A cosa serve Michelangelo?
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A cosa serve Michelangelo?

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A cosa serve Michelangelo?

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C'è un'idea - di casa persino al ministero dei Beni culturali italiano in questi anni - secondo cui l'Italia potrebbe diventare una grande «Disneyland culturale»: ma è davvero a questo che serve il tessuto artistico e paesaggistico che abbiamo ereditato e che stiamo rovinando?
Per rispondere, si può partire dalla storia di un crocifisso attribuito a Michelangelo e acquistato dal governo Berlusconi per piú di tre milioni di euro: raccontarla significa parlare del potere del mercato, dell'inadeguatezza degli storici dell'arte, della cinica manipolazione dei politici e delle gerarchie ecclesiastiche, del perverso sistema delle mostre, del miope opportunismo dell'università e della complice superficialità dei mezzi di comunicazione.
Il degrado del ruolo della storia dell'arte nel discorso pubblico accompagna la metamorfosi del ruolo del patrimonio storico e artistico: da gratuito strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, a parco dei divertimenti a pagamento.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
ISBN
9788858404577
Argomento
Art
Categoria
Art General

IV.

Le mostre

Nel 1101 il villaggio di Corbeny subí spaventose catastrofi … I monaci … si trovarono ridotti alla vera miseria. Il loro priore … si preoccupò di supplire con elemosine alle entrate ordinarie della casa; pensò di organizzare una tournée di reliquie: i religiosi, portandosi a spalle il reliquiario del loro patrono, percorsero la regione di Reims, il Laonnois, la Piccardia; dappertutto avvenivano miracoli.
MARC BLOCH1
Nonostante che il «Michelangelo» sia stato presentato fin dall’inizio con l’enfasi retorica del «pezzo da museo», esso nasce in realtà come il primo individuo di una specie nuova: quella dei «pezzi da mostra».
Lo dimostrano le lettere con le quali, nell’estate 2007, l’antiquario Giancarlo Gallino e la funzionaria dello Stato Cristina Acidini proposero al ministro Rutelli di acquistare l’opera.
Gallino e sua moglie concludevano la loro missiva del 5 luglio con queste parole:
Oltre al valore artistico intrinseco del Cristo crocifisso ligneo, ci permettiamo di suggerire la considerazione di un ulteriore fattore positivo. Come l’esperienza in Giappone ha dimostrato, infatti, l’opera – per le sue dimensioni contenute, per la sua solidità strutturale e per la sua stabilità superficiale – è in grado di compiere viaggi internazionali a scopi espositivi. Potrebbe dunque entrare utilmente nell’organizzazione di mostre di capolavori italiani in paesi esteri, dove spesso la presenza di opere di sommi maestri, quali appunto Michelangelo, viene richiesta mettendo anche duramente alla prova le possibilità di prestito del sistema museale italiano. Pensiamo insomma che il Cristo crocifisso, una volta acquisito dallo Stato, possa rappresentare nelle mostre che il mondo chiede all’Italia (e sempre piú chiederà) un «ambasciatore» di eccellenza2.
Venti giorni piú tardi, partiva la lettera di Cristina Acidini. Dopo aver ampiamente citato la propria recente monografia michelangiolesca, e dopo aver tranquillizzato il ministro sul fatto che la proposta della Lisner in favore di Andrea Sansovino era «stata accantonata senza commenti da parte della critica»3 (cosí applicando il principio del “silenzio-dissenso”: esattamente l’inverso di quello invocato quando si trattava di sostenere la teoria della tacita accettazione del «Michelangelo»), la soprintendente si congedava con le seguenti considerazioni:
Le dimensioni della scultura, nonché la sua stabilità strutturale renderebbero inoltre possibile che, come già nel recente passato, vi si facesse ricorso nelle occasioni e – non sono poche – in cui sia necessario inserire un’opera di Michelangelo in una mostra all’estero. Alle aspettative di Paesi che in numero sempre maggiore desiderano ospitare capolavori del nostro Rinascimento (oltre agli Usa e al Giappone, si affacciano allo scenario dei grandi organizzatori di mostre altri paesi dell’Estremo Oriente e del Sud America), sarebbe possibile corrispondere con il prestito di quest’opera, alleggerendo cosí la «pressione» delle richieste su altri capolavori, di piú complessa movimentazione4.
Oltre alla stupefacente sovrapponibilità delle due affermazioni (un dato curioso, se si pensa alla terzietà e indipendenza che dovrebbero separare il funzionario dal mercante), ciò che colpisce è il merito delle argomentazioni. Esso affiora, piú sfumato, anche nella lettera di Paolucci a Rutelli del 6 agosto successivo (il Cristo «potrebbe giocare un ruolo importante nelle politiche espositive della nostra Amministrazione»5), e infine si svela senza pudore nella prefazione di Roberto Cecchi al catalogo della mostra di Montecitorio: «[la scultura] può essere facilmente trasportata, senza dare tutti quei problemi di conservazione che altre opere pongono. Questo significa che è molto piú facile esporla, è molto piú agevole far sí che sia apprezzata da vicino anche da chi generalmente non ha queste possibilità»6.
Il fatto che una soprintendente, un ex ministro e un direttore generale dei Beni culturali concordino in pieno con un antiquario sul fatto che uno dei pregi principali di un nuovo Michelangelo sia la sua perfetta esponibilità nelle mostre blockbuster in giro per il mondo mi pare il segnale di un’avvenuta mutazione culturale. Non solo il sistema delle mostre condiziona sempre di piú la conservazione, la percezione, la valutazione critica delle opere, ma arriva addirittura a gettare la sua ombra sulla politica degli acquisti pubblici: con una perversa chiusura del cerchio si risale alla “produzione”, creando dal nulla un’opera “da mostra”, e anzi istituendo la categoria del «capolavoro italiano da mostra all’estero».
E non è un caso che questa saldatura sia avvenuta proprio a Firenze. Già nel 2000 Antonio Paolucci aveva orgogliosamente ammesso di essere il «movimentatore massimo», in quanto capo del «sistema dei musei fiorentini: la piú vasta riserva, in Europa, di opere d’arte mobili»7.
La lettera di Cristina Acidini mi pare tanto piú eloquente in quanto non è un testo per la stampa, o uno scritto pubblico d’occasione, ma la comunicazione interna tra un funzionario e il suo ministro. Colpisce che anche in quell’ambito – che si immaginerebbe ancorato ai valori autentici della tutela e della conoscenza – siano invalse categorie mass-mediatiche come quella dei «capolavori». E, soprattutto, colpisce che si dia per scontata l’ineluttabilità dei prestiti a mostre che nulla hanno di serio e di scientifico: si trova del tutto pacifico inserire «un Michelangelo in una mostra all’estero», cosí come è ovvio includere la colatura di Cetara o la robiola di Roccaverano in una rassegna della gastronomia italiana.
E siccome smuovere il David appare ancora complicato, l’unica preoccupazione dell’amministrazione dei Beni culturali è poter disporre di un Michelangelo tanto piccolo e resistente da poterlo “movimentare” senza troppi problemi. Un ragionamento che non solo tradisce un irreversibile annichilimento culturale, ma che non funziona nemmeno dal punto di vista operativo, come dimostra l’epilogo tragicomico che ha visto il solidissimo Cristo uscire danneggiato da tredici mesi di ininterrotta esibizione itinerante.
In attesa delle mirabolanti missioni all’estero in qualità di «ambasciatore di eccellenza», infatti, il legnetto ha sfilato indefessamente per le strade della patria, raccogliendo il plauso e l’omaggio di Roma, Trapani, Palermo, Milano e Napoli. E lo ha fatto in rigorosa solitudine, come una vera star, senza nemmeno piú l’impaccio degli altri due poveri cristi che facevano da comparse al Museo Horne. Se la mostra del 2004 si può definire commerciale, queste del 2009 sono a tutti gli effetti mostre di propaganda. E lo sono a cominciare dal titolo. Sono bastati cinque anni di silenzio critico per trasformarlo da Proposta per Michelangelo giovane. Un Crocifisso in legno di tiglio in: Michelangelo giovane. Il Crocifisso ritrovato (Roma), o Michelangelo. Il Cristo ritrovato (Napoli). E se certo la manipolazione piú evidente è la scomparsa di ogni attenuazione dubitativa circa il nome dell’autore, non meno insidiosa appare la mutazione della seconda parte della frase, dove l’articolo determinativo «il» e l’arbitraria apposizione della parola «ritrovato» inducono il pubblico a credere che finalmente sia tornata alla luce una certa opera menzionata dalle fonti o dai documenti, e ora sicuramente identificabile con quella esposta. Il che, naturalmente, non è.
Per il grande pubblico il titolo bastava e avanzava: Michelangelo, senza se e senza ma, con lo stesso meccanismo che spara nel titolo di una mostra su due i nomi di Caravaggio, Leonardo, Van Gogh, o l’etichetta taumaturgica degli Impressionisti. Ma il marketing non ha voluto trascurare un grado piú raffinato di persuasione, quello diretto al pubblico che acquista e sfoglia i cataloghi. Nel libretto stampato per Montecitorio, infatti, all’impaginato della versione fiorentina di cinque anni prima sono state aggiunte non solo le trionfalistiche prefazioni istituzionali, ma anche una preziosa Antologia critica, che, secondo una consolidata prassi editoriale, raccoglie i piú importanti giudizi formulati sull’opera8. Bisogna riconoscere che si tratta, a sua volta, di un pezzo da antologia. I sedici brani sono cosí composti: sette sono degli stessi autori del catalogo Horne (e tre sono anzi tratti proprio da lí, e dunque il lettore se li ritrova identici poche pagine prima, giacché il catalogo romano ristampa integralmente i saggi fiorentini); due si devono ai partecipanti alla conferenza stampa “paravaticana”; uno è il fantomatico giudizio di Federico Zeri; un altro è il passo di una perizia commissionata dall’antiquario Gallino; un altro ancora è un testo della funzionaria che ha proposto l’acquisto; e tre sono tratti da articoli giornalistici rispettivamente di un cultore di arte sacra, di uno storico dell’architettura e di un’altra storica dell’arte della Soprintendenza di Firenze. Apre degnamente questa brillante carrellata un brano della biografia michelangiolesca di Ascanio Condivi (1553): «Ha fatto Michelangelo infinite altre cose che da me dette non sono … e molte altre cose, le quali non si veggiono e saria lungo scriverle» (e non c’è bisogno di sottolineare che un testo del genere potrebbe sostenere l’attribuzione al Buonarroti di un qualunque manufatto databile nell’arco della sua vita). Va da sé che della famosa recensione negativa della Lisner l’eletta antologia non reca traccia alcuna.
C’era un’alternativa a questo drammatico sfascio intellettuale?
Certo che c’era. Visto che ormai l’opera apparteneva allo Stato, e che lo Stato dovrebbe promuovere la ricerca e la conoscenza, era lecito aspettarsi che le evidenti connotazioni promozionali della mostra e del catalogo Horne del 2004 venissero corrette in direzione di una vera obiettività scientifica. In primo luogo, il ministero avrebbe dovuto riunire, accanto al «Michelangelo», gli ormai numerosi Cristi cugini o fratelli che a Firenze non si erano visti. Invece, tutto il contrario: dal catalogo di Montecitorio venne addirittura espunta la terza appendice del 2004, quella che dava conto dei nessi con la «famiglia dei crocifissi fiorentini». Non si potrebbe immaginare una peggiore involuzione propagandistica e antiscientifica: la promozione a capolavoro “assoluto” aveva letteralmente sciolto il Cristo ex Gallino da ogni legame formale, stilistico o storico.
In secondo luogo, lo stesso ministero avrebbe potuto favorire una nuova stagione di ricerca sull’opera. Non è, infatti, deprimente, e addirittura patetico, che, presentando trionfalmente un nuovo Michelangelo che si dice accettato da tutti, non si sia trovato niente di meglio che ristampare il catalogo di cinque anni prima? Possibile che nessuno, nel mondo, abbia avuto niente da aggiungere, e che gli studiosi fossero sempre quelli della mostra Horne? Di piú: il ministero (che non dovrebbe essere, e nemmeno sentirsi, di parte) avrebbe potuto invitare anche gli specialisti non persuasi dell’attribuzione, dando vita a un confronto leale e trasparente. In tal modo Bondi, Cecchi e Acidini avrebbero dimostrato di essere interessati solo al progresso scientifico. Una mostra intitolata semplicemente Michelangelo? avrebbe potuto avere un notevole successo, ma soprattutto avrebbe potuto ingenerare il sano dubbio che, oltre al rapporto superficialmente estatico con l’Arte, possa esistere anche un rapporto storicizzato e critico con le singole opere d’arte. Insomma, il pubblico avrebbe potuto perfino imparare qualcosa.
Ma proprio qui sta il punto.
Se a nessuno è venuta in mente una simile idea, non è solo perché i vertici del ministero volevano fortissimamente accreditare e celebrare il loro «capolavoro», ma è anche perché quasi nessuno pensa ormai alle mostre in termini di educazione, istruzione, ricerca o crescita culturale.
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Sul fenomeno delle mostre d’arte antica regna, in effetti, un colossale, ipocrita equivoco. Esse vengono tutte considerate manifestazioni di alta cultura e dunque lautamente finanziate da enti pubblici e privati, insignite di illustri patrocini istituzionali (spesso addirittura di quello della Presidenza della Repubblica), immancabilmente lodate nelle terze pagine. Questa adesione indiscriminata poteva forse avere un senso fino agli anni Settanta, ma oggi il vastissimo e complesso sistema delle mostre racchiude davvero di tutto. Il parallelo piú calzante è quello con il cinema: chi si sognerebbe di considerare “cultura” tutto il cinema, non distinguendo Kubrick o Almodóvar dal cinepanettone annuale, dai porno, o piú banalmente dall’enorme produzione di cassetta? La stessa cosa vale per le mostre: accanto alle poche scientifiche– frutto di anni di ricerca, e importanti come un buon libro: anzi, finché durano, anche piú efficaci –, c’è la diluviale produzione di intrattenimento, che si distende su una articolatissima scala di qualità, giú giú fino alla vera e propria pornografia espositiva. E le mostre che hanno portato il «Michelangelo» in giro per l’Italia appartengono ad alcune fra le specie piú inquietanti di questa giungla lussureggiante.
In tempi di crisi economica e di selvaggio sfruttamento dell’eredità culturale, si capisce che abbia grande successo un format che, grazie al basso costo e alle folle che richiama, garantisce cospicui ritorni non solo di immagine: alludo all’ostensione (itinerante o stanziale) di un singolo capolavoro. Abbiamo detto dell’esibizione del David di Donatello alla Fiera di Milano, ma – giusto per rimanere ai mostri sacri del Rinascimento – si potrebbero ricordare quelle del San Giovanni Battista di Leonardo del Louvre (esibito a Milano nell’autunno 2009), della Velata di Raffaello (che ha trascorso la prima metà del 2010 facendo la spola, in camion, nella provincia americana profonda) e, appunto, quella del nostro «Michelangelo». Le matrici di questi «eventi» sono diverse: se il tour del Leonardo è un evento puramente commerciale, e quelli del Donatello e del Michelangelo hanno una precisa connotazione di propaganda politica, il viaggio del Raffaello di Palazzo Pitti appartiene a un filone ancora piú carico di rischi.
La Velata è stata esposta prima a Portland (Oregon), poi a Reno (Nevada) e quindi all’Art Museum di Milwaukee (Wisconsin). Non si è trattato solo di una forma di esportazione filantropica basata sull’assunto (ovviamente falso) che l’ostensione di un’opera celeberrima di uno dei dieci artisti noti anche agli analfabeti “produca” educazione e cultura, ma di una vera e propria operazione di marketing. L’idea è che la «circuitazione di opere-icona» (eloquentissima perla di burocratese che dà il titolo a uno dei punti del Piano di comunicazione 2010 della Direzione generale per la valorizzazione) possa sostenere le esportazioni del made in Italy o promuovere il turismo in Italia: Raffaello come testimonial della pasta, o di Firenze. Nell’estate del 2010 una martellante campagna di stampa ha esaltato proprio questo aspetto delle tournées internazionali di singoli capolavori del passato. Ispirata da Mario Resca, tale campagna è stata alimentata soprattutto dal «Giornale», ma è stata supportata anche da “esperti” come Philippe Daverio9, e da figure istituzionali come Andrea Carandini10, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali dopo la cacciata di Settis. Il caposaldo di quella che potremmo definire la «dottrina Resca del moto perpetuo del capolavoro» è che le opere devono viaggiare perché ciò porterebbe «all’Italia pubblicità e soldi»11. Ora, se c’è una petizione di principio davvero ideologica è questa: nessuno è infatti in grado di spiegare con argomenti razionali (per non dire con qualche cifra) perché e in quali modi una simile, squallida esibizione dei gioielli di famiglia sarebbe utile alla patria. Spedire in giro per il mondo i capolavori del passato come venditori porta a porta dell’Italia del presente è l’ultima trovata di una classe politica che, invece di provare a costruire il futuro, sa solo proporre al Paese una (stentata) vita di rendita. Ed è inoltre un ottimo pretesto per non affrontare i veri e gravi problemi dello sviluppo turistico: per un governo che voglia occuparsi del turismo in Calabria è certo piú facile impacchettare i Bronzi di Riace che non affrontare il nodo della Salerno-Reggio, o fermare l’inarrestabile colata di cemento che devasta le coste del Mezzogiorno. Chi può davvero credere che il turismo nell’Italia del Sud stenti a decollare per insufficienza di pubblicità, e non piuttosto perché le sue infrastrutture e il suo sistema di accoglienza sono spesso assai lontani dagli standards occidentali? O c’è davvero chi pensa che se, poniamo, un canadese vedesse le due statue a Toronto, il giorno dopo correrebbe a comprare un biglietto per la Calabria? E non è certo un problema legato alla situazione meridionale: l’idea che la funzione fondamentale (o unica) del patrimonio artistico sia quella di alimentare (non importa come) il turismo sembra invece essere diventata una delle poche costanti dell’identità italiana, dal Veneto alla Sicilia. Niente di sostanzialmente diverso è, per esempio, emerso da Florens (la prima edizione della Settimana internazionale dei beni culturali e ambientali, organizzata a Firenze nel novembre 2010 dalla Confindustria locale), che aveva come missione «promuovere un nuovo modello per la valorizzazione del patrimonio culturale», e che ha invece consacrato il modello piú vulgato, risolvendosi essa stessa in una pomposa kermesse punteggiata da eventi di dubbio gusto, come la collocazione di un prato effimero in Piazza del Duomo, o il tour cittadino di una imbarazzante versione in vetroresina dell’immancabile David di Michelangelo.
Di fronte a tutto questo viene da chiedersi quale oscura decadenza intellettuale spinga l’Italia a cercare di costruire il proprio futuro cannibalizzando le reliquie (letteralmente «ciò che resta») di un glorioso passato. Proprio come nella storia dei Re taumaturghi di Marc Bloch che fa da epigrafe a questo capitolo, una comunità in profonda crisi economica cerca di garantirsi la sopravvivenza sfruttando gli oggetti sacri indissolubilmente legati alla propria identità: ecco come nascono le attuali tournées dei nostri «capolavor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Premessa
  5. A cosa serve Michelangelo?
  6. La storia del Cristo «di Michelangelo»
  7. Gli storici dell’arte
  8. Il potere
  9. Le mostre
  10. I giornali
  11. L’università
  12. Una via d’uscita?