Vivere la musica
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Vivere la musica

Un racconto autobiografico

  1. 248 pagine
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Vivere la musica

Un racconto autobiografico

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Il racconto di una vita di eccezione: la musica come educazione sentimentale.
Compositore prolifico e versatile, pianista e musicologo, uomo di profonda e vasta cultura, Roman Vlad per la prima volta apre lo scrigno della sua memoria per restituirci le vicende della sua lunga e avventurosa esistenza che abbraccia quasi un secolo della nostra Storia: i fatti, gli affetti, gli eventi, gli incontri - da Alfredo Casella a Igor Stravinskij a Riccardo Muti -, ma anche l'estenuante fatica che precede ogni sua felice ispirazione. Pagina dopo pagina, dall'infanzia in Romania agli studi nella Roma fascista, ai grandi successi ottenuti in tutto il mondo, Vlad riordina, con sapienza e ironia, gli infiniti ricordi della sua vita piena, interamente dedicata al miracolo della musica, e ci regala un vivido spaccato del Novecento culturale. «Sono immerso nella musica da quando ho memoria di me.
I miei primi ricordi musicali risalgono alla primissima infanzia, quando vivevo a Vascauti con i miei genitori nella grande casa di campagna di proprieta dei nonni materni. Vascauti, o Waschkoutz in tedesco, era un piccolo centro a circa 40 km da Czernowitz, antica capitale del ducato di Bucovina, dove sono nato il 29 dicembre 1919. In casa si faceva e si ascoltava molta musica; mio padre, magistrato, amava moltissimo l'opera lirica italiana, specie l' Aida. Avevamo il pianoforte, il grammofono e tanti dischi. Certo, non c'era la radio e tanto meno la televisione, si era ai primi anni del 1900!
Mia madre, come tutte le ragazze della buona società di una volta, aveva ricevuto un'educazione adeguata, suonava il pianoforte, era bella e vivacissima e mi aveva insegnato a nuotare, a giocare a tennis e ad andare a cavallo. Io ero affascinato dai suoni, catturato dalla loro magia, li cercavo e toccavo gli strumenti musicali che avevamo in casa». *** «Ci si potrebbe studiare la storia della musica del '900 su questo libro di Roman Vlad, uno degli ultimi testimoni del secolo scorso. Vivere la musica, la sua autobiografia scritta con l'aiuto di Vittorio Bonolis e Silvia Cappellini, è un viaggio nella cultura novecentesca senza alcuna pretesa saggistica e fa piuttosto leva sulla spontaneità del racconto». Federico Capitoni, «la Repubblica»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
ISBN
9788858405062
Parte seconda

Accademia Filarmonica Romana. Maggio Musicale Fiorentino

Il mio indissolubile rapporto con la Musica si basa sull’amore per essa; un amore totale, sentito sin dall’infanzia, nutrito nell’iniziale carriera pianistica, onorato e difeso svolgendo a tutto campo la «professione Musica», vivendo in perfetta simbiosi con essa. Leggendo, suonando, ascoltando i grandi capolavori musicali di ogni tempo ho provato profonde emozioni e ho sempre avuto il desiderio, spontaneo ma intenso, di trasmetterle ad altri, di spiegare la musica e i suoi meccanismi, la sua struttura interna, con semplicità di mezzi e di espressione, anche oltre ogni possibilità di comprensione razionale. Illustravo al pubblico la sostanza di una musica, usando termini tecnici che forse la grande maggioranza del pubblico non comprendeva, e facendo sentire gli elementi costitutivi sulla tastiera del pianoforte per superare questa difficoltà. Ho realizzato per la Radio e per la Televisione importanti cicli di conferenze sulla musica contemporanea, sulla storia del valzer, sull’importanza delle musiche popolari, del folklore. Non ho voluto essere considerato un critico musicale o un musicologo, ho cercato di parlare sempre solo di quello che ho amato, perché la penso come Rainer Maria Rilke: «Non la critica, ma solo l’amore può rendere giustizia ad un’opera d’arte».
Ho diretto riviste, come «Musica e dossier», da trent’anni faccio parte del comitato redazionale della «Nuova Rivista Musicale Italiana» e, nonostante i tanti impegni, non ho mai smesso di comporre. La mia carriera si è configurata in modo molteplice, contrariamente a quella che è una regola generale della nostra epoca, la specializzazione. Prendiamo ad esempio Gustav Mahler: il fatto che lui sia stato un grande direttore d’orchestra ha costituito per molto tempo, per decenni, un ostacolo al riconoscimento del Mahler compositore. Io, fin dall’inizio del mio lavoro, della mia carriera, non mi sono mai chiesto cosa fosse piú conveniente fare per ottenere il successo. In quel periodo, 1965-70, avevo molti interessi di natura organizzativa, e i primi impegni come organizzatore e promotore di attività culturali musicali mi provennero dall’Accademia Filarmonica Romana, seconda istituzione musicale per anzianità a Roma, dopo l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, fondata da Palestrina.
L’Accademia Filarmonica risale all’inizio dell’Ottocento, ebbe un illustre passato vantando accademici del calibro di Donizetti e Rossini. Dopo il periodo di difficoltà dovuto all’ultima guerra venne rianimata da un gruppo di sostenitori, fra i quali il duca Filippo Caffarelli, ma soprattutto da musicisti come Mario Peragallo e Goffredo Petrassi.
Dagli anni Cinquanta in poi resse le sorti dell’Accademia un singolare personaggio: Adriana Panni, che con il suo entusiasmo, la sua generosità e il suo proverbiale e prepotente decisionismo, fu la vera dominatrice della scena musicale romana nella seconda metà del secolo scorso. Aveva soprattutto un grande fiuto nell’individuare gli uomini giusti per il posto giusto, affidando la direzione artistica dell’Accademia alle personalità di maggiore valore allora disponibili. Fra queste appunto Mario Peragallo, ottimo compositore, allievo di Franco Alfano, che diresse per vari anni l’Accademia, e poi Petrassi, Antonio Pedrotti, alcune volte Massimo Bogianckino, Guido Turchi, Bruno Cagli, Hans Werner Henze, Gioacchino Lanza Tomasi, Giorgio Vidusso ed io stesso. L’incarico era biennale, con la possibilità di un ulteriore terzo anno; l’attività era frenetica e gratificante, l’Accademia promuoveva spettacoli di vario genere, musica da camera, teatro da camera, balletti, tutti di altissimo livello artistico.
Dopo la scomparsa di Adriana Panni, sono stato presidente dell’Accademia Filarmonica, e ora presidente onorario.
Successivamente venni invitato ad assumere le direzioni di alcuni tra i Teatri d’Opera piú importanti italiani. Il primo incarico si concretizzò nel 1964, quando mi affidarono la responsabilità artistica del Maggio Musicale Fiorentino, su proposta di Raffaello Ramat e del sindaco di Firenze dell’epoca, Giorgio La Pira, personaggio veramente straordinario. Andavo a trovarlo nel chiostro dei Domenicani dove mi riceveva quando era sindaco; aveva una grande vitalità e spargeva intorno a sé quasi un’atmosfera di luminosa fiducia. Ricordo il suo viaggio in Unione Sovietica per portare a Chruščëv i messaggi della Madonna!
Il Maggio Musicale Fiorentino fu dedicato all’Espressionismo, allora ancora molto poco conosciuto in Italia. Anche la musica di Schönberg, di Berg e Webern, anche le opere dei pittori del periodo espressionista non erano molto noti. L’Espressionismo è stato uno dei movimenti cruciali e piú importanti del secolo scorso, soprattutto del primo ventennio, dunque pensai di non limitare il Festival solo alla musica e immaginai una manifestazione che comprendesse anche la pittura, l’architettura, la letteratura, il cinema espressionista poiché, per la prima volta, si era evidenziata una convergenza interdisciplinare fra le varie arti. A questo scopo formai un comitato scientifico, chiedendo ad alcuni dei principali esponenti della cultura italiana che avevano dimestichezza con l’Espressionismo di farne parte. Aderirono Cesare Brandi, Carlo Giulio Argan, Palma Bucarelli, Luigi e Paolo Chiarini e Bruno Zevi per l’architettura, per il cinema Mario Verdone, Milloss per il balletto e il musicologo Luigi Rognoni. Viaggiai per l’Europa con Milloss al fine di raccogliere quello che ancora esisteva, o che era stato creato nella scia del movimento espressionista. Andammo a Berlino da Pamela Wedekind, la figlia del grande autore e attore Frank Wedekind, poi ad Essen, dove viveva ancora Kurt Jooss, autore di uno dei piú importanti balletti del primo dopoguerra: Der Grüne Tisch (Il tavolo verde) che fu riproposto e ricostruito per Firenze. Invitai Ernst Křenek, che viveva in America, a dirigere un concerto con le sue musiche; contattai la vedova di Arnold Schönberg, che mise a disposizione una grande parte della produzione pittorica del marito, per una mostra allestita a Firenze con molto successo, e inoltre gli appunti e i bozzetti originali delle scene e i costumi che il marito stesso aveva fatto per due sue opere importanti: La mano felice e Attesa (Die Glückliche Hand e Erwartung), e una completa indicazione della regia. Chiesi a Luigi Rognoni di realizzare queste due opere in modo scenografico, sulla base degli elementi stessi di Schönberg.
Il Festival, annunciato con un certo anticipo l’anno prima, suscitò una reazione violentissima da parte degli ambienti piú conservatori e anche di una certa critica. Ricordo benissimo quella che uscí sul «Messaggero» a firma di Renzo Rossellini, compositore, fratello del celeberrimo regista, il quale scrisse pressappoco queste frasi: «Popolo di Firenze dove sei, nelle fogne? Svegliati, insorgi e impedisci questa invasione del barbaro espressionismo». Lo stesso sovrintendente del Teatro Comunale, Pariso Votto, non aiutò ma cercò di ostacolare questa realizzazione. Una settimana prima dell’inaugurazione mi comunicò che il Festival non si poteva fare per mancanza di fondi. Ma intervenne Giorgio La Pira, i fondi furono reperiti, il Festival si fece e durò tutto il mese di maggio e una parte del mese di giugno. Il programma comprendeva una dozzina di opere con nuovi allestimenti scenici, opere difficilissime come il Doktor Faust di Busoni, un’opera quartitonale di Alois Hába, il Wozzeck di Berg, oltre ai concerti; un complesso di proposte quasi inimmaginabili e impensabili oggi, con gli Enti lirici e la Cultura penalizzati dai tagli ai finanziamenti e vessati dai gravi problemi gestionali. Tutti i Teatri in Italia oggi hanno il fiato corto, la programmazione è ridottissima, si rischia la cassa integrazione e la disoccupazione: sarebbe una catastrofe se ciò avvenisse. Torniamo al Maggio Fiorentino «espressionista».
Il Festival, pur cosí avversato, ebbe comunque grande fortuna con l’opera di Šostakovič Il naso, per la regia di Eduardo De Filippo e le scene di Mino Maccari; avevo scelto quest’opera per non limitare la programmazione del Maggio espressionista alla sola scuola viennese schönberghiana, ma estenderla anche a tutte quelle opere e a tutti quei Paesi che erano stati influenzati direttamente dall’Espressionismo viennese; nel programma avevo difatti inserito anche un’opera come Salomè di Richard Strauss che ebbe grande influenza sia su Berg che su Schönberg quando fu messa in scena la prima volta a Graz nel 1905. Voglio raccontare una vicenda, quasi un giallo, sulla partitura di questa opera che riuscii a rappresentare al Maggio nella versione francese di cui nessuno era a conoscenza, né l’editore, né la società Strauss, né i figli di Strauss. Tutti avevano semplicemente dimenticato che Strauss, dopo avere musicato una traduzione tedesca del testo francese di Oscar Wilde, fece un’altra edizione usando il testo originale di Wilde e la cosa era documentata anche da uno scambio epistolare con Romain Rolland, al quale Strauss si rivolse per avere consigli sulla prosodia francese. In modo molto avventuroso, grazie anche all’aiuto di Fedele d’Amico e di suo figlio Masolino che si occuparono di questo argomento, riuscimmo a trovare questa originaria partitura, una vera rarità, che fu messa in scena con grande successo, diretta da Georges Prêtre.
Oltre a Strauss, Schönberg e Křenek, presentai nel Festival anche una parte dell’Espressionismo americano rappresentato dal compositore Elliot Carter che invitai a Firenze a parlarne, citando a proposito anche Charles Ives, autore allora completamente ignoto, del quale furono eseguite alcune pagine.
Torniamo a Šostakovič. In Russia vigeva, come nel periodo nazista in Germania, una persecuzione vera e propria contro l’arte moderna, la musica in particolare, quella espressionista in modo particolarissimo, perché a Ždanov, il temibile censore che aveva la responsabilità della vita culturale sovietica, queste opere, questa corrente artistica, non piacevano per niente e anche Stalin era dello stesso avviso. Durante il primo decennio del regime sovietico c’era stato un periodo in cui l’apertura culturale era grande, soprattutto grazie a personalità come Lunačarskij, tanto che nel 1927 il Wozzeck di Alban Berg, capolavoro del teatro musicale espressionista, fu messo in scena in Russia con un grandissimo successo e il giovane Šostakovič, che era poco piú che ventenne, in quell’occasione andò a sentire non solo tutte le prove e la rappresentazione, ma fece anche un brindisi a Schönberg, «padre di noi tutti». Insieme col grande regista Mejerchold’ aveva fondato il Teatro cosiddetto biomeccanico e tra i lavori piú importanti che Šostakovič scrisse per questo teatro ci fu Il naso, su libretto tratto da una novella di Gogol’. Dopo poche rappresentazioni quest’opera fu proibita e non se ne ebbe piú notizia. Io però avevo saputo che era nella scia della scuola espressionista viennese; feci una ricerca e seppi che la partitura, non pubblicata, si trovava a Vienna presso la Universal Edition il cui direttore, Alfred Schlee, era mio amico. Mi recai allora a Vienna e dissi all’editore: «Ma come, avete questa partitura e non l’avete pubblicata?» «Non l’abbiamo fatto per non nuocere a Šostakovič che avrebbe avuto delle grandi difficoltà politiche nell’Unione Sovietica» fu la risposta di Schlee. In quel periodo, 1962-63, governava Nikita Chruščëv che favorí un breve momento di apertura, consentendo ad esempio a Stravinskij di rimettere piede in Russia dopo tanti anni e far ascoltare la Sagra della Primavera. Si respirava quindi una certa aria di libertà e io ne approfittai per incoraggiare Schlee a pubblicare la partitura, cosa che avvenne. Informai Šostakovič che ne fu molto felice, ma purtroppo la situazione poi cambiò: conservo ancora il telegramma in cui mi venne annunciato che Šostakovič non sarebbe potuto venire alla prima del Naso. La rappresentazione ebbe luogo nel giugno del ’64 ed ebbe un successo strepitoso alla Pergola, tanto che si sarebbero potute continuare le repliche se gli interpreti fossero stati disponibili. Il successo era dovuto anche in buona parte alla regia affidata ad Eduardo De Filippo, personaggio davvero straordinario; con lui e con la sua futura moglie Isabella Quarantotti, che allora fungeva da aiuto alla regia, ho mantenuto una lunga e solida amicizia. Le scene furono affidate a Mino Maccari, la traduzione italiana a Fedele d’Amico. Fu una delle migliori e piú grandi regie realizzate da De Filippo.
Il Maggio Fiorentino del ’64, allora tanto avversato, divenne quasi un mito e se ne parla ancor oggi come uno dei Festival piú importanti della storia del Teatro Comunale di Firenze. Il direttore dell’opera Il naso fu il giovanissimo Bruno Bartoletti, Salomè di Strauss fu diretta dall’allora giovanissimo Georges Prêtre.
Quando alla fine del 1968 venni richiamato una seconda volta a Firenze, non solo per organizzare il Festival ma per assumere la direzione artistica del Teatro Comunale, pensai subito a tematiche culturali e idee atte a completare il cammino intrapreso con il Maggio espressionista. Tra le due guerre mondiali c’era stata una reazione neoclassica contro l’Espressionismo, quindi dedicai al Neoclassicismo il Maggio successivo del 1970.
Crebbe l’importanza delle scuole nazionali in Europa, ebbe il suo peso anche l’influenza della musica extraeuropea che iniziava a manifestarsi. Debussy, per esempio, rimase molto impressionato dai suoni esotici dei Gamelan dell’Asia sudorientale che aveva visto e sentito in occasione della Grande Expò di Parigi nel 1889; Stockhausen, compositore allora emergente, utilizzava elementi specifici della musica indiana, della musica extraeuropea, dunque era in atto un forte rapporto con l’Oriente. Pensai cosí di dedicare una seconda edizione del Maggio, quello del ’71, al rapporto con le civiltà musicali extraeuropee e completare il ciclo nell’anno successivo, il ’72, informando il Maggio all’impegno civile, cioè alla musica nata durante e dopo la seconda guerra mondiale.

Svjatoslav Richter e Mstislav Rostropovič

La Russia, fin dalla metà dell’Ottocento, è stata la patria dei piú grandi pianisti, violinisti e violoncellisti cresciuti nelle famose scuole di San Pietroburgo e di Mosca. Ne ho conosciuti alcuni e ricordo fra questi soprattutto Svjatoslav Richter e Mstislav Rostropovič. Conobbi Richter nel 1970-71, quando ero direttore artistico del Teatro Comunale di Firenze; il giovane Riccardo Muti diresse un concerto con Richter al pianoforte. Il pianista era originario del Volga e la sua famiglia faceva parte di un gruppo sociale tedesco che si era insediato intorno a Stalingrado. Aveva studiato con Heinrich Neuhaus, un grande didatta, e il pianoforte lo conosceva molto bene, ma non era affatto, come si dice, un virtuoso, non gli importava niente di far brillare la sua bravura tecnica; era un musicista sensibilissimo, tutto intento al fraseggio, alla differenziazione sottile del timbro e del peso delle singole note di un accordo; era attento a scavare lo spirito della musica e con Muti ci fu un’intesa immediata, strinsero subito una sincera amicizia al punto che Svjatoslav fu testimone alle nozze di Riccardo Muti e Cristina Mazzavillani. Richter si accostava alla musica con grande umiltà, faceva musica tranquillamente e le sue interpretazioni avevano sempre un afflato spirituale che è il contrassegno dei migliori interpreti, non dei migliori esecutori. Era piú interprete che esecutore.
Molto diverso da lui è stato invece Mstislav Rostropovič, il celebre violoncellista e direttore d’orchestra. Di lui ho un ricordo molto acuto, direi indelebile: avevo istituito a Firenze un Concorso internazionale di violoncello intitolato a Gaspar Cassadò e in una edizione fu invitato a far parte della giuria anche Rostropovič. Venne quindi a Firenze e con lui arrivarono anche alcuni giovani violoncellisti sovietici, evidentemente suoi allievi. Ma Rostropovič, che conosceva bene il regolamento del concorso, non dichiarò di avere allievi fra i concorrenti e la questione non venne evidenziata. Il concorso si chiuse, con ricevimento finale; non ricordo piú chi lo vinse ma tra i vincitori non c’erano i sovietici. In piena notte squilla il mio telefono: era Piero Farulli, la viola del Quartetto Italiano, direttore e fondatore della benemerita Scuola di Fiesole, acceso comunista, amico di Rostropovič e autorevole membro della Commissione. «Roman, dobbiamo rifare il concorso!»
«Come rifare, – risposi, – il concorso non si può rifare!»
«Ma Rostropovič è disperato, – riprese Farulli, – piange e dice che non può tornare in Russia se almeno uno dei sovietici non ha un premio».
Devo dire la verità, in un primo momento rifiutai ma poi non ebbi il coraggio di mettere in difficoltà Rostropovič. La graduatoria non si poteva rifare ma dopo aver consultato il Consiglio di Amministrazione e i membri della Giuria, si decise di aggiungere un premio speciale che conferimmo ad uno dei giovani concorrenti sovietici. Rostropovič fece ritorno in Russia senza subire rappresaglie ma qualche tempo dopo riuscí ad evadere dall’Urss rifugiandosi nei Paesi del mondo libero.
Ho voluto ricordare questo episodio per rendere palpabile cosa fosse la realtà del regime in Unione Sovietica in quel tempo e il clima di terrore nel quale dovevano lavorare gli artisti, anche i maggiori, nella Russia di Stalin.

Aurel Milloss

Nella cerchia di Cesare Brandi avevo conosciuto tanti personaggi, fra cui Aurelio Milloss, esattamente Aurel Miholy Milloss; di origine magiaro-rumena, era nato nella vecchia Serbia da nobile famiglia. Allievo e collaboratore di Rudolf von Laban, uno dei piú importanti coreografi di stampo espressionista, era stato ballerino e coreografo al Teatro dell’Opera di Bucarest e, successivamente, aveva lavorato e vissuto a Berlino per qualche tempo, prima della presa del potere da parte dei nazisti.
Quando andò al potere Hitler e Göbbels diede inizio alla campagna persecutoria contro le arti degenerate (fra queste ovviamente anche la danza), Milloss cominciò a sentirsi a disagio in Germania, forse anche in pericolo; decise di venire in Italia perché il governo di Roma, negli anni Trenta, era piuttosto distante dalla politica culturale della Germania. Non bisogna dimenticare che quando in Austria, prima dell’annessione, i nazisti austriaci uccisero nel 1934 il cancelliere Dollfuss, Mussolini ospitò la famiglia di lui in Italia, dandole protezione, opponendosi con vigore alle mire espansionistiche tedesche sull’Austria.
Milloss fu assunto al Reale Teatro dell’Opera, il Costanzi, quale direttore del Corpo di ballo. Fu Tullio Serafin a volerlo. Milloss, molto bello, alto, dagli occhi splendenti, era molto di piú che un semplice ballerino e coreografo: era un uomo di grande cultura; poneva però la danza al centro dei suoi interessi e del suo personale concetto di essere nel mondo; solo ed unicamente la danza, una sorta di mania, un fanatismo! Iniziammo a collaborare e da una mia idea musicale esposta al pianoforte, Brandi e Milloss trassero lo spunto per realizzare un balletto; Brandi scrisse il soggetto, io composi le musiche e Milloss curò la coreografia, il balletto si chiamò La strada sul caffè e doveva prefigurare il ritorno alla vita normale dopo gli sconquassi del periodo bellico, il simbolo della rinascita, del lavoro, dei valori civili al di sopra della banalità del vivere quotidiano, appunto, il caffè. Ma successe un fatto nuovo e il balletto non fu messo in scena: Roma nel 1944 era stata liberata ma Venezia ancora non lo era; il direttore artistico del Festival di musica contemporanea di Venezia, Mario Labroca, compositore e organizzatore, non potendo realizzare il Festival in loco per ovvie ragioni, concepí l’idea di trasferirlo a Roma, ai Teatri Quirino e Adriano, e chiese la partecipazione di Milloss con un balletto creato per l’occasione. Milloss accettò l’invito e immaginò uno spettacolo dal titolo La dama delle camelie, balletto in cinque valzer, praticamente la Traviata inserita in una storia popolata da vari personaggi. Il nuovo lavoro venne rappresentato nel giugno 1945, io scrissi le musiche e a dirigerle venne chiamato il giovane Franco Caracciolo. Il balletto ebbe ottime recensioni dalla critica ufficiale e fu apprezzato anche da intellettuali, artisti e appassionati dell’arte coreutica; le mie musiche ottennero un vero grande successo, Alberto Savinio le definí «sognate» e Toti Scialoja scrisse che «la mia musica spaccava il cuore con una piuma».
Milloss, in quel momento, era il personaggio centrale della vita artistica romana, la sua collaborazione con Tullio Serafin diede un grande impulso e lustro al Teatro dell’Opera di Roma; ricordo come, nel 1941-42, creò la regia, la concezione scenica (affidandola al suo amico István Pekáry) dell’opera Wozzeck di Alban Berg, un’autentica novità per l’Italia; come assoluta e arditissima fu la realizzazione, sempre nel 1941 al Teatro dell’Opera, del balletto La Sagra della Primavera di Stravinskij, in prima esecuzione scenica in Italia con l’orchestra e il corpo di ballo: questo capolavoro in quel periodo era già nella lista nera di proscrizione stilata da Göbbels come esempio di arte degenerata, da condannare e proibire. Göbbels già nel 1938 aveva fatto allestire a Monaco di Baviera una mostra di spettacoli di vario genere, definiti mostruosi e degenerati, secondo il suo credo politico-artistico, consentendone la visione o l’ascolto in piccole cabine attrezzate; si poteva ascoltare anche la Sagra, considerata dal regime la piú repellente, ma lo scopo, l’effetto sul pubblico non fu quello che Göbbels desiderava perché davanti alla cabina che trasmetteva il balletto c’era sempre una interminabile fila di gente in attesa.
In precedenza, Milloss aveva messo a segno un altro colpo formidabile, un’altra impresa inimmaginabile: il Tea...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Nota dei curatori
  5. Vivere la musica
  6. Parte prima
  7. Parte seconda
  8. Parte terza