È stato cosí
eBook - ePub

È stato cosí

  1. 162 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«Gli ho detto: - Dimmi la verità, - e ha detto: - Quale verità, - e disegnava in fretta qualcosa sul suo taccuino e m'ha mostrato cos'era, era un treno lungo lungo con una grossa nuvola di fumo nero e lui che si sporgeva dal finestrino e salutava col fazzoletto. Gli ho sparato negli occhi».
Comincia in questo modo il secondo romanzo di Natalia Ginzburg. Pubblicato nel 1947, È stato cosí (poi riproposto dall'autrice nel volume Cinque romanzi brevi, insieme con La strada che va in città, Valentino, Sagittario, Le voci della sera ) è la storia di un amore disperato e geloso, una confessione dettata dalla dolorosa lucidità di una moglie che per anni ha sopportato la relazione extraconiugale del marito. Con una nota dell'autrice, la cronologia della vita e delle opere e, a cura di Domenico Scarpa, le Notizie sul testo.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a È stato cosí di Natalia Ginzburg,Italo Calvino in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Letteratura generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858404102

È stato cosí

A Leone
Gli ho detto: – Dimmi la verità, – e ha detto: – Quale verità, – e disegnava in fretta qualcosa nel suo taccuino e m’ha mostrato cos’era, era un treno lungo lungo con una grossa nuvola di fumo nero e lui che si sporgeva dal finestrino e salutava col fazzoletto.
Gli ho sparato negli occhi.
M’aveva detto di preparargli il termos per il viaggio. Sono andata in cucina e ho fatto il tè, ci ho messo il latte e lo zucchero e l’ho versato nel termos, ho avvitato per bene il bicchierino e poi sono tornata nello studio. Allora m’ha mostrato il disegno e ho preso la rivoltella nel cassetto del suo scrittoio e gli ho sparato. Gli ho sparato negli occhi.
Ma già da tanto tempo pensavo che una volta o l’altra gli facevo cosí.
Poi mi sono infilata l’impermeabile e i guanti e sono uscita. Ho preso un caffè al bar e mi son messa a camminare a caso per tutta la città. Era una giornata freddina e tirava un vento leggero che aveva sapore di pioggia. Mi son seduta su una panchina nel giardino pubblico e mi son tolta i guanti e mi son guardata le mani. Mi son tolta la fede e l’ho messa in tasca.
Siamo stati marito e moglie per quattro anni. Mi diceva che mi voleva lasciare, ma poi è morta la nostra bambina e cosí siamo rimasti insieme. Lui voleva che avessimo un altro figlio, diceva che m’avrebbe fatto bene, cosí facevamo spesso all’amore negli ultimi tempi. Ma non ci è riuscito di avere un altro bambino.
L’ho trovato che faceva le valige e gli ho chiesto dove andava. Mi ha detto che andava a Roma a decidere una certa causa con un legale. M’ha detto che potevo andare dai miei genitori, cosí non stavo sola in casa nel tempo che lui era via. Non sapeva quando sarebbe tornato da Roma, fra quindici giorni, fra un mese, non sapeva bene. Io pensavo che magari non sarebbe tornato. Ho fatto anch’io le valige. M’ha detto di prendere qualche romanzo da leggere per non annoiarmi. Ho preso nello scaffale La fiera delle vanità e due libri di Galsworthy e li ho messi nella mia valigia.
Gli ho detto: – Dimmi la verità Alberto, – e ha detto: – Quale verità, – e io ho detto: – Andate via insieme, – e ha detto: – Chi insieme –. E ha detto: – Tu lavori sempre di fantasia e ti mangi l’anima dentro a immaginare tante cose terribili, e cosí non hai pace e non dài pace agli altri.
M’ha detto: – Prendi la corriera che arriva alle due a Maona, – e io ho detto: – Sí.
Ha guardato il cielo e mi ha detto: – Farai bene a metterti l’impermeabile e gli stivali da pioggia.
Gli ho detto: – Preferisco sapere la verità in qualunque modo, – e lui s’è messo a ridere e ha detto:
Verità va cercando, ch’è sí cara,
Come sa chi per lei vita rifiuta.
Sono stata su quella panchina non so quanto tempo. Il giardino pubblico era deserto, le panchine erano umide di nebbia e il terreno era coperto di foglie fradice. Mi son messa a pensare a quello che avrei fatto. Mi dicevo che sarei andata in questura fra un po’. Avrei cercato di spiegare piú o meno com’erano andate le cose, ma non sarebbe stato facile. Bisognava cominciare dal primo giorno, da quando ci siamo conosciuti in casa del dottor Gaudenzi. Suonava il pianoforte a quattro mani con la moglie del dottor Gaudenzi e cantava certe canzoncine in dialetto. Mi guardava. Ha fatto un disegno della mia faccia a matita nel suo taccuino. Ho detto che mi pareva che mi assomigliasse, ma lui ha detto di no e ha strappato il foglio. Il dottor Gaudenzi ha detto: – Non sa mai fare il ritratto alle donne che gli piacciono –. Mi hanno dato da fumare una sigaretta e si son divertiti a vedere come mi lagrimavano gli occhi. Alberto mi ha riaccompagnato alla pensione e m’ha chiesto se poteva tornare l’indomani a trovarmi e a portarmi un romanzo francese di cui m’aveva parlato.
Il giorno dopo è venuto. Siamo usciti insieme e abbiamo passeggiato un poco e poi siamo andati al caffè. Mi guardava con gli occhi allegri e accesi e pensavo che forse era innamorato di me. Siccome non m’era ancora successo che un uomo mi amasse ero molto contenta e sarei rimasta non so quante ore con lui al caffè. Siamo andati a teatro la sera e mi son messa l’abito piú bello che avevo, un abito di velluto granata che m’aveva regalato mia cugina Francesca.
Francesca era anche lei a teatro dietro di noi e m’ha fatto segno. Il giorno dopo quando sono andata dagli zii a pranzo, Francesca m’ha chiesto: – Chi era quel vecchio. – Che vecchio, – dico. Dice: – Quel vecchio a teatro –. Allora le ho detto che era un tale che mi faceva la corte ma non me ne importava niente.
Quando è tornato alla pensione a trovarmi l’ho guardato bene e non m’è sembrato poi cosí vecchio. Francesca dice sempre vecchio a tutti. Ma non mi piaceva e soltanto ero molto contenta quando veniva da me alla pensione perché mi guardava con degli occhi cosí allegri e accesi, e allora fa piacere quando c’è un uomo che guarda cosí. Pensavo che forse era molto innamorato di me e pensavo: «Poverino» e immaginavo quando m’avrebbe chiesto di sposarlo, le parole che m’avrebbe detto. Io allora gli avrei detto no e m’avrebbe chiesto se potevamo restare amici e mi avrebbe ancora portato a teatro e una sera m’avrebbe presentato a un suo amico piú giovane che si sarebbe molto innamorato di me e io avrei sposato questo amico. Avremmo avuto tanti bambini e Alberto sarebbe venuto a trovarci e avrebbe portato un grosso panettone a Natale e sarebbe stato contento ma un po’ malinconico.
Immaginavo sempre tante cose sdraiata sul mio letto nella pensione e pensavo come sarebbe stato bello se mi fossi sposata e avessi avuto una casa per me. Immaginavo come sarebbe stata la mia casa con mille piccoli oggetti eleganti e piante verdi, e immaginavo come avrei ricamato dei fazzolettini sdraiata in una grande poltrona. L’uomo che avrei sposato aveva ora una faccia e ora un’altra, ma la voce era sempre la stessa e ascoltavo dentro di me quella voce ripetere sempre le stesse parole ironiche e tenere. Era una tetra pensione con delle tappezzerie scure, e nella camera accanto alla mia c’era la vedova d’un colonnello che batteva nel muro con una spazzola ogni volta che spostavo una sedia o aprivo la finestra. Al mattino dovevo alzarmi presto per correre alla scuola dove insegnavo. Vestendomi in gran fretta mangiavo un panino e facevo bollire un uovo sul fornello a spirito. La vedova del colonnello batteva furiosamente nel muro con la sua spazzola mentre camminavo per la stanza cercando i vestiti e la figlia della padrona che era isterica strideva come un pavone nella stanza da bagno perché le facevano fare certe docce calde che avrebbero dovuto calmarla. Mi gettavo fuori nella strada e mentre aspettavo il tram nel mattino gelido e deserto mi divertivo a inventare tante storie strane che mi scaldavano e cosí certe volte arrivavo a scuola con una faccia assorta e stralunata che doveva essere piuttosto buffa a vedersi.
A una ragazza le fa tanto piacere pensare che forse un uomo è innamorato di lei, e allora anche se non è innamorata è un po’ come se lo fosse e diventa molto piú carina con gli occhi che splendono e il passo leggero e la voce piú leggera e piú dolce. Prima di conoscere Alberto io tante volte pensavo che sarei rimasta sempre sola perché mi sentivo cosí scialba e senza attrattive, e invece quando l’ho incontrato mi pareva che fosse innamorato di me e allora mi dicevo che se piacevo a lui potevo piacere anche a un altro, magari all’uomo con la voce ironica e dolce che parlava dentro di me. Quest’uomo aveva ora una faccia e ora un’altra, ma aveva sempre delle spalle grandi e robuste e delle mani rosse e un po’ goffe e aveva un modo delizioso di burlarsi di me quando tornava nella nostra casa la sera e mi trovava sdraiata in poltrona a ricamare dei fazzoletti.
Una ragazza quando sta molto sola e fa una vita piuttosto monotona e faticosa con pochi spiccioli nella borsetta e dei guanti logori, va dietro a tante cose con la fantasia e si trova senza difesa davanti agli errori e ai pericoli che la fantasia prepara ogni giorno a tutte le ragazze. Preda debole e inerme della fantasia io leggevo Ovidio in una vasta classe fredda a diciotto bambine e mangiavo nella tetra sala da pranzo della pensione guardando fuori dai vetri dipinti di giallo e aspettavo che Alberto venisse a prendermi per andare al concerto o a passeggio. Il pomeriggio del sabato salivo nella corriera a Porta Vittoria e andavo a Maona. Ripartivo la domenica sera.
Mio padre è medico condotto a Maona da piú di vent’anni. È un vecchio alto grasso e un po’ zoppo che cammina appoggiandosi a un bastone di legno di ciliegio. D’estate ha un cappello di paglia con un nastro nero e d’inverno ha un berretto di castoro e un cappotto bordato di castoro. Mia madre è una donnetta piccina con una gran matassa di capelli bianchi. Mio padre lo chiamano poco perché è vecchio e si muove a fatica e chiamano invece il medico di Cavapietra che ha la motocicletta e ha studiato a Napoli. Mio padre e mia madre passano le giornate in cucina a giocare a scacchi col veterinario e l’assessore comunale. Io quando arrivavo a Maona il sabato mi sedevo vicino alla stufa e lí seduta stavo tutta la domenica fino all’ora di ripartire. Mi arrostivo accanto alla stufa e dormicchiavo gonfia di polenta e di minestra senza dire neanche una parola e mio padre tra una partita e l’altra di scacchi raccontava al veterinario che le ragazze moderne hanno perso il rispetto e non dicono neanche una parola di quello che fanno.
Quando mi trovavo con Alberto gli parlavo di mio padre e di mia madre e gli raccontavo come avevo vissuto a Maona prima di venire in città a insegnare, gli raccontavo di quando mio padre mi picchiava sulle mani col suo bastone e io andavo a piangere nello stanzino del carbone o quando nascondevo Schiava o regina sotto il materasso per leggermelo di notte o quando si andava al cimitero, io e mio padre e la serva e l’assessore comunale sulla strada che scende al cimitero fra i campi e i vigneti, una tremenda voglia di scappare lontano che mi prendeva a guardare quei campi e la collina deserta.
Ma invece Alberto non mi raccontava mai niente di sé e io m’ero avvezzata a non chiedergli niente, perché non m’era mai successo nella mia vita che qualcuno s’interessasse tanto a me e mi chiedesse tante cose come se avesse una grande importanza tutto quello che avevo detto o avevo pensato sulla strada del cimitero o nello stanzino del carbone, e allora mi sentivo molto contenta e non piú molto sola quando passeggiavo con Alberto nella città o quando siedevamo al caffè insieme. Lui m’aveva detto che abitava con sua madre che era vecchia e malata. La moglie del dottor Gaudenzi m’aveva detto che questa madre era una vecchia pazza piena di quattrini che passava le giornate a studiare il sanscrito e fumava sigarette in un bocchino d’avorio e non vedeva nessuno all’infuori d’un frate domenicano che veniva ogni sera a leggerle le Lettere di san Paolo, da anni non usciva di casa perché diceva che le dolevano i piedi a infilare le scarpe e stava sempre seduta su una poltrona nella sua villa con una cuoca giovane che rubava sulla spesa e che la maltrattava. Ma a Alberto non piaceva parlare di sé e in principio non me ne importava ma invece poi mi dispiaceva un poco, e provavo a domandargli qualcosa ma allora la sua faccia diventava come assorta e lontana e gli occhi gli si appannavano come succede agli uccelli ammalati, quando gli domandavo di sua madre o del suo lavoro o della sua vita.
Non mi diceva mai che era innamorato di me, ma io lo credevo perché veniva spesso a trovarmi alla pensione, e mi portava in regalo dei libri e dei cioccolatini e voleva che uscissimo insieme. Pensavo che forse era timido e non osava parlare e aspettavo che mi dicesse che era innamorato di me per raccontarlo a Francesca. Francesca aveva sempre tante cose da raccontare e io mai niente. Ma poi l’ho raccontato a Francesca che era innamorato di me anche se non mi aveva detto niente, perché mi aveva regalato dei guanti di camoscio marrone, e quel giorno mi sentivo sicura che lui mi voleva bene. E le ho detto che non l’avrei sposato perché era troppo vecchio, non sapevo bene quanti anni aveva ma doveva averne piú di quaranta e io allora solo ventisei. Ma Francesca m’ha detto che me lo levassi dattorno perché era un tipo che non le andava per niente, e m’ha detto che glieli sbattessi sul muso i suoi guanti perché non erano piú di moda cosí con gli automatici sul polso e mi davano un’aria provinciale. M’ha detto che aveva l’idea che mi sarei trovata in un pasticcio con quel tipo lí. Francesca aveva soltanto vent’anni a quel tempo ma io le davo sempre ascolto perché mi pareva molto intelligente. Ma quella volta invece non le ho dato ascolto e i guanti li mettevo sempre e mi piacevano anche se avevano gli automatici, e mi piaceva stare con lui e ho continuato a vederlo, perché a ventisei anni non m’era ancora successo che un uomo mi facesse dei regali e si curasse di me, e la mia vita mi pareva cosí malinconica e vuota, pensavo che Francesca faceva presto a parlare lei che aveva tutto quello di cui aveva voglia nella sua vita, e viaggiava e faceva sempre tante cose divertenti.
E poi è venuta l’estate e sono andata a Maona e m’aspettavo che lui mi scrivesse ma non m’ha scritto mai altro che una cartolina con la firma da un paese sui laghi. Mi annoiavo a Maona e le giornate non passavano mai. Stavo seduta in cucina o mi sdraiavo a leggere nella mia stanza. Mia madre con la testa avvolta in un tovagliolo pelava i pomodori sulla terrazza e li metteva a seccare su un asse di legno per la conserva, mio padre sedeva sul muretto della piazza davanti a casa col veterinario e l’assessore e faceva dei segni nella polvere col suo bastone. La serva lavava alla fontana nel cortile torcendo i panni con le sue braccia rosse e muscolose, le mosche ronzavano sui pomodori e mia madre puliva il coltello con un giornale e s’asciugava le mani impiastricciate. Guardavo la cartolina che m’aveva mandato Alberto e ormai la sapevo a memoria quella cartolina, il lago e il raggio di sole e le barche a vela, non capivo perché solo una cartolina e nient’altro. Aspettavo sempre la posta. Francesca mi ha scritto due volte da Roma dov’era andata sola con un’amica a studiare alla scuola di Filodrammatica, in una lettera mi diceva che era fidanzata e in un’altra diceva poi che era andato tutto in aria. Tante volte pensavo che Alberto forse sarebbe venuto a trovarmi lí a Maona. Mio padre si sarebbe stupito al primo momento, ma gli avrei detto che era un amico del dottor Gaudenzi. Andavo in cucina e portavo via il secchio della spazzatura perché puzzava, lo mettevo nello stanzino del carbone, ma la serva lo riportava in cucina perché diceva che non puzzava per niente. Un po’ avevo paura che venisse perché avevo vergogna del secchio della spazzatura e di mia madre con la testa nel tovagliolo e le mani impiastricciate di pomodori e un po’ lo aspettavo e credevo sempre di vederlo ogni volta che m’affacciavo alla finestra a guardare chi scendeva dalla corriera, se vedevo uno piccolo con l’impermeabile bianco mi prendeva come un affanno e mi sentivo tremare ma non era lui e allora rientravo nella mia stanza a leggere e a pensare fino all’ora del pranzo. Tante volte mi provavo a pensare ancora all’uomo con la voce ironica e le spalle larghe, ma si faceva sempre piú lontano quell’uomo e la sua faccia sconosciuta e mutevole non aveva piú senso per me.
Quando sono tornata in città l’ho aspettato Alberto perché pensavo che dovesse immaginarlo che io ero tornata, dato che riaprivano le scuole. Ma non veniva e ogni sera mi pettinavo e m’incipriavo e sedevo ad aspettarlo ma non veniva e allora mi coricavo. Era una tetra pensione con delle tappezzerie a fiorami e si sentiva l’urlo di pavone della figlia della padrona che non voleva spogliarsi. Avevo il suo indirizzo e anche il numero del telefono ma non osavo chiamarlo, era stato sempre lui a venire da me alla pensione. Mi dicevo che forse non era ancora tornato in città. Ma un giorno allora da un telefono pubblico ho fatto il suo numero e ha risposto lui con la sua voce, non ho parlato e ho posato il ricevitore pian piano. Tutte le sere m’incipriavo e aspettavo. Avevo vergogna e fingevo con me stessa di non aspettare, mi mettevo a leggere un libro ma non capivo il senso di quello che leggevo. Le notti erano ancora calde e tenevo la finestra aperta, sentivo i tram che correvano lungo i viali e pensavo che forse lui era in uno di quei tram col suo impermeabile bianco e la borsa di cuoio, assorto nelle attività misteriose della sua vita di cui non mi voleva mai parlare.
E cosí allora mi sono innamorata di lui, mentre lo aspettavo seduta nella mia stanza della pensione col viso incipriato e passavano le mezz’ore e le ore e si sentiva l’urlo di pavone e mentre camminavo nella città guardando sempre se lo vedevo passare, e mi tremava il cuore ogni volta che vedevo un uomo piccolo con un impermeabile bianco e una spalla piú alta dell’altra. Cosí ho cominciato a pensare sempre alla sua vita, come lui doveva vivere nella sua villa con la madre che studiava il sanscrito e non voleva infilarsi le scarpe, e ho cominciato a pensare che se mi chiedeva di sposarlo gli dicevo sí e allora avrei potuto sapere in ogni ora e in ogni minuto dov’era e cosa faceva e la sera quando fosse ritornato a casa avrebbe buttato l’impermeabile su una sedia nell’andito e io l’avrei appeso dentro l’armadio. Francesca non era ancora tornata da Roma e pensavo che quando fosse tornata m’avrebbe chiesto di Alberto e io allora avrei dovuto dirle che non l’avevo piú veduto dopo l’estate e lei avrebbe detto: – Ma come se era innamorato di te, – e si sarebbe stupita e avrei avuto vergogna.
Sono andata dai Gaudenzi un giorno per vedere se ce lo trovavo o se dicevano qualcosa di lui. Non c’era il dottore, c’era soltanto la moglie che stava lavando i vetri. Son rimasta a guardare come strofinava i vetri e m’ha spiegato che prima si deve fare con dei giornali e cenere sciolta nell’acqua e poi fregare pian piano con uno straccio di lana e allora vengono lucidi che è uno splendore. E poi è scesa giú dalla scala e m’ha fatto la cioccolata ma non mi diceva niente di lui e cosí me ne sono andata via.
Un giorno l’ho incontrato per la strada. L’ho visto da lontano con la sua borsa di cuoio e l’impermeabile aperto che svolazzava. L’ho seguito per un tratto camminando dietro di lui. Non si voltava e fumava scuotendo via la cenere e s’è fermato a spegnere la cicca col piede, allora m’ha visto. Era molto contento e siamo andati al caffè. Mi ha detto che aveva avuto molto da fare e per questo non era ancora venuto da me alla pensione, ma tante volte aveva pensato a me. Lo guardavo e cercavo di riconoscere in quel piccolo uomo dai riccioli grigi la cosa che m’aveva tormentato e riempito d’angoscia per tutto quel tempo. Mi sentivo tutta fredda e avvilita e come rotta dentro. M’ha chiesto come avevo passato l’estate e se m’ero nascosta nello stanzino del carbone e allora abbiamo riso insieme. Ricordava ogni cosa che io gli avevo detto di me, niente aveva dimenticato. Gli ho chiesto come lui aveva passato l’estate. Subito ha preso una aria come stanca e lontana e m’ha detto che soltanto aveva guardato il lago e che gli piacevano molto i laghi perché non c’è nessuna violenza nella luce e nel colore di un lago e invece il mare è qualcosa di troppo grande e crudele con le sue luci e i suoi colori violenti.
Ma dopo un po’ che eravamo insieme eravamo di nuovo come prima e ridevamo insieme delle cose che io gli raccontavo. Pareva molto molto contento di stare con me e anch’io ero molto contenta e avevo dimenticato che l’avevo aspettato inutilmente per tanto tempo, mi dicevo che forse davvero aveva avuto molto da fare. Gli parlavo di mio padre e di mia madre e dell’assessore e della gente nuova che c’era adesso alla pensione, e lui disegnava in fretta la mia faccia nel taccuino mentre io parlavo e poi strappava il foglio e disegnava di nuovo la mia faccia. E ha fatto anche un disegno del lago e lui che remava in una barchettina e sulla riva delle vecchie signore con dei piccoli cani riccioluti dalla coda ritta che pisciavano contro le piante.
Abbiamo ricominciato a vederci quasi ogni giorno o la sera e quando rientravo alla pensione e salivo nella mia stanza mi chiedevo se lui era innamorato di me e se io ero innamorata di lui e non capivo piú niente. Non mi diceva mai delle parole d’amore e anch’io certo non gli parlavo di questo, ma parlavo della mia scuola e della pensione e dei libri che avevo letto. Pensavo alle sue mani piccole e gracili che disegnavano nel taccuino e i riccioli grigi intorno al viso magro e il piccolo corpo gracile nell’impermeabile bianco che andava nella città. Ci pensavo tutto il giorno e non vedevo niente altro, e ora erano le mani ora il taccuino ora l’impermeabile e poi di nuovo il taccuino e i riccioli sotto il cappello e il viso magro e le mani. Leggevo Senofonte a diciotto bambine nella classe riverniciata di verde con la carta geografica dell’Asia e il ritratto del papa, mangiavo nella saletta da pranzo della pensione con la padrona che passeggiava fra i tavoli e salivo sulla corriera di Porta Vittoria il sabato e mi sentivo diventare idiota perché non mi riusciva di provare interesse per nessuno e per niente. Non mi sentivo piú tanto sicura che lui mi amasse. Eppure mi portava dei libri e dei cioccolatini e pareva molto molto contento di stare con me. Ma non mi diceva mai niente della sua vita e mentre leggevo Senofonte in classe o scrivevo i voti nei registri non avevo davanti al mio pensiero che il suo piccolo corpo assorto nelle sue attività misteriose, il suo piccolo corpo nell’impermeabile bianco svolazzante per la città dietro a desiderî e impulsi sconosciuti a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prefazione
  5. È stato cosí
  6. Nota
  7. Dedica
  8. Appendice
  9. Notizie sul testo
  10. Antologia della critica
  11. Bibliografia