere da pari a pari, senza pretendere di essere i depositari della verità.
Rispetto a quanto previsto dall’attuale legge italiana sulla fecondazione artificiale, la scienza potrebbe infatti suggerire delle alternative largamente condivisibili, che tengano nella piú alta considerazione la sacralità della vita. Oggi esistono delle tecniche sofisticate che prevedono il congelamento non dell’embrione ma dell’ovocita allo stadio dei due pronuclei, cioè nel momento in cui i due corredi cromosomici, quello femminile e quello maschile, sono separati e non esiste ancora un nuovo Dna. In questa fase non è possibile sapere che strada prenderanno le cellule nel momento in cui inizieranno a riprodursi, potrebbero dare origine a un bambino come a due gemelli monozigoti. Non c’è l’embrione, non c’è un nuovo individuo e, immagino, non ci sia nemmeno un’anima. Sono cellule che potrebbero essere conservate senza sollevare interrogativi etici. Ci troviamo di fronte a una situazione molto complessa e sarebbe il momento di prendere in considerazione le opzioni ragionevoli che la scienza propone.
Proprio su questo argomento si troverebbe forse un accordo se si aprisse un dialogo costruttivo tra scienza e religione. Tutti, infatti, ammettono che in passato è stato fatto un errore nel creare decine di migliaia di embrioni umani che ora esistono e attendono solo di spegnersi nel freddo nei frigoriferi delle cliniche per l’infertilità. La loro fine è certa, ma è meglio lasciarli morire oppure utilizzare le loro preziose cellule per scopi di ricerca? Per chi è cattolico si tratta di vite e come tali non possono essere soppresse, ma può darsi che la scienza, ancora una volta, ci possa venire in aiuto. Si potrebbe forse individuare il momento in cui un embrione perde la capacità di moltiplicare le sue cellule, cioè la possibilità riproduttiva, e non può piú essere utilizzato per dare origine a una vita. A quel punto, con un meccanismo simile a quello previsto per la donazione degli organi di un paziente in morte cerebrale, gli embrioni potrebbero essere donati ai laboratori di ricerca.
Si potrebbe pensare di elaborare, su basi scientifiche, la definizione di «morte riproduttiva» cosí come è stato fatto con il concetto di «morte cerebrale». Nel 1968 ad Harvard un gruppo di studiosi stabilí che la fine della vita avviene nel momento in cui si assiste alla totale cessazione dell’attività encefalica. Questa definizione, oggi universalmente riconosciuta, ha permesso lo sviluppo della chirurgia dei trapianti ma prima di quel momento il prelievo degli organi da un paziente a cuore battente era considerato un reato.
Allo stesso modo, se arriveremo a definire scientificamente il momento della fine della capacità riproduttiva degli embrioni già congelati da anni, si potranno utilizzare le loro cellule staminali a scopo di ricerca, con protocolli rigorosi e controllati dalle istituzioni. Va comunque sottolineato che oggi nessuno è in grado di assicurare che la ricerca sulle terapie con le staminali estratte attraverso la distruzione di un embrione avrà l’impatto rivoluzionario auspicato. Per questo è necessario che anche gli uomini di scienza agiscano con prudenza: è inutile e immorale promettere ai cittadini certezze che, al momento, sono soltanto supposizioni.
Se assisteremo a guarigioni straordinarie dovremo affrontare un problema etico di portata epocale; in caso contrario sapremo che invece di fare annunci sensazionali gli scienziati avranno ancora molto lavoro da svolgere nel silenzio dei loro laboratori.
Non so se questa è una strada percorribile e non pretendo di dare una risposta sicura, ma credo che sarebbe nell’interesse di tutti dialogare sulla vita piuttosto che alzare barricate.
Da medico e da uomo di scienza, sinceramente non posso negare il fascino delle prospettive legate alla ricerca sulle cellule staminali. Le applicazioni cliniche sono ancora molto limitate ma le potenzialità sono evidenti e sarebbe da oscurantisti negare che la ricerca in questo settore debba essere sostenuta, potenziata e finanziata. Nel fare il mio lavoro, tante volte ho affermato che verrà il giorno in cui la chirurgia dei trapianti, cosí cruenta e meccanica nel sostituire organi irrimediabilmente malati con nuovi «pezzi di ricambio», sarà ricordata con un sorriso, come facciamo oggi pensando a quando per curare un’ulcera gastrica si toglieva lo stomaco o per una colica biliare si faceva una lunga incisione sull’addome per portar via la colecisti. Oggi nessuna ulcera richiede l’intervento del chirurgo e la colecisti la si asporta in laparoscopia con un ricovero in ospedale di poche ore. Cosí sarà anche per i trapianti. Le malattie che danneggiano in modo irreversibile il cuore, il rene oppure il fegato saranno prevenute (per esempio le epatiti grazie ai vaccini), oppure le cellule danneggiate saranno riparate con l’infusione di cellule sane. Forse saranno proprio le cell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. I. Sciamani, scienziati, impiegati di aziende-ospedali
  6. II. Il mestiere del medico, tra missione e disincanto
  7. III. Etica e medicina: alla ricerca di terreni comuni tra laici e credenti
  8. IV. Una missione in crisi d’identità
  9. V. Vie di fuga e nuovi percorsi
  10. Nota bibliografica
  11. Glossario dei termini medici